Dalle bombe allo skiffle
Roddy è stato lo sbaglio di papà. Ma, come sbaglio, abbastanza redditizio.
Questa storia inizia durante una fredda notte d’inverno, per la precisione la notte del 10 gennaio 1945 in una piccola camera da letto all’ultimo piano di una tipica casa a schiera in Archway Road. Nel sobborgo di Highgate, a nord-est di Hampstead Heath, viene alla luce il piccolo Roderick David, quinto frutto dell’amore tra Bob ed Elsie Stewart quando Londra è ancora scossa dalle bombe tedesche. Nei loro Fourties, Bob ed Elsie non hanno mai preso in considerazione l’idea di spostarsi, magari in campagna per evitare che un missile V2 potesse sfondare il tetto di casa. La famiglia Stewart deve restare unita, anche solo per rispettare le fiere origini scozzesi, nonostante “l’ultimo sbaglio di papà” sia nato inglese. Bob Stewart è infatti originario di Leith, a nord di Edimburgo, trasferitosi a Londra per seguire il lavoro nella marina mercantile insieme ai fratelli. È qui che incontra Elsie, una autentica londoner di Tufnell Park, prima di dare alla luce tre maschi e due femmine. La prole è numerosa, e questo fatto non si sposa benissimo con due fattori: la guerra mondiale e i vizi di Bob, che non beve ma fuma e gioca d’azzardo, in particolare scommesse sulle corse dei cavalli. Ma la famiglia Stewart va avanti, fiera e unita. Riescono a permettersi addirittura un pianoforte, suonato in particolare da Elsie e dal figlio Don, e un telefono che serve a Bob per organizzare le partite del suo club di football, Highgate Redwing, che gestisce in prima persona come hobby. Il piccolo Roderick, ancora fuori età per il calcio, vede sempre arrivare i suoi primi “idoli sportivi” nelle riunioni tecniche a casa Stewart. Anche perché i due fratelli maggiori, Don e Bob, giocano proprio nell’Highgate Redwing. Quando non si gioca, si festeggia. Durante le feste nel basement di casa Stewart si suona il piano, si canta e si balla. Una prima, decisiva influenza per il giovanissimo Roderick David.
Si diceva, Roderick nasce quinto di cinque figli per Bob ed Elsie. La differenza di età con fratelli e sorelle è evidente, e difatti quando ha solo 11 anni vede praticamente svanire tutta la sua famiglia. Prima Mary sposa il camionista Fred; poi Peggy sposa Jim, che ha combattuto in guerra a Cassino, in Italia. Poi tocca a Bob e Don, a circa 26 anni. Ma la famiglia Stewart, di fiere origini scozzesi, non si slega, anzi. Tutti i figli vanno a vivere vicino, proprio per restare sempre uniti. Nessuno di loro è particolarmente stupito quando l’adolescente Roderick annuncia di non aver superato l’esame noto come Eleven Plus, introdotto in Inghilterra nel 1944 e somministrato agli studenti nell’ultimo anno di istruzione primaria. Roderick viene così spedito alla William Grimshaw Secondary Modern, insieme ad altri due studenti che si chiamano Ray e Dave Davies. Il ragazzo è sufficientemente disciplinato, ma dimostra subito una predisposizione maggiore per le arti – anche se viene riconosciuto daltonico dopo alcuni test di identificazione dei colori – e soprattutto per lo sport di squadra, essendo capitano dei due team scolastici di cricket e calcio. Tra i suoi primi amori c’è anche la musica, quando il fratello Don lo porta a vedere un concerto di Bill Haley and the Comets nel 1954. Per incoraggiarlo, la famiglia gli regala per il compimento dei suoi 15 anni una classica chitarra spagnola. Armato del suo nuovo strumento, il giovane Roderick inizia a strimpellare seguendo lo stile skiffle, importato dal Nord America con la tradizione delle jug band e la fama di Lonnie Donegan grazie a brani come “Rock Island Line”. Kool Kats è il nome del primissimo gruppo formato da Roderick, che abbandona definitivamente gli studi per iniziare il suo personale viaggio che lo porterà a essere Rod.
Essere Bob Dylan
È quello che ho in comune con la Regina: entrambi abbiamo più o meno lo stesso taglio di capelli da quarantacinque anni. Bene, quando si dice trovare qualcosa che funziona per te...
Interrotto così bruscamente il percorso scolastico, Roderick David Stewart ha una idea ben precisa su quello che un working-class kid non qualificato può tentare per sfondare nella vita: giocare a calcio. All’età di 15 anni si guadagna un contratto di “apprendistato” nelle giovanili del Brentford Football Club, sognando un giorno di diventare un titolare in squadre molto più celebri come lo United o il Real Madrid. Ben presto scopre che il concetto di “apprendistato” in una squadra di calcio è molto più simile a un regime militare, dove bisogna lucidare gli scarpini ai membri della prima squadra o pulire gli spogliatoi. Da fiero scozzese d’origine, Roderick non ci sta e fa subito le valigie. Nell’estate del 1960 ci riprova, spinto soprattutto dal padre, quando viene richiamato dal Brentford per un provino. Verrà subito scartato, la fine della sua brevissima parentesi nel mondo del calcio professionistico.
Se scuola e calcio non sono la via per il futuro, dall’estate del 1960 bisogna darsi da fare. Roderick prova con la stampa serigrafica in un’azienda a Kentish Town, con una buona paga che gli permette già di aprire un conto alle poste. Ma è solo il primo di una lunga serie di lavori molto brevi: incorniciatore, elettricista, manovale per il cimitero di Highgate e impiegato per un’impresa di pompe funebri a Barnet. Il ragazzo non è portato, vive ancora con i genitori e soprattutto non ama il lavoro manuale spacca-schiena. Al contrario, a Roderick piace la bella vita con gli amici, le prime bevute al pub, le nuove mode in fatto di stivali e, ovviamente, le ragazze bionde e prosperose. Per fortuna, tra i suoi passatempi preferiti c’è anche la musica. Agli inizi degli anni 60 impazzisce per i primi lavori di un certo Bob Dylan, così come per la musica di Eddie Cochran e soprattutto la voce potente di Sam Cooke. Con i primi risparmi e un prestito del fratello Bob compra una chitarra acustica e un’armonica a bocca in un negozio del West End, per imparare a essere e suonare esattamente come Dylan. Mentre lavora all’edicola gestita dal padre, spesso inverte il cartello “siamo aperti” per chiudersi con la musica e sperimentare con la sua voce.
Arriva così il momento di esprimere tutta la sua ribellione adolescenziale, seguendo la filosofia beatnik importata dagli Stati Uniti. Roderick si fa crescere i capelli lunghi, smette di lavarsi e di lavare i vestiti, inizia a comprare giornali socialisti per parlare di politica, anche se non ne capisce un’acca. Partecipa a diverse iniziative di protesta anti-nucleare, portandosi dietro la chitarra acustica per suonare i brani di Dylan, Ramblin’ Jack Elliott e Woody Guthrie. Quando arrivano i week-end di bel tempo, se ne va con gli amici a Brighton, dove tutti gli chiedono: “Rod, suona questo. Rod, suona quello”. Nell’estate del 1962 si avventura con l’autostop verso la Francia e la Spagna, dove praticamente diventa un busker che suona la chitarra davanti ai cafè o alle porte dello stadio Camp Nou.
Ma l’avventura è breve: viene preso di peso dalla polizia spagnola e rimandato in Inghilterra in accordo con il consolato britannico. Ad attenderlo ci sono Bob ed Elsie, pronti a prendere tutti i suoi vestiti puzzolenti per dargli fuoco. Senza alcuna direzione, Rod esce dall’universo beatnik per entrare in quello dei mod, senza dubbio più decisivo per il prosieguo della sua rocambolesca formazione personale.
Miracolo alla stazione di Twickenham
Un momento sei a un punto morto della tua vita, mentre aspetti un treno; il momento successivo ti offrono un contratto come musicista professionista.
Anno 1962. All’età di 17 anni, Rod incontra il suo primo amore, una ragazza bruna di buona famiglia di nome Susannah Boffey. A distanza di nemmeno un anno, il suo fascino ribelle centra subito il bersaglio grosso: Susannah è incinta. È ovviamente uno shock per entrambi, così giovani e senza un soldo o uno straccio di lavoro. Soprattutto c’è un problema, dal momento che la legge nota come Abortion Act entrerà in vigore in Inghilterra solo 4 anni più tardi. Ma Susannah decide di portare avanti la gravidanza, dando alla luce una bambina 9 mesi più tardi. Rod non ne vuole sapere di fare il padre a quasi 19 anni e decide di firmare le carte per affidare la sua prima figlia a un’altra famiglia.
Superata la questione, Rod si addentra sempre di più nell’universo musicale inglese all’inizio degli anni 60. Al Crawdaddy Club c’è una band incendiaria chiamata Yardbirds, capitanata da un giovane chitarrista dotatissimo di nome Eric Clapton. Stewart frequenta spesso anche il leggendario Eel Pie Island Hotel, vecchia sala da ballo votata al jazz negli anni 30 e ora casa di molti gruppi emergenti sulla scena del rhythm and blues. Rod frequenta un’amica di Susannah, Chrissie Shrimpton, che è attualmente la fidanzata di un certo Mick Jagger, voce di un nuovo gruppo chiamato Rolling Stones. Quando va a vedere il concerto degli Stones, Rod rimane impressionato e pensa: “Posso farcela anche io, la mia voce è meglio della sua”.
Dopo aver visto gli Stones, Rod decide che è il momento di provarci seriamente con la musica. Come anni prima con il lavoro, i suoi primi gruppi sono diversi, dai Raiders a Jimmy Powell and the Five Dimension, dove inizia a suonare l’armonica e fare il vocalist part-time. Le sue esibizioni sono fugaci, perché lascia subito il gruppo per unirsi a Long John Baldry, cantante blues di origini anglo-canadesi. Ragazzo intelligente e vestito alla moda, Baldry è un fanatico del blues e convince Rod a spostarsi dalla tradizione folk al sound di Muddy Waters. Il loro primo incontro è datato gennaio 1964, quando Rod sta aspettando il suo treno della linea Waterloo alla stazione di Twickenham, proprio dopo aver assistito a un concerto di Baldry all’Eel Pie Island. Long John – probabilmente ubriaco di vodka – lo sente accennare all’armonica alcuni fraseggi di “Smokestack Lightnin’” e si presenta. I due nuovi amici chiacchierano sul treno e Long John lo invita subito a entrare nel suo gruppo, gli Hoochie Coochie Men, per una paga settimanale di 35 sterline “solo” come backing vocalist. Rod a stento riesce a non ingoiare l’armonica, mantenendo il sangue freddo: “Dovrò chiederlo prima a mia madre”. Long John Baldry è talmente (e inspiegabilmente) determinato che si presenta pochi giorno dopo al negozio di Bob, portando dei fiori per Elsie. “Non si preoccupi, signora Stewart, mi prenderò io cura di Roddy”.
L’inizio del suo primo lavoro ben retribuito non può aspettare. Rod parte con la banda di Long John in giro per l’Inghilterra, ma le prime esibizioni sono da incubo perché è nervoso e trema dalla paura. Cliff Barton, bassista di Long John, gli offre una piccola pillola scura nota come black bomber. “È come bere una bella tazza di caffè”, gli dice. L’amfetamina lo sveglia e lo rivolta completamente, tanto che dovranno farlo scendere dal palco a forza. Spinto dalla droga, Stewart si lancia in una versione fiume di “The Night Time Is The Right Time” (Ray Charles) che viene particolarmente apprezzata dal pubblico presente a Manchester. Le serate si susseguono senza sosta, anche tre concerti nel corso di un solo week-end. A bordo di un van scassato, in giro per il Regno Unito, Rod prova le sue nuove canzoni ed espande il suo repertorio, da “Tiger In Your Tank” di Muddy Waters a “Dimple” di John Lee Hooker. Non si sente ancora un vero cantante blues, ma almeno non ha più bisogno della black bomber. Gli basta una bottiglia di birra scura e svariati scotch con succo d’arancia.
John William Baldry è un ragazzone di oltre due metri, da qui l’ovvio soprannome Long John. Dichiaratamente omosessuale, Long John inizia la sua attività da musicista professionista insieme alla band di Alexis Korner, i Blues Incorporated, con cui registra l’album “R&B From The Marquee” nel 1962. Amico di Mick Jagger e Paul McCartney, Baldry si unisce un anno dopo agli All Stars di Cyril Davies. Alla morte improvvisa di Davies, Long John prende la guida del gruppo e lo rinomina Hoochie Coochie Men, poco prima dell’incontro da film con l’eroe di questa storia.
La presenza di Rod all’interno della band di Baldry si fa sempre più ingombrante. Il furore R&B, il taglio di capelli, i vestiti curati messi in scena da Stewart attirano una nuova tipologia di audience ai concerti di un gruppo abituato alle platee blues, che ora – su alcune affissioni – viene indicato come Hoochie Coochie Men, featuring Rod “The Mod” Stewart.
Rod, “The Mod”
Signore e chiunque vi siate portate dietro, ecco a voi... Rod 'The Mod' Stewart!
Secondo il sociologo inglese Dick Hebdige, la sottocultura mod – derivazione del termine modernist, utilizzato per la prima volta negli anni 50 per dipingere musicisti e fan del modern jazz – inizia a sviluppare i suoi simboli identificativi intorno al 1963. Scooter (specie i modelli di origine italiana Lambretta e Vespa), pillole di amfetamina e passione sfrenata per l’R&B più energico. I primi mod non sono animali sociali, né seguono uno stile uniformato. Ciascun individuo riflette uno stile personale, pur mantenendo lo stesso taglio di capelli alla francese e la stessa fissazione per gli abiti sartoriali italiani. In giacche strette e parka, i giovani mod si ribellano ai legami familiari, andando alla continua ricerca del nuovo, soprattutto in ambito musicale. In Inghilterra, la prima ondata mod si ha tra il 1962 e il 1965, quando migliaia di giovani in scooter invadono i lidi estivi a Brighton per sentire alla radio i pezzi passati dal programma Ready Steady Go!. Tra un acquisto a Carnaby Street e una scazzottata con i rocker – subcultura opposta e votata allo stile rockabilly o rock and roll – i mod spostano i propri gusti musicali verso l’afroamerica e la Giamaica, spaziando dal soul allo ska che presto prenderà il nome di bluebeat.
Quando viene presentato sui palchi inglesi da Long John Baldry – un po’ per il taglio di capelli, un po’ per gli abiti ricercati, l’uso di amfetamina o la nuova passione per l’R&B – Rod Stewart è per tutti “The Mod”.
Nel marzo 1964, gli Hoochie Coochie Man con Rod “The Mod” Stewart aprono una serie di concerti della leggenda blues Sonny Boy Wiliamson, tra le sue ultime esibizioni prima della morte per un attacco di cuore. Pochi mesi dopo, a giugno, Rod viene invitato da Long John a partecipare alla registrazione del B-side del singolo “You’ll Be Mine” – frutto del nuovo accordo da solista di Baldry con l’etichetta United Artists – ovvero una cover gospel di Sister Rosetta Tharpe, “Up Above My Head”. Baldry e Stewart si lanciano in una struttura “call and response” dai toni R&B, con il supporto vocale di Rod che si inerpica come un maniaco in preda all’eccitazione per il suo primo brano ufficialmente registrato su disco.
Verso l’estate del 1964, Rod Stewart è un giovane cantante dai capelli vistosi, così fiero di fare parte di un gruppo di ottimi e rodati musicisti blues. Gli insegnamenti di Long John sono per lui fondamentali, segnano di fatto l’inizio della sua avventura nel mondo della musica popolare. Anche se mamma Elsie ha molti dubbi – “Quale futuro potrai avere?”, è la domanda ricorrente in famiglia – Rod riesce a comprarsi una prima auto sportiva dal valore di quasi 500 sterline, ed è felicissimo così. Tra una bevuta, una ragazza bionda e un concerto. Nemmeno lui sa quello che sta per succedere sul panorama musicale inglese, quando i primi accordi rumorosi e distorti di “A Hard Day’s Night” stanno per suonare la fanfara della British Invasion.
Aprile 1964. Durante un concerto degli Hoochie Coochie Men al celebre Marquee Club di Londra, John Rowlands e Geoff Wright sono tra il pubblico presente. Subito dopo il concerto, avvicinano il diciannovenne Rod e gli propongono un accordo per diventare suoi manager. Rod quasi scoppia a ridere. Rowlands è stato l’uomo dell’Ovomaltina in uno spot televisivo, mentre Wright si occupa degli affari della Associated London Scripts, che ha formato alcuni tra gli sceneggiatori più divertenti nel Regno Unito. Non propriamente degli esperti di industria musicale, ma riescono a convincere Rod perché non si pongono in maniera arrogante e (soprattutto) non sembrano i classici squali del music business. D’altronde, stiamo parlando di un ragazzo che ha a malapena registrato un primo singolo facendo il backing vocalist. Ma Rod non è affatto inesperto e accetta solo alle sue condizioni, dopo aver parlato con il fratello.
Il primo compito di John e Geoff è quello di trovare un contratto discografico per Rod “The Mod”.
Non uno, ma due manager
Trasformare il mio primo singolo in una hit è stata un’impresa ardua anche per i potenti mezzi di Ready Steady Go!
Per avere un contratto, serve una registrazione demo. Così Stewart invita i suoi compagni di band Ian Armitt e Cliff Barton ai Poland Street Studios a Soho, per registrare un pugno di brani di prova tra cui “Work Song” (Oscar Brown Jr.), “Ain’t That Lovin You Baby” (Jimmy Reed) e “Don’t You Tell Anybody” (Willie Dixon).
Pronto il demo, i due nuovi manager si attivano subito, ma i primi risultati sono negativi: la Emi, ad esempio, pensa che la voce di Rod sia troppo roca per il successo radiofonico e commerciale. Alcune etichette lo respingono perché ha il naso troppo grosso e non ha un bell’aspetto come altri cantanti. Ma Wright e Rowlands non demordono e vanno a trovare Mike Vernon (Decca Records) per convincerlo a produrre e distribuire il primo singolo da solista di Rod.
La mattina del 3 settembre 1964, Rod si presenta agli studi in Broadhurst Gardens con un piccolo pacchetto in cui ci sono alcuni sandwich al formaggio preparati da Elsie. “Rod Stewart, ho una prenotazione”. Tutto vero, peccato che Rod abbia sbagliato giorno. La prenotazione è per il 10 settembre.
Il 10 settembre, Stewart viene buttato giù dal letto da una telefonata di Geoff Wright che lo “incita” a correre verso gli studi Decca. L’idea iniziale della casa discografica è di registrare alcuni brani rimasti in archivio, ma sono troppo pop per la voce di Rod. Insieme a un bassista chiamato John Paul Jones, Stewart arriva a una versione decente del classico “Good Morning, Little Schoolgirl”, seguita dalla B-side “I’m Gonna Move To The Outskirts Of Town” di Big Bill Broonzy.
Originariamente suonata da Sonny Boy Willamson nel 1937, la “Good Morning, Little Schoolgirl” di Rod Stewart rispetta gli standard blues pur su un tappeto beat più levigato e cadenzato, quasi jazz. La voce di “The Mod” è ancora più melliflua nella B-side, un twelve-bar con una spruzzata di zucchero soul. La Decca non perde tempo e fa uscire il singolo nell’ottobre 1964.
Accompagnato da un comunicato stampa in forma di domande e risposte – apprendiamo qui che l’ambizione di Rod è di cantare con la Count Basie Orchestra – il disco non scalda gli animi degli addetti ai lavori. Per rinforzare l’awareness di Stewart, Rowlands e Wright organizzano una sua esibizione al celebre show radiofonico del venerdì sera Ready Steady Go!. È un colpo grosso, perché il programma è seguitissimo, guarda caso proprio dal pubblico dei mod. Nervosissimo, Rod si imbottisce di scotch e succo d’arancia e si dirige ai Rediffusion Studios a Kingsway, dove gli autori del programma gli mettono in braccio una chitarra elettrica.
L’esibizione al Ready Steady Go! è tutto tranne che indimenticabile. C’è un problema in più per le speranze di Stewart: nello stesso periodo esce un singolo di un gruppo R&B chiamato Yardbirds, proprio una versione – molto più dirompente e ritmata – di “Good Morning, Little Schoolgirl”. Il fiasco commerciale è totale e Rod se ne va in un pub a Soho ad affogare i dispiaceri nell’alcol. Ma è proprio durante quella nottata ebbra che si palesa un avventore dalla folta chioma scura, che si presenta a Roderick e inizia con lui un lungo giro di drink. Il suo nome è Ronald David Wood, per gli amici Ronnie.
I’m a Soul Man
Un giorno trovi una band, e ci lavori dentro così duramente finché tutto non svanisce. E poi ne trovi un’altra e, se sei fortunato, ti compri anche una macchina.
Dicembre 1964. Il singolo registrato con la Decca è un flop. Per di più, gli Hoochie Coochie Men si sciolgono, lasciando Rod senza uno straccio di lavoro. Ma la disoccupazione questa volta dura poco, perché Rowlands e Wright prima gli trovano un ruolo da frontman negli Ad Lib, poi lo inseriscono nel quartetto di Roger Pope – successivamente batterista di Elton John – i Soul Agents. Il gruppo è devoto alla musica soul, come dal nome, e per un paio di mesi è resident band al Marquee aprendo persino un concerto della leggenda blues Buddy Guy. Ma Rod non è a suo agio, non si sente ancora un vero frontman e dopo soli sei mesi lascia il gruppo.
Estate 1965. È ancora Long John Baldry nel destino di Stewart: lo introduce al giovane organista Brian Auger, il cui gruppo – Brian Auger Trinity – è gestito in toto dall’eccentrico e corpulento manager Giorgio Gomelsky. Di origini est-europee, Gomelsky è già una figura centrale nel panorama musicale inglese. Il suo locale, il Crawdaddy Club, ha già ospitato i Rolling Stones e ora è casa degli Yardbirds.
Baldry e Gomelsky vogliono mettere in piedi una sorta di circo dell’R&B, un format di live show con diversi esponenti del genere. Ovviamente, Long John infila Rod, ma Gomelsky pensa che a cantare da frontman dovrebbe essere una sua giovanissima collaboratrice appassionata di Motown, Julie Driscoll. Insieme a Julie, Auger e Long John, Rod porta sul palco cover di Sam Cooke e Wilson Pickett: il nuovo gruppo si chiama Steampacket.
Da alcuni osservatori considerati “il primo supergruppo inglese”, gli Steampacket sono una bomba ad orologeria, sia per il mix sonico di blues, R&B e soul, sia per l’ego dei suoi stessi membri (tutti cantanti e tutti molto dotati). Spinti da Gomelsky, sempre eleganti sul palco, gli Steampacket girano l’Inghilterra con una media di cinque serate a settimana, ma non arriveranno mai a registrare un intero album in studio. Le giravolte soul di “Baby Take Me” e “The ‘in’ Crowd” restano esibizioni da palcoscenico che usciranno su disco solo a partire dagli inizi degli anni 70.
Il più importante show degli Steampacket è al London Palladium, quando la neonata band di Gomelsky apre gli Stones durante il tour inglese dell’estate 1965. Per l’occasione, data anche la location prestigiosa, accorrono anche i fratelli di Rod e la zia Edna per vedere il ragazzo dal vivo per la prima volta in assoluto. È anche la prima volta che Stewart assaggia il grande pubblico, quello dei fan in preda all’isteria collettiva.
Quando sembra andare tutto per il meglio, iniziano i primi malumori all’interno del “primo supergruppo inglese”. Long John rifiuta di esibirsi negli States per un tour di accompagnamento degli Animals di Eric Burdon, preferendo i piccoli circuiti universitari e le solite cover di Wilson Pickett. Rod litiga spesso con Julie sulla scelta dei brani da cantare, e una sera offende le sue gambe meritandosi un lancio violento di un bicchiere pieno di birra. La situazione precipita definitivamente nell’estate del 1966, quando alla band viene offerto un pacchetto di show come resident al La Papayago di St. Tropez. Baldry e Auger sono al settimo cielo, perché non vedono l’ora di rilassarsi sotto il sole della costa francese, mentre Rod fa notare che la paga offerta è bassa. Stewart decide di non presentarsi al meeting indetto per confermare l’ingaggio, ma gli altri membri se ne fregano e lo escludono dal tour. Al loro ritorno dalla Francia, gli Steampacket non esistono più.
Terminata la breve esperienza con gli Steampacket, Rod si ributta a capofitto nel music business e trova un posto negli Shotgun Express, altro gruppo specializzato in cover con la presenza di un certo Mick Fleetwood alla batteria e Peter Green alla chitarra. Anche qui si parla principalmente di show dal vivo, mentre Rod ci riprova come cantante solista con un nuovo singolo, ora con la Columbia Records dopo il fiasco con la Decca. “The Day Will Come” è un beat orchestrale, mentre sul lato B viene registrata la ballad soul “Why Does It Go On?”. Quando la Columbia, per cercare di trovare una hit, gli propone di registrare il numero da dancefloor “Shake”, permette a Rod di accendere una lampadina interna: non è più possibile inseguire il successo tramite le cover, bisogna mettersi a scrivere nuovo materiale, materiale originale.
Rod e Jeff
Fai il tassista? No, suono la chitarra. Tu invece sei il buttafuori? No, faccio il cantante.
Il Cromwellian si descrive come un semplice cocktail bar con discoteca, localizzato tra classiche case a schiera del XIX secolo in Cromwell Road, a Londra. In realtà, è più di un cocktail bar: è uno dei templi della Swinging London, dove nel 1966 si esibisce Jimi Hendrix e soprattutto dove, nel gennaio 1967, avviene il primo incontro tra Rod Stewart e un giovane chitarrista di 23 anni di nome Geoffrey Arnold Beck, per gli amici Jeff. Due anni prima, nel marzo 1965, Beck è stato reclutato dagli Yardbirds per sostituire il ribelle Eric Clapton, dopo l’iniziale rifiuto di Jimmy Page. Dal carattere esplosivo e tremendamente perfezionista, Beck registra con gli Yardbirds solo l’album “Roger The Engineer” (1966), prima di comporre uno strumentale per chitarra chiamato “Beck’s Bolero”, con l’accompagnamento di Jimmy Page alla chitarra, Keith Moon alla batteria e John Paul Jones al basso. Avendo cambiato idea, Page si unisce agli Yardbirds e il dualismo tra guitar-hero complica le cose: Beck non si presenta ai concerti statunitensi e viene licenziato. Fino all’incontro con Rod al Cromwellian di Cromwell Road.
Tra un drink e l’altro, Beck e Stewart si annusano meglio. Rod ovviamente conosce già la fama di Beck e i suoi ultimi litigi con Page, mentre Jeff ha già avuto modo di apprezzare la voce di Stewart durante un live degli Steampacket. Soprattutto, Beck sta cercando di tornare in pista dopo un paio di singoli da solista, e ovviamente cerca un cantante dotato. I due si danno appuntamento per un meeting più sobrio all’Imperial War Museum.
A pochi minuti a piedi dalla fermata metro Elephant & Castle, l’Imperial War Museum è l’ambiente perfetto per le ambiziose idee di Beck. Dopo l’esperienza da forzato comprimario di Jimmy Page, Jeff vuole un gruppo tutto suo, un gruppo capace di andare oltre il pop e il Chicago blues. Un gruppo più duro, distorto, votato al credo della distorsione e del feedback. Mickie Most, rivenditore d’auto e nuovo manager di Beck, è ormai convinto che il suono di Jimi Hendrix sia già storia antica, pronto a essere schiantato dalla supernova sonica del suo assistito. Nonostante sia molto più pop di quanto (probabilmente) immagini Jeff, il singolo “Hi Ho Silver Lining” esce all’inizio della primavera del 1967 e segna un punto importantissimo per Most, entrando dritto nella Top 20 inglese e nei cuori di migliaia di giovani studenti universitari e soprattutto dei tifosi dell’Aston Villa che ne fanno un vero e proprio anthem da stadio.
Il rapporto tra Rod e Mickie Most non è tra i migliori, dal momento che al manager di Jeff – poi anche produttore del neonato Jeff Beck Group – non piace proprio il suo timbro vocale roco, quasi operaio. Ma la voce di Stewart piace a Beck, e questo basta. Dopo l’uscita del singolo “Hi Ho Silver Lining”, Jeff vorrebbe arruolare Jet Harris (già negli Shadows) al basso e Viv Price (ex-Pretty Things) alla batteria, ma lo stesso Rod preme per l’inserimento dell’amico Ronnie Wood – che nel frattempo è passato dalla chitarra al basso – e del vecchio compagno agli Steampacket, il batterista Micky Waller. La nuova band esordisce così dal vivo al Finsbury Astoria il 3 marzo del 1967, con il nome Jeff Beck Group.
Gli inizi non sono affatto semplici. Il nuovo gruppo è accolto con grande diffidenza, soprattutto durante un tour come supporting band di Small Faces e Roy Orbison, quando qualcuno – molti sospetti ricadono sul tastierista degli Small Faces, Ian McLagan – decide di sabotare la loro esibizione provocando un cortocircuito a tutto il sistema elettrico. Ma Jeff non si perde d’animo perché a lui, in fondo, non interessa al momento la fama live: vuole chiudersi insieme a Rod e Ronnie in sala di registrazione per esprimere al meglio le sue nuove idee musicali. Ascoltando senza sosta il bluesman elettrico Jimmy Reed o i gruppi Motown come i Four Tops.
Nonostante il perdurare dello scetticismo generale – un virtuoso della chitarra rock con un cantante soul? Cosa c’entrano? – Beck e Rod si stimano molto: Jeff capisce che non è capace di comporre materiale originale, non essendo un autore. Rod decide di impegnarsi perché altrimenti quel gruppo resterà l’ennesimo esperimento fugace della sua carriera di cantante. Stewart confida molto in Wood, i due si siedono spesso davanti al fuoco con una bottiglia di vino aperta e due bicchieri. Ma Ronnie una sera ammette: “Beh, voi due non sarete mica una minaccia per i Beatles”. Quando la Emi Columbia pubblica Truth, il primo album del Jeff Beck Group, nell’agosto del 1968, di materiale originale ne è presente poco, ma le idee di Beck e l’alchimia con Stewart portano a qualcosa di davvero straordinario.
Di diritto tra i lavori seminali per lo sviluppo della “musica dura”, Truth è una sorta di brodo primordiale in cui Jeff Beck rilascia tutti gli ingredienti già assaggiati nel periodo Yardbirds. Non a caso, la dinoccolata marcia beat “Shapes Of Things” è firmata proprio dal vocalist Keith Relf e dal bassista Paul Samwell-Smith. Ma è allo stesso tempo evidente come Beck stia inserendo anche altre sostanze nel calderone, tra cui – ovviamente – i gorgheggi da pub di Rod Stewart. Ancora imbevuto di blues (“You Shook Me”), il sound di Truth è però più graffiante e metallico: il call and response con Stewart in “Let Me Love You” giustifica infatti la convinzione che, se fosse durato di più, il gruppo avrebbe dato del filo da torcere agli imminenti Led Zeppelin. Anche se l’idea base è quella di trasformare il blues nell’hard-rock, la voce di Stewart riesce a dare al Jeff Beck Group tocchi folk e soul, come nell’onirica “Morning Dew” o nella liturgica “Ol’ Man River” accompagnata dalla marcia funebre dell’organo Hammond di John Paul Jones.
Ma se Truth è un album così importante per gli irruenti anni 70 è anche per brevi acquerelli acustici come “Greensleeves”, che aprono ufficialmente la stagione del folk revival in salsa hard’n’heavy. Lo stile chitarristico di Beck è del tutto fuori controllo – meriterebbe un discorso a parte la mini-opera “Beck’s Bolero” – e si esprime tra svisate, effetti e distorsioni, pur tenendo a braccetto il canto ubriaco di Stewart per restare nei territori del blues in “Rock My Plimsoul” e “Blues De Luxe”, fino alla sarabanda acida “I Ain’t Superstitious”.
Registrato agli Abbey Road Studios in soli 4 giorni, Truth è di fatto il primo album registrato con la voce di Rod Stewart, il primo disco della sua carriera da professionista del musicbiz. Nel giugno 1968, il Jeff Beck Group si imbarca da Londra per gli Stati Uniti, il primo tour nella terra promessa. Mentre Jeff si accomoda in business class, Rod e Ronnie sono in economica, pronti a scolarsi qualsiasi tipo di free drink passi a tiro. Il tour negli States è un trionfo: la critica di settore esalta l’esibizione al Fillmore East davanti a quasi tremila spettatori. Per il New York Times, il rapporto tra la chitarra selvaggia di Beck e le urla erotiche di Stewart è degno di una sceneggiatura di Harold Pinter. Per il New Musical Express, è come se Eric Clapton avesse incontrato Jim Morrison. La band, dal vivo, è incontenibile e il successo del tour 1968-1969 porta Rod sulla bocca di tutti.
Tornato in Inghilterra, il gruppo accelera i tempi per la registrazione di un secondo album, ancora agli studi Abbey Road sotto la produzione del solito Mickie Most nell’aprile del 1969. Uscito per la Emi Columbia appena due mesi dopo, Beck-Ola è un ulteriore tassello nel mosaico hard’n’heavy costruito da Jeff Beck. Il chitarrista decide infatti di effettuare un cambio alla batteria, sostituendo Micky Waller – il cui stile è reputato troppo vicino al sound Motown – con il più duro Tony Newman, già membro dei Sounds Incorporated e responsabile pelli nel disco di Donovan Barabajagal.
L’introduzione di Tony Newman porta a cogliere il frutto coltivato da Beck, proprio come la mela surrealista dipinta da Magritte e riprodotta sulla copertina del secondo album Beck-Ola. Il distanziamento dagli standard blues è ancora più marcato, mentre la marcia di avvicinamento all’hard-rock che spopolerà negli anni 70 è ormai al passo decisivo. Anche se il Jeff Beck Group non è ancora un gruppo maturo da un punto di vista di puro songwriting, Beck-Ola è un’altra perla incendiaria. Le cover scomposte e destrutturate dal repertorio di Elvis Presley – “All Shook Up” e “Jailhouse Rock” – sono come bombe di potenza heavy sulla psichedelia e il blues britannico. In “Plynth”, Jeff Beck e soci fondano di diritto il riff pesante, dimostrando davvero di poter diventare un gruppo fondamentale nel decennio che verrà. Le tastiere di Nicky Hopkins si fondono con i battiti di Newman, liberandosi in volo nella parentesi gospel “Girl From Mill Valley”. Il capolavoro finale è la cavalcata hard-blues “Rice Pudding”, che mostra i muscoli di Beck come uno dei chitarristi più innovativi e dotati della sua epoca. Beck-Ola è la seconda riuscita testimonianza sonica dell’ottima intesa con Rod, forse meno protagonista alla voce, ma perfetto nel duettare con le svisate di Beck. Probabilmente, senza due caratteri molto spigolosi e testardi, il Jeff Beck Group avrebbe dato davvero del filo da torcere agli Zeppelin.
Beck-Ola parte con un quindicesimo posto nella classifica Billboard, ovviamente portato in tour dalla band sia in patria che negli States. I soldi però scarseggiano, gestiti direttamente dai soli manager di Beck che sono Most e un certo Peter Grant, che farà successivamente una fortuna con i Led Zeppelin. Negli Usa, Beck continua a soggiornare in grandi hotel a cinque stelle, mentre i comprimari Rod e Ronnie si arrangiano in alberghi più economici, sempre ubriachi ed eccitati per aver conosciuto gente come Janis Joplin e Cream. Ma non è la qualità di una camera che sta per fare la differenza in questa storia: anche sul palco, mentre Jeff posa serioso con la sua chitarra e i suoi jeans, Rod e Ronnie sono esagerati, bevono, lanciano occhiate languide, vestono sgargianti. Il problema è che Beck è un perfezionista e non ha alcuna voglia di suonare per fare soldi – probabilmente il motivo principale perché oggi tutti conoscono Clapton e Page – mentre Rod vuole di più, vuole il music business. “A volte saltava sulla sua limousine e ci lasciava lì, a prendere un taxi. Era fatto così, viveva nel suo mondo”, dirà Rod anni dopo.
Nell’estate del 1969 la situazione precipita irrimediabilmente: Beck è stanco delle lamentele di Ronnie Wood e lo caccia dalla band. Lo sostituisce con Doug Blake. Rod è imbufalito, ma resta per l’ultima tranche del tour americano nella East Coast. Incredibilmente, una notte Jeff si imbarca su un aereo per Londra per motivi personali – una voce gli ha parlato di una tresca tra la sua dolce metà e il giardiniere – e fa saltare un ingaggio per la band a un festival estivo chiamato Woodstock. Nella hall del Hyatt International Hotel di Los Angeles, Lou Reizner, boss della Mercury Records, si avvicina a Rod per proporgli di firmare un contratto per un primo disco da solista. Stewart questa volta non ci pensa due volte e accetta: il valore del contratto è di 1.300 sterline, perché quello è il prezzo di una macchina sportiva Marcos nuova di zecca.
The Mercury Years
Per mio stesso stupore, e non trascurabile orgoglio, avevo all’improvviso un singolo numero uno e un disco numero uno, allo stesso tempo, ai due lati dell’Atlantico. Era come se tutti i pianeti si stessero allineando. Nessuno ci era mai riuscito: nemmeno Presley, nemmeno i Beatles.
Fine 1969. A quasi 25 anni, Rod le ha ormai provate tutte, dai singoli flop per la Decca al successo americano con il Jeff Beck Group. Quando firma per la Mercury Records, Stewart si sente un cantante pronto per il grande salto da solista, con ambizioni da songwriter sull’onda del trionfo planetario di amici come i Rolling Stones. Il suo nuovo Virgilio è Lou Reizner, nato a Chicago nel 1934 e sedicente compositore di cowboy songs prima dell’approdo alla Mercury Records e al conseguente trasferimento in Inghilterra per scovare nuovi talenti del rock. Reizner è anche produttore discografico, anche se i suoi assistiti – il dylaniano Dick Campbell e Big Jim Sullivan – non hanno finora brillato per notorietà. Stewart, che inizia a lavorare al suo primo album da solista quando è ancora in tour (l’ultimo) con il Jeff Beck Group, accetta di lavorare con lui sapendo che non sarà mai una figura così ingombrante e decisionista. Tanto è vero che è lo stesso Rod a scegliere i suoi scudieri: ovviamente Ronnie Wood al basso, Ian McLagan (Small Faces) al piano e quel Micky Waller fatto fuori da Beck perché troppo orientato al sound Motown. Con questa formazione iniziano le sessioni di registrazione agli studi di Lansdowne Road, con Rod libero di scegliere il materiale e di tornare ad assecondare le sue passioni folk dopo la durezza del Jeff Beck Group.
Uscito prima negli Stati Uniti nell’ottobre del 1969, l’album An Old Raincoat Won’t Ever Let You Down segna appunto il ritorno alle origini di Stewart, all’amore verso la musica soul e folk. Anche noto negli States come The Rod Stewart Album, l’esordio da solista di Rod è quanto di più lontano dai ritmi schizoidi di Beck, un pugno di 8 canzoni che colpisce il proto hard-rock facendolo rinculare verso uno stile più country, soul e blues. D’altronde, Stewart preferisce tornare ai suoi vecchi amori sonici, come nell’acquerello di campagna “Man Of Constant Sorrow” o nel piano romantico della ballad 100% British “Handbags & Gladrags”.
Il disco trasuda tutta la voglia di ispirazione di Stewart, che cerca di misurarsi con il songwriting in due brani nello specifico, il boogie-barrelhouse “An Old Raincoat Won’t Ever Let You Down” e il blues supersonico “Blind Prayer”. Come inizi, molto promettenti: Rod azzecca gli interpreti – superlativo l’inserimento dell’organo di Keith Emerson nel numero prog “I Wouldn’t Ever Change A Thing” – e ovviamente stressa la sua voce roca in una delle migliori cover di “Street Fighting Man” mai realizzate su disco. Alla fine, in brani come “Cindy’s Lament”, l’album è un punto di raccordo tra vecchie armonie country e quelle nuove sonorità in bilico tra blues e rock aggressivo che alla fine dei Sixties stanno per aprire una stagione d’oro in Inghilterra.
An Old Raincoat Won’t Ever Let You Down esce successivamente nel Regno Unito, è il febbraio 1970, e vende subito discretamente, pur restando apprezzato soprattutto dalla critica musicale. Basta a convincere la Mercury Records e Lou Reizner a mettere a budget altre 12.000 sterline per registrare in tempi record un immediato successore.
Registrato in poco più di due settimane ai Morgan Studios di Londra, l’album Gasoline Alley vede confermata la partecipazione di Ronnie Wood con Ian McLagan, Mick Waller e il nuovo innesto dagli Small Faces, Kenney Jones alla batteria. Il disco continua sulla rotta di un rock and roll bagnato dalle sponde soul e folk, aperto dalla ritmata country ballad “Gasoline Alley” con il gran lavoro rollingstoniano delle chitarre di Ronnie Wood. A parte l’energico boogie-blues “It’s All Over Now”, il secondo album da solista di Rod è decisamente più morbido, interpretato da un ragazzo più educato e romantico. Entrambe scritte da Stewart, le ballate slide-folk “Lady Day” e “Jo’s Lament” sono – nelle parole di una recensione scritta su Rolling Stone nel periodo – di “rara sensibilità per i momenti più delicati nell’esistenza di un essere umano”. Tra mandolini e violini dal sapore Irish (su tutte, la gemma di oltre sei minuti “Cut Across Shorty”), Stewart veleggia spedito verso un energico cantautorato mainstream. Non dimenticando – ovviamente – la voglia di spaccare il mondo, come nel funk “You’re My Girl” con il super-basso di Ronnie Lane che apre di fatto alla nuova avventura sonica di Rod “The Mod”.
Quando esce negli Stati Uniti, Gasoline Alley riceve recensioni ancora migliori di An Old Raincoat, finendo nella Top 30 di Billboard con 250mila copie vendute. Il successo di Stewart negli Usa non viene però replicato in patria, dove gli ascoltatori (e gli addetti ai lavori) restano ancora scettici verso le sue prime performance di cantautore. Questa freddezza porta Rod a insistere: tra la fine del 1970 e gli inizi del 1971 si richiude ai Morgan Studios, senza l’aiuto di Lou Reizner che non verrà nemmeno incluso tra i produttori. Uscito per la Mercury Records nel maggio 1971, Every Picture Tells A Story è il disco che consegna Rod Stewart tra le braccia delle divinità del rock mondiale. L’album rappresenta infatti la definitiva consacrazione di Rod tra i songwriter più caldi d’Albione, permeato da una capacità quasi naturale di scegliere ogni brano con assoluta efficacia. A partire dalla title track – perfetta sarabanda rumorosa tra country, folk e cori soul – l’opera inquadra il fenomeno emergente di Rod, che riesce a bilanciare quasi con la livella l’esuberanza da rocker e la dolcezza malinconica del crooner da pub. La storia strana di “Maggie May” è su tutte la primizia di un diverso pop che si accinge a conquistare il mondo, aprendo la stagione del cantautorato al gusto glam. Anche qui non mancano le rivisitazioni di brani altrui, a dimostrazione di quanto Stewart tenga alle sue radici soniche, soprattutto al continuo omaggio verso Bob Dylan nell’arcobaleno acustico della cover “Tomorrow Is A Long Time”.
Ma Stewart è ormai un musicista maturo, capace non solo di rielaborare (e modernizzare) il passato: il folk struggente di “Mandolin Wind” è l’altra perla che renderà il disco così apprezzato a livello planetario. Dal rock aggressivo della versione di “That’s All Right” al saliscendi Motown funk “(I Know) I’m Losing You”, Stewart questa volta non sbaglia un colpo. Con l’aiuto del fido Ronnie Wood, confeziona un lavoro di alta sartoria compositiva. Come dirà il critico di AllMusic, Stephen Thomas Erlewine: “Senza alterare granché il suo approccio, Rod Stewart perfeziona la sua miscela di hard rock, folk e blues in quello che è il suo capolavoro”.
Ad ottobre, il singolo “Maggie May” finisce dritto al primo posto delle classifiche inglesi, spingendo l’album in vetta (ovviamente) negli States, ma questa volta anche in patria. Solo “My Sweet Lord” di George Harrison riesce nell’impresa di scavalcare Rod Stewart, ormai in stato di grazia e in pieno delirio di fama e denaro. La Mercury Records decide così di mungere l’esplosiva creatività di Roddy facendolo subito tornare in studio di registrazione con la sua banda di musicisti per registrare il successivo disco, Never A Dull Moment. Uscito nell’estate del 1972, l’album non riesce a bissare il successo di Every Picture Tells A Story, pur seguendone idealmente tutte le tracce sul sentiero del folk-rock. Aperto dal boogie rollingstoniano di “True Blue”, Never A Dull Moment tradisce probabilmente un certo auto-compiacimento da parte della coppia Stewart-Wood, che si lascia andare a qualche schitarrata scanzonata di troppo, come nel facilmente ritmato country “Lost Paraguayos”.
Non che Stewart abbia perso di colpo il “magic touch”, anzi. L’album contiene un altro ottimo lavoro di rilettura dal canzoniere di Bob Dylan (“Mama You Been On My Mind”), a cui va sicuramente aggiunto l’altro boogie-and-roll “Italian Girls” e l’azzeccata ballad dagli occhi blu “You Wear It Well”. Chiaramente, l’ascoltatore che si aspetta la nuova “Maggie May” rimane sostanzialmente deluso, ma Stewart riesce comunque a strutturare un disco astuto e ben confezionato, regalando ai fan la chicca “Angel” (cover di Hendrix) e la versione melliflua in salsa soul del classico blues “I’d Rather Go Blind” che sembra fatta apposta per la sua voce roca.
Nell’agosto del 1973 esce la prima compilation Sing It Again Rod, che contiene l’inedita cover orchestrale di “Pinball Wizard” dalla rock-opera “Tommy”. Poco più di un anno dopo, ottobre 1974, la Mercury chiude il cerchio discografico con l’album Smiler. Stroncato dalla critica musicale che lo definisce “una totale perdita di tempo”, Smiler è in realtà un disco molto divertente, nonostante alcuni numeri a dir poco pretenziosi come la versione maschile di “(You Make Me Feel Like) A Natural Man” e alcuni intermezzi acustici effettivamente inutili come “Lochinvar” (Pete Sears) e “I’ve Grown Accustomed To Her Face”. Estremamente discusso all’epoca – data la fama raggiunta da Stewart sul panorama musicale e il filotto di album riusciti prima del 1974 – Smiler viene accusato di “prevedibilità” nell’approccio compositivo di Rod (e Ronnie), ma il punto del disco è che i due compagni di band vogliono semplicemente divertirsi e spingere a tavoletta sull’acceleratore del glam-rock. Presente non a caso la guest-star Elton John nello scatenato piano boogie “Let Me Be Your Car”. Sicuramente l’album è il più debole tra quelli prodotti negli anni Mercury, ma sicuramente il più scatenato e leggero come negli esplosivi numeri rock-glam-and-roll “Sailor” e soprattutto “Hard Road”. Nel mezzo, l’ennesima cover riuscita di Dylan, “Girl From The North Country”.
Smiler è un disco importante, perché rappresenta un momento di svolta nella carriera solista di Stewart, che ha ormai acquisto la totale consapevolezza di songwriter e performer e si prepara al cambiamento che lo farà diventare una stella mondiale dell’intrattenimento nel music business.
Long Player – La storia dei Faces
Erano anni complicati, davvero pieni di impegni. C’era un piccolo dettaglio che li rendeva quasi impraticabili: per tutto quel periodo, ero anche in una band. Piuttosto buona, direi.
Riavvolgiamo il nastro, si torna al 1969.
Rod Stewart si è appena assicurato un contratto discografico da solista con la Mercury Records, pronto alla scalata delle classifiche con il suo esordio An Old Raincoat Won’t Ever Let You Down. Steve Marriott, cantante e leader artistico degli Small Faces, ha da poco lasciato a brutto muso i suoi compagni di band, i piccoli mod diventati grandi con il capolavoro “Ogdens’ Nut Gone Flake”. Sia Rod che Ronnie hanno consumato dischi come “Itchycoo Park” e “The Autumn Stone” e conoscono entrambi i tre superstiti della band: Ronnie Lane (basso e voce), Ian McLagan (organo e tastiere) e Kenney Jones (batteria). Le tre piccole facce del freakbeat inglese si ritrovano a provare in una ex-fabbrica già utilizzata dai Rolling Stones, cercando di trovare una nuova direzione. Rod Stewart e Ronnie Wood hanno da poco lasciato il Jeff Beck Group e sono alla ricerca di una nuova band, nonostante l’inizio della carriera solista di Rod.
All’inizio, i cinque si riuniscono solo per chiacchierare, provare qualche jam e soprattutto sbronzarsi. Rod nemmeno partecipa alle prove, se ne sta in disparte ad ascoltare. Lane e Wood hanno questo nuovo brano, "Shake, Shudder, Shiver", un robusto rock-blues. Rod pensa, sempre in disparte, che nessuno dei due ha il carisma vocale di Marriott. Poi c’è “Flying”, ballata soul-rock dall’ottimo potenziale, senza una voce solista. Ci pensa Kenney Jones, che propone a Rod di scendere dalla sala di controllo per provare qualcosa di Muddy Waters. L’alchimia tra i cinque è immediata, ma Lane e McLagan rimangono restii, memori della pessima esperienza con il loro vecchio frontman. I risultati ottenuti tramite le prime prove sono però evidenti e portano così alla nascita dei Faces, non più small a causa dell’altezza diversa di Stewart e Wood.
Inizialmente trascinati dalla fama di ognuno, i cinque provano le prime esibizioni live, ad esempio alla base statunitense di Cambridgeshire dove lanciano lo scatenato stomp per slide guitar “Around The Plynth” davanti a impassibili militari in divisa. Ma i Faces sembrano fare ora sul serio e assoldano il manager di origini irlandesi Billy Gaff, che fino a quel momento ha solo fatto da gestore prenotazioni per la Robert Stigwood Organisation. Gaff procura alla band un ottimo contratto con la Warner Bros. che elargisce denaro sufficiente per acquistare nuove auto sportive, ma soprattutto pubblicare nel marzo 1970 l’album First Step.
L’esordio discografico dei Faces rispecchia a pieno l’immediatezza con cui la band stessa si è formata, quasi per caso tra una sbronza e l’altra. First Step non è certo un disco perfetto, quasi improvvisato sull’onda dell’entusiasmo, non a caso aperto dalla cover in salsa gospel di Bob Dylan “Wicked Messenger” come a navigare (almeno inizialmente) in acque sicure. La verve compositiva è affidata a Lane, che firma il soul-blues “Devotion” e soprattutto la perla psych-country a ritmo barrelhouse “Stone”. Se Wood scatena la sua chitarra slide (“Around The Plynth”), le jam strumentali “Pineapple And The Monkey” e “Looking Out The Window” lasciano il fianco a una sensazione (pur estremamente incoraggiante) di incompiutezza. Di una band che deve ancora trovare l’equilibrio giusto tra personalità così ingombranti e differenti. Ma il finale a ritmo funky-blues di "Three Button Hand Me Down" (firmata dalla coppia Stewart-McLagan) fa capire chiaramente che i Faces fanno sul serio, è solo questione di tempo e affiatamento.
Non affatto scoraggiati dal flop commerciale di First Step, i Faces hanno solo intenzione di divertirsi insieme con del sano rock and roll. Decidono così di curare l’aspetto estetico, seguendo lo stile glam in voga agli inizi degli anni 70. Sciarpe vistose, satin, abiti luccicanti vengono così indossati dal vivo, mentre nel backstage piovono litri di Newcastle Brown e rum. Lo stesso Rod anni dopo dichiarerà che l’abuso di alcol ha di fatto distratto troppo la band, finendo per appiattire la creatività e non rendere giustizia al gruppo, a causa di album non altezza.
Le sessioni di registrazione dei Faces, normalmente, iniziano al pub. Forse i cinque passano più tempo a bere birra scura che in studio. Ma se il lavoro per incidere i brani è noioso – persino il guru Glyn Johns deve arrendersi al frastuono di cinque musicisti ubriachi – sul palco la band si trasforma completamente, tra salti spericolati e lustrini. I Faces sono più che chiassosi: lanciano palloni da calcio in mezzo alla folla di spettatori e hanno addirittura un barman in livrea a loro disposizione sul palco, per darsi una bella rinfrescata durante gli assoli interminabili di Kenney Jones. D’altro canto, il gruppo nasce in un contesto dove l’alba del rock progressivo sta sconvolgendo la musica live per la durata delle parti strumentali. E poi, più suona Jones, più si beve. Doppio affare.
Dal vivo, i Faces sono una macchina perfetta. Rod Stewart affina le doti da performer sboccato, mentre Wood si lancia in virtuosismi alla chitarra blues e la sezione ritmica Lane-Jones macina groove senza sosta. Nel marzo 1970, la band vola in Nord America partendo da una data a Toronto dove suonano insieme a MC5 e Canned Heat. Il successo negli Stati Uniti è immediato, tale da convincere il management della band a tornarci per 28 date aggiuntive a ottobre. Le date sono immediatamente sold-out, per la gioia di Stewart e compagnia che amano sbronzarsi in lussuosi alberghi e distruggere le stanze dove alloggiano. Banditi da diverse catene a stelle e strisce, si divertono a registrarsi a nome di altre band famose, dai Grateful Dead ai Fleetwood Mac. I Faces sono praticamente incontrollabili, e Rod Stewart inizia con il consumo abituale di cocaina.
Nel febbraio 1971 esce il secondo album per la Warner, Long Player. Registrato ai Morgan Sound con l’ausilio della celebre The Rolling Stones Mobile Recording Unit, il disco riesce a dare maggiore giustizia alla direzione artistica intrapresa dai Faces. Stewart e soci questa volta sono subito spontanei, partendo dal pub-rock “Bad ‘N’ Ruin” e proseguendo dritti sul sentiero soul (“Tell Everyone” e la gemma “Sweet Lady Mary”) come a voler sottolineare senza equivoci il motivo della propria esistenza. Dopo “Stone”, Ronnie Lane tira fuori il numero country-slide “Richmond”, seguito dalla superba cover live di “Maybe I’m Amazed” dal Fillmore East di New York. Long Player non è certamente un album perfetto, altro parto alcolico di una band mai completamente decisa a mettere a frutto il suo talento. “Had Me A Real Good Time”, ad esempio, è poco più di una jam boogie improvvisata in studio, sulla scia già tracciata da anni dai Rolling Stones. Innegabile però l’alchimia tra Lane e Wood nel blues lo-fi “On The Beach” e di tutto il gruppo nella dimensione live, perfetto nella versione newyorkese della “I Feel So Good” di Big Bill Broonzy.
La fama dei Faces cresce, dopo gli Stati Uniti, anche in Inghilterra. Il gruppo si esibisce con Marc Bolan al Weely Festival e con gli Who a Kennington. Nessuno dei cinque si preoccupa di contratti e royalties, si divertono e basta, tra auto di lusso e ville con piscina. Stewart, in particolare, pubblica il suo disco di maggior successo, Every Picture Tells A Story, e con il singolo “Maggie May” è di fatto sul tetto del mondo. Eppure, tra un rum & cola e l’altro, Lane e Wood pensano: che direzione avrà il gruppo? Cosa stiamo facendo, effettivamente?
A novembre esce A Nod Is As Good As A Wink...To A Blind Horse, registrato agli Olympic Studios con l’aiuto dell’esperto Glyn Johns in fase di produzione. Aperto dall’ululato di Stewart nel rock and roll "Miss Judy's Farm", il disco riesce finalmente nell’impresa di bilanciare alla perfezione l’impeto da live band con un ottimo songwriting. La salvifica mano di Johns porta i Faces a ridurre la durata dei brani – il più lungo è la scintillante cover country-boogie “Memphis” dal catalogo di Chuck Berry – a beneficio di una maggiore compattezza e pulizia del suono. Dopo gli esperimenti e l’improvvisazione dei primi due dischi, la band trova l’alchimia perfetta e quel cocktail sonico che mescola humor, calore soul-blues e massima energia rock and roll. Grande protagonista è Ronnie Lane, che prima conduce le danze soul-blues in "You're So Rude" e poi lancia nell’arcobaleno la splendida country-ballad "Debris".
L’album, che raggiungerà un sesto posto negli States e un secondo in Uk, è ovviamente trascinato dallo scatenato glam and roll “Stay With Me”. Se a Stewart toccano i brani più veraci e “sboccati” – l’hard blues finale "That's All You Need" – Lane riesce a dare al disco il giusto tocco di umorismo British (la dylaniana “Last Orders Please”). A Nod Is As Good As A Wink...To A Blind Horse riesce così a dare finalmente giustizia alla band, non soltanto per il disco d’oro assegnato dalla RIAA l’anno successivo, ma soprattutto perché convince i più scettici: i Faces bevono, distruggono camere d’albergo, ma sanno fare buona musica.
A cavallo tra il 1971 e il 1972, la band continua a trionfare in tour, ma diversi dubbi si insinuano nelle menti dei cinque Faces. In particolare, Lane e McLagan iniziano a porsi domande sul futuro della stessa band, sempre più sospettosi (e probabilmente con un pizzico d’invidia) nei confronti del successo da solista di Rod, dopo l’exploit “Maggie May”. Stewart, indubbiamente, è la star del gruppo. La situazione peggiora a causa di piccoli dettagli: Rod alloggia sempre in suite extra-lusso, ha una limousine privata, negli States i cartelloni recitano “Rod Stewart & The Faces”. Lane, che non ha un bel carattere anche a causa della sua sclerosi multipla, è su tutte le furie.
Stewart non è certo uno stinco di santo: spesso non partecipa alle prove in studio, fregandosene altamente del prossimo album, che verrà ancora una volta prodotto da Glyn Johns, l’unica persona che sta tentando di tenere insieme i pezzi. Lane accusa Stewart di tenere per sé i brani migliori, di lasciare solo i suoi scarti compositivi alla band. Tanto per capire meglio il mood tra i due, Ronnie accuserà anni dopo Rod di avergli rubato la struttura di “Mandolin Wind”. La bomba esplode dopo la pubblicazione – nel marzo 1973 – dell’ultimo album dei Faces, Ooh La La.Nonostante un primo posto nella classifica inglese, Stewart dichiara pubblicamente che il disco è “marcio”, “puzzolente”, un “bagno di sangue”.
In realtà, Ooh La La non è affatto quel gran casino descritto da Stewart. Sicuramente atipico nella discografia dei Faces – a partire dalla copertina in stile art deco con la foto stilizzata di Gastone, uno dei leggendari personaggi interpretati sul palcoscenico da Ettore Petrolini – l’album riprende il filo della brevità voluto (giustamente) da Glyn Johns e presenta alcuni buoni spunti, soprattutto nella seconda parte curata quasi interamente da Lane.
Se la prima facciata di Ooh La La ripresenta gli ormai già sentiti numeri rock and roll (“Borstal Boys” e “My Fault”), la seconda si apre con la piccola rapsodia strumentale "Fly In The Ointment” e introduce subito, senza mezze misure, il cambio di rotta. Per questo, Ooh La La è il figlio dei tempi, un racconto di circa 30 minuti sulla rottura artistica e umana tra Rod Stewart e Ronnie Lane. Il bassista prosegue con le sue dolci armonie folk ("If I'm On The Late Side"), firmando l’ennesima perla malinconica con l’elegante “Glad And Sorry”. Se la dolce "Just Another Honky" segna quasi una tregua, la title track finale è lo stornello da spiaggia che chiude di fatto i conti. Lane e Stewart sono lontani anni luce e difatti il primo decide di lasciare il gruppo nella primavera del 1973. Forse convinto di essere seguito a ruota da tutti gli altri, Lane si accorge presto di essere completamente isolato. Segnati da una grande amicizia, Stewart e Wood continuano con il nuovo bassista giapponese ex-Free Tetsu Yamauchi.
Senza Lane, i Faces fanno un nuovo giro del mondo, registrando su disco la data del 17 ottobre 1973 alla Anaheim Arena in California. Primo album live del gruppo, Coast To Coast: Overture And Beginners conferma quanto si scrive sui cartelloni promozionali degli ultimi tour. Da “It’s All Over Now” a “Cut Across Shorty”, la scaletta attinge pesantemente al repertorio da solista di Stewart, lasciando ai Faces l’ovvia hit “Stay With Me” e l’ultimo rock and roll “Borstal Boys”. Ma l’inserimento fisso del successo “Every Picture Tells A Story” denota il differente peso che Rod The Mod ha in una band ormai in disgregazione.
È la fine. Stewart perde interesse, mentre Wood accetta la corte serrata degli amici Rolling Stones che devono rimpiazzare l’esule Mick Taylor. McLagan e Jones ritrovano Steve Marriott per una fallimentare reunion con gli Small Faces. Alla fine del 1976, la Warner Bros. pubblica Snakes And Ladders/The Best Of Faces, disco compilation che contiene l’inedito rock and roll “Pool Hall Richard” e il funky cadenzato “You Can Make Me Dance”.
Dei Faces, discograficamente, non si saprà più nulla fino al 1999, quando esce un altro best of, Good Boys... When They're Asleep, utile ai fan perché contiene “Open To Ideas” che è una delle ultime canzoni soul registrate dalla band prima dell’implosione. Decisamente migliore l’intelligente operazione di recupero contenuta nella mastodontica retrospettiva di oltre cinque ore Five Guys Walk Into A Bar... che è probabilmente l’opera più completa e realistica per ripercorrere l’epopea di un gruppo di scalmanati che, pur con tanti difetti e divisioni interne, ha sconvolto le platee di mezzo mondo in meno di quattro anni.
Attraversando l’Atlantico
Non ero mica solo io. Joe Cocker era sul mio aereo da Heathrow, con la stessa direzione, ed Eric Clapton stava per imbarcarsi sul successivo.
Aprile 1975. Dopo l’implosione dei Faces e l’uscita di Smiler, Rod Stewart è all’apice del music business. Decide di trasferirsi a Los Angeles per sfuggire al più stringente regime fiscale britannico, scatenando più di una critica da parte degli osservatori e degli stessi “colleghi”. Elton John, da qualche anno suo intimo amico, lo accusa di alto tradimento nei confronti della patria. Ma Rod non è pentito della scelta, perché sta facendo vagonate di soldi e non vuole più dare un penny all’effettivamente altissima detrazione in Uk, una cifra monstre dell’83% come voluto dal Prime Minister Harold Wilson. Il manager Billy Gaff gli ha appena trovato una casa con tre camere da letto in Doheny Drive, e quando Rod arriva gli spiega un piccolissimo particolare: non potrà più tornare in Inghilterra per almeno 12 mesi. Niente partite di football, niente tazze di tè o pinte al pub. Per combattere la lontananza da casa, Stewart compra un villone di venti stanze per 750.000 dollari a Carolwood Drive. Il dolore viene alleviato (in parte) dalla presenza di Britt-Marie Ekland, attrice svedese che ha recitato nel film “Il Comandante” (con Totò) dominando le cronache rosa alla fine degli anni 60 per il suo tormentato matrimonio con Peter Sellers.
Dopo i primi anni con la Mercury, Gaff ha procurato a Rod un succulento contratto con la Warner Bros. e la possibilità di lavorare con il produttore veterano Tom Dowd. Appena sbarcato negli Usa, Stewart si chiude in studio a Los Angeles prima e poi in Alabama, questa volta senza il fido Ronnie Wood ma con musicisti di prim’ordine come Steve Cropper, Donald “Duck” Dunn e Booker T. Jones. Sotto la guida esperta di Dowd, Stewart ritrova freschezza e soprattutto un ambiente meno alcolico e più fervido in termini compositivi. Il risultato è Atlantic Crossing, uscito a Ferragosto nel 1975 e subito balzato al primo posto delle classifiche inglesi. Nonostante il tradimento fiscale.
Diretto riferimento all’attraversamento dell’oceano per trovare nuova linfa artistica – oltre che tenersi i soldi in tasca – Atlantic Crossing ha il pregio di non mentire al pubblico abituale di Stewart. L’album è una decisa sterzata verso il sound più soul e pop, lasciando cadere nel vuoto ogni reminiscenza di rock and roll o hard-blues. La nenia corale “Sailing”, che diventerà negli anni uno dei brani più famosi del suo repertorio, è la gemma splendente che Rod mostra al mondo, come orgoglioso della nuova direzione intrapresa. Peccato che, senza Beck o Wood, manchi quasi completamente il mordente, l’aggressività spontanea da pub-rocker. Ballate soul-pop come “Still Love You”, “This Old Heart Of Mine” e “It’s Not The Spotlight” nascondono un cuore dolce (e leggermente melenso) che Rod ha finora solo fatto intravedere. Mai così evidente e per certi versi spiazzante. Ecco perché il numero glam-and-roll “Stone Cold Sober” (con Steve Cropper) smuove il disco, così come gli iniziali divertissement funky-soul “Three Time Loser” e “All In The Name Of Rock ‘N’ Roll”. Atlantic Crossing è a tutti gli effetti un nuovo manifesto di Rod Stewart, che capisce con intelligenza che è arrivato il momento di cambiare, ma allo stesso producendo un disco non perfetto e buono più per allargare il suo pubblico che per rivoluzionare ancora il mondo della musica intorno a lui.
Nemmeno il tempo di promuovere Atlantic Crossing e Stewart torna in studio, ancora con Tom Dowd e la sua nuova band. Registrato tra la fine del 1975 e la primavera del 1976, A Night On The Town verrà ricordato dallo stesso Rod per una copertina tanto odiata – il suo volto inserito in un rendering del dipinto di Renoir, Bal du moulin de la Galette – ma soprattutto per una delle composizioni più ardite del suo intero catalogo. Aperto dai fiati orchestrali della pop ballad languida “Tonight’s The Night (Gonna Be Alright)”, l’album brilla per furbizia, perché Stewart ha capito cosa piace al pubblico più mainstream e decide di accontentarlo con la cover strappalacrime di Cat Stevens, “The First Cut Is The Deepest” o il soft-rock "Fool For You". In testa c’è però la piccola opera “The Killing Of Georgie (Part I And II)” che in poco più di sei minuti narra la tragica vicenda di un amico omosessuale dei Faces finito ammazzato, trascinato da una coda strumentale che ricorda parecchio “Don’t Let Me Down” dei Beatles. Se la prima parte del disco azzecca il formato ballad pop-soul, la seconda prova a rialzare i ritmi con numeri rock and roll più ordinari, come “The Balltrap” e “Big Bayou”, terminando con l’organo zuccherato di “Trade Winds”.
Alla fine del 1976, Stewart si separa da Britt che si rivolge agli avvocati che, simpaticamente, le consigliano di richiedere un risarcimento da oltre 12 milioni di dollari per la manifesta infedeltà di Rod.
Dalla minaccia punk alla disco music
In un certo senso, i punk hanno dato a gente come me ed Elton quello che meritavano: un bel calcio nel culo.
Anno 1977. Al secolo John Joseph Lydon, la voce dei Sex Pistols Johnny Rotten, dichiara pubblicamente che Rod Stewart non è altro che una vecchia scorreggia. Mentre i punk chiariscono che non può esserci nessun Elvis nel 1977, figuriamoci che posto può guadagnarsi un “vecchio” mod di 32 anni. La furia iconoclasta dei Pistols sembra soffiare a tal punto da sovrastare tutti quei musicisti ricchi e compiaciuti nelle loro ballad soft-rock. Rod non la prende benissimo, anche perché gli stessi Sex Pistols hanno a volte incluso “Three Button Hand Me Down” nelle prove in studio. Ma se i Faces vengono in qualche modo salvati dalla tempesta punk, più per il loro approccio sul palco che per la musica prodotta, la reputazione di Stewart vive un momento critico, minata dalle sue ultime scelte: auto e case di lusso, vita mondana a Los Angeles, canzoni sempre più docili e romantiche. Stewart alla fine ammetterà di “meritare un calcio nel culo” dai punk inglesi, ma la sua decisione è piuttosto ferrea: continuare con la musica che ha sempre amato, il soul, il folk, il rhythm & blues. Nel giugno 1977, il doppio singolo “I Don’t Want To Talk About It” e “The First Cut Is The Deepest” domina le classifiche inglesi scalzando proprio “God Save The Queen”.
La rivoluzione punk non ferma Rod The Mod, che a novembre pubblica Foot Loose & Fancy Free, ancora sotto la guida di Tom Dowd per l’etichetta Warner Bros. L’album inizialmente tenta il recupero della grinta hard-rock con la rollingstoniana “Hot Legs”, virando sul tema funky in stile Chic (“You’re Insane”) prima di tornare sul formato soft-ballad in chiave folk "You're In My Heart (The Final Acclaim)".
Il disco scorre piacevolmente – ancora un buon numero rock and roll impreziosito dall’armonica di John Mayall, “Born Loose” – e raggiunge il suo apice con la lunga fusione tra progressive rock e Motown style “You Keep Me Hangin’ On”, che rimane una delle cose migliori prodotte da Stewart nei suoi Seventies. Pur trattato male dai punk, Rod continua imperterrito sul romanticismo orchestrale in stile Stax "(If Loving You Is Wrong) I Don't Want To Be Right" e centra il bersaglio come un vecchio leone nell’arcobaleno acustico “I Was Only Joking”.
Primavera 1978. Dopo l’uscita di Foot Loose, Rod incontra la modella e attrice americana Alana Hamilton durante un party organizzato a Los Angeles dalla rivista Playboy. Alta, bionda e con un sorriso ammaliante, Alana gli dichiara subito il suo amore per la musica country & western. Dopo i primi appuntamenti, i due fanno coppia fissa a Los Angeles, la città che ha ormai adottato Stewart come uno dei suoi più famosi e ricchi performer.
Tra una nottata d’amore e l’altra, Rod ha iniziato ad ascoltare gli Chic e apprezza particolarmente l’ultimo singolo degli Stones, “Miss You”. Nella testa ha un ronzio sempre più ballabile che lo sta portando verso una direzione completamente nuova.
Blondes Have More Fun cade come un fulmine sul mercato discografico alla fine del 1978, perché spacca in due non solo le classifiche mondiali, ma anche tutti quei critici e ascoltatori che ancora vedono in Rod Stewart un’icona rock. "Da Ya Think I'm Sexy?" è il brano che sconvolge il pianeta sonico facendo muovere il culo a milioni di persone, dall’Australia agli States. Il problema è che Stewart, per tutti, è ancora un cantastorie del soul: non può aver cambiato direzione in maniera così repentina. Rod, invece, ha capito che la nuova direzione è la disco music, così come tanti suoi colleghi, come Jagger, Bowie e Queen. Ma se il Duca Bianco ci arriverà tra qualche anno – è ancora nel pieno del periodo berlinese – Stewart non ha nulla da perdere e si lancia nel groove funky-disco che gli farà vendere milioni di copie.
Peccato però che Rod non osi ancora di più, confezionando un disco interamente votato alla disco music. In “Dirty Weekend” si torna infatti al rock and roll, mentre “Blondes (Have More Fun)” rispolvera un riff boogie alla John Lee Hooker. Il groove micidiale di “Da Ya Think I’m Sexy?” cede il passo al ritmo giamaicano di “Attractive Female Wanted” e viene quasi replicato in “Standin’ In The Shadows Of Love” con una maggiore infarcitura di chitarre. Mentre “Ain’t Love A Bitch” è un’altra ballata soul-pop, “Scarred And Scared” mette fine al disco con un’armonica triste dalle verdi terre d’Irlanda. Tirando le somme, se il singolo dance è la perfetta fusione tra rock e disco music, il resto del disco non segue lo stesso canovaccio, finendo per essere solo un insieme di buone canzoni e nulla più.
Dopo l’uscita di Blondes Have More Fun, Rod Stewart è sul tetto del mondo, trascinato dal nuovo singolo che porta vagonate di soldi e di critiche sprezzanti dai vecchi rocker. Solo Madonna con “Like A Virgin” riuscirà, più di sei anni dopo, a vendere così tanti milioni di copie alla Warner Bros. Eppure, i fan di Gasoline Alley sono delusi e accusano Rod di essersi definitivamente venduto al music business. Anche il musicista brasiliano Jorge Ben Jor è deluso, perché la melodia del coro di “Da Ya Think I’m Sexy” è pericolosamente simile a quella del suo brano del 1972, “Taj Mahal”. Stewart cederà parte dei diritti, pensando che in fondo quel singolo così di successo sia diventato una maledizione.
Maledetto o no, “Da Ya Think I’m Sexy” è la punta di diamante del tour mondiale che parte da Manchester nel dicembre 1978. Due anni dopo la fuga a Los Angeles per sfuggire al fisco. La critica inglese non ha affatto apprezzato l’ultimo album – molto americano nel sound base – e Rod teme che la sua stessa patria lo abbia ormai abbandonato. Niente di più sbagliato, perché le date inglesi sono un trionfo.
Foolish Behaviour: gli anni 80
Sarò morto prima di arrivare a quarant’anni.
Inizio 1979. Alana è incinta, ma Rod non la prende benissimo. Non che sia contrario alla famiglia, anzi. Stewart è all’apice del successo, e viene assalito dal panico. I due litigano a morte, prima che Rod si imbarchi in un tour australiano a febbraio, dove sarà inchiodato dai giornali scandalistici per un presunto flirt con l’ex-miss mondo Belinda Green. Alana lo raggiunge in Giappone, dove scoppia la pace e viene siglato un poco romantico accordo di matrimonio per gestire al meglio un figlio in arrivo. Kimberly Alana Stewart nasce ad agosto, frantumando i sogni di Rod che voleva un maschio. In realtà, Sean Stewart emetterà il suo primo vagito poco più di un anno dopo, nel settembre 1980.
Fine 1980. Nuovamente per la Warner esce il nuovo album Foolish Behaviour, il primo del neonato decennio e soprattutto atteso seguito del successo mondiale di “Da Ya Think I’m Sexy?”. Il lavoro di Stewart è però mediocre, perché da un lato non c’è alcuna linea di continuità con le atmosfere da dancefloor, dall’altro non presenta brani memorabili sulla scia del vecchio sound rock and roll. La sensazione è che il talento compositivo di Rod si sia imbolsito dietro la vita mondana, le belle donne, i quadri costosi e polvere di cocaina. Aperto dalla sarabanda boogie “Better Off Dead” – scritta con il suo nuovo compagno di band, il batterista ex-Vanilla Fudge, Carmine Appice - Foolish Behaviour è un disco insapore, pur contornato da buoni ingredienti come il riff in stile T-Rex della title track. Rod, ovviamente, insiste sul formato soft-ballad (“Say It Ain’t True” o “Somebody Special”), ma questa volta senza guizzi.
Molto più ispirato è il successivo Tonight I’m Yours, prodotto dallo stesso Stewart con il suo nuovo chitarrista Jim Cregan, ex-Family. Il disco esce alla fine del 1981 e venderà oltre 10 milioni di copie in tutto il mondo, trascinato anche da recensioni benevoli per il suo mix di classic rock, pop e sonorità new wave. Stewart azzecca i numeri più “duri”, come la scatenata giravolta rock and roll "Tora, Tora, Tora (Out With The Boys)" e la sintetizzata versione degli ultimi Stones, “Jealous”.
Ma se il disco ha così tanto successo è perché contiene due brani perfetti sia per il pubblico danzereccio mainstream che per gli ascoltatori più snob a caccia di nuove sonorità in stile Devo. Impreziosita dalla chitarra di Mark Knopfler, “Young Turks” è effettivamente un piccolo capolavoro di groove synth e armonie eighties-pop indimenticabili. Ancora più schizoide il ritmo ossessivo di “Tonight I’m Yours (Don’t Hurt Me)” che interpreta alla maniera di Stewart (sempre melodica) la “nuova onda” arrivata negli Stati Uniti verso la fine dei Seventies.
Ottobre 1982. Mentre Rod è intento a provare nuovi brani nella sua lussuosa villa a Carolwood Drive, qualcuno bussa alla porta. In realtà sono tre persone: un giornalista fotografico del Sunday People, una donna di mezz’età di nome Evelyn e una ragazzina di 18 anni di nome Sarah. Alana sa benissimo chi è quella ragazzina e chiede a Rod di non presentarsi alla porta d’ingresso. Bisogna chiamare piuttosto un avvocato, perché non esiste che sia presente anche un giornalista fotografico. Rod non ha dimenticato Sarah. Improvvisamente gli torna in mente il volto del suo primo amore Susannah Boffey e di quella bambina data in adozione per non prendersi la responsabilità di essere padre a 19 anni.
L’apparizione di Sarah non sarà un grave problema per Stewart – i due resteranno in buoni rapporti, una volta scavalcata la stampa impicciona – ma rappresenta l’ennesimo turbamento per Alana, che ormai vede esaurirsi ogni impegno matrimoniale. Rod è sempre in giro per il mondo e passa il suo tempo libero tra amici, partite di calcio e mega-feste. La più cruda realtà è che lo stesso Stewart sta portando avanti una relazione con la modella texana Kelly Emberg, da cui avrà una nuova figlia, Ruby, dopo tre anni dal divorzio con Alana nel 1984.
Da “Da Ya Think I’m Sexy?” a “Young Turks”, Stewart ha venduto milioni di dischi, al picco di una fama planetaria che lo porta in giro per il mondo con un mastodontico tour nel 1982, da cui è tratto il chilometrico Absolutely Live. In ben quattro facciate e quasi un’ora e mezza di musica, il disco è la rappresentazione della grandeur di Rod e soprattutto la dimostrazione di quanto la sua musica sia entrata ormai nella testa di milioni di persone. La chicca dell’album è la versione sfrenata di “Stay With Me” con due coriste d’eccezione, Kim Karnes e Tina Turner.
Dopo aver rotto con il manager Billy Gaff, Stewart continua la sua cavalcata discografica verso gli anni 80. Nel 1983 esce Body Wishes che si fa subito notare per la sua copertina kitsch in stile Elvis Presley. L’album è più che mediocre, vivacizzato giusto da giusto alcuni brani come la danza pop-blues “Dancin’ Alone” e la title track, ballata soft-rock con la giusta dose di sintetizzatori.
Ancora peggiore il successivo Camouflage, che esce all’inizio dell’estate 1984 e vede il ritorno alla chitarra di Jeff Beck in tre pezzi, "Infatuation", "Can We Still Be Friends" e "Bad For You". Anche se Beck cerca di offrire i suoi servigi rock, il disco affoga in una marea di sintetizzatori soft-pop, rendendo tutto il lavoro completamente piatto e senza variazioni sul tema.
Supportato dal celebre produttore canadese Robert Alan Ezrin, Rod ci riprova due anni dopo pubblicando Every Beat Of My Heart, dedicato ai genitori Bob ed Elsie. L’album è un dispiegamento di forze – dalle chitarre di Steve Cropper e Nils Lofgren alle tastiere di Nicky Hopkins – ma non riesce a convincere la critica musicale che sottolinea come, ormai, la musica di Stewart si ripeta come un loop infinito. Una sorta di bulimia discografica che porta a continue abbuffate di soft-pop commerciale come in "Another Heartache" e “Love Touch”, inserita nella colonna sonora del film di Ivan Reitman “Legal Eagles”, con Robert Redford. Non a caso, uno dei pezzi più sentiti del disco è la versione soul-gospel di “In My Life” dei Beatles. E questo la dice lunga sulle capacità compositive di Stewart dopo l’ultimo successo di “Tonight I’m Yours”, cinque anni prima.
Estate 1986. Dopo l’uscita del mediocre Every Beat Of My Heart, Stewart si imbarca nel più grande tour europeo mai affrontato, conscio dell’ancora enorme successo commerciale dei suoi brani. Probabilmente conscio del pessimo lavoro portato avanti negli ultimi anni, Rod decide di riprendersi artisticamente con un piccolo aiuto di amici fidati. Entrano così in studio Andy Taylor (Duran Duran), Bernard Edwards e Tony Thompson (Chic), che nel frattempo hanno ritrovato nuova vita musicale con il supergruppo The Power Station. Non c’è una direzione ben precisa, ma l’alchimia si crea spontanea e confluisce in Out Of Order, pubblicato nella tarda primavera del 1988. Il nuovo lavoro è decisamente più riuscito dei tre precedenti, ben costruito grazie al contributo di Andy Taylor che firma con Stewart il rock and roll springsteeniano “Lost In You” e l’efficace riff nel boogie sintetizzato "Dynamite". Rod divide le royalties con l’idolo Bob Dylan nella ballad “Forever Young” e rivisita in chiave funk lo standard blues "Nobody Knows You When You're Down And Out".
Non mancano le ormai inossidabili farciture soft-pop (“My Heart Can’t Tell You No” e “Crazy About Her”), ma almeno la produzione con Taylor e Edwards crea un effetto grintoso e ben strutturato. Chiude il sinuoso groove di basso in "Almost Illegal", che aiuta a trascinare Out Of Order verso il doppio disco di platino, uno dei maggiori successi commerciali di Rod negli anni 80.
Il decennio si chiude con l’uscita di diverse compilation, con una menzione speciale per il mastodontico Storyteller – The Complete Anthology: 1964–1990 che ricapitola in quattro dischi e ben 65 canzoni la famelica carriera di Rod The Mod. Si parte dalla versione country-jazz di “Good Morning Little Schoolgirl” e si arriva all’ultimo singolo del 1989, grintosa cover pop di “Downtown Train” (Tom Waits). Il primo disco dell’antologia arriva fino ai primi frutti discografici dei Faces, includendo alcuni brani non ancora inclusi su album ufficiali come il beat “Can I Get A Witness?”, la cover di Sam Cooke, “Shake” e il blues orchestrale “Little Miss Understood”. Il secondo disco arriva fino a Smiler, includendo la ballata country "What's Made Milwaukee Famous (Has Made A Loser Out Of Me)", il soul di "Oh! No Not My Baby" e il numero funky “You Can Make Me Dance, Sing Or Anything”. Nel disco tre sono invece presenti la cover sensuale di “To Love Somebody” con Booker T. & the M.G.’s e quella tra il sinfonico e l’anfetaminico di “Get Back” (Beatles).
Steroidi
Una notte, sul palco a Sheffield, ho davvero pensato di essere in realtà in cucina insieme a mia madre. Perché gli steroidi avevano mangiato il mio stomaco.
Estate 1990. Dopo il trionfale giro di concerti in Sud America all’interno dell’Out Of Order Tour, Stewart incontra la modella neozelandese Rachel Hunter, che spopola con le sue curve mozzafiato sulle copertine di Sports Illustrated. Rod non è affatto spaventato dalla differenza evidente d’età – lei ne ha 25, lui 45 – e inizia la sua corte serrata facendole recapitare dozzine di rose rosse alla sede della sua agenzia a New York. Proprio mentre sta per scoccare l’ultima freccia, in occasione del suo compleanno a settembre, Stewart riceve una chiamata dalla madre che gli comunica la più triste delle notizie: il padre, Bob, è morto nel sonno all’età di 86 anni. Rod vola in Inghilterra insieme a Rachel, e le lacrime piovono copiose, ma il loro legame viene saldato dal dolore: i due si sposano il 15 dicembre 1990 a Beverly Hills, dando alla luce Renee (1992) e Liam (1994).
Al matrimonio di Stewart partecipa anche il boss della Warner Bros., Rob Dickins, che lo invita caldamente a tornare in studio con nuovo materiale da registrare. Il risultato è Vagabond Heart, pubblicato nel marzo 1991 con il ritorno alla produzione dell’ex-Chic Bernard Edwards. L’album è “un Gasoline Alley nei quartieri più eleganti di Los Angeles”, a dimostrazione di quanto Stewart punti a creare un incontro tra il vecchio e il nuovo se stesso. Particolarmente riuscite le ballate più mature, “No Holding Back” e “If Only”, mentre i momenti più rock – “Rebel Heart”, “Moment Of Glory” e l’irresistibile marcia springsteeniana “Go Out Dancing” che sembra uscita da “Born In The Usa” - convincono sia per piglio canoro che per maturità compositiva. Buone prove anche con le cover, dalla rollingstoniana “It Takes Two” (con l’amica Tina Turner”) all’elegante versione soft-pop di “Broken Arrow” (Robbie Robertson).
Dopo l’uscita di Vagabond Heart – oltre un milione di copie negli Stati Uniti – Stewart si imbarca per l’ennesimo tour mondiale, che lo porta in giro per quasi un anno. Al contrario del disco, il Vagabond Hear Tour non riscuote lo stesso successo, perché la voce di Rod inizia a fare le bizze, stressata dal susseguirsi infinito di date ma soprattutto dall’utilizzo sempre più intenso di cocaina e steroidi.
Nel giugno 1991, nel pieno delle date europee, Stewart è costretto ad annullare diverse date, soprattutto quelle tedesche dove il pubblico non la prende affatto bene. Visibilmente ingrassato dai vari cocktail a base di steroidi, antibiotici e vitamine, Rod cede del tutto durante un live show a Sheffield. I farmaci non hanno effetto sulla gola, causandogli allucinazioni – mentre canta, al posto degli spettatori ha una visione della madre nella cucina della sua vecchia casa – e una seria emorragia interna, allo stomaco. Viene trascinato via nella sua limousine, dove il medico gli pratica una trasfusione di sangue d’emergenza. Il tour di Vagabond Heart finisce alla meno peggio grazie all’utilizzo di un apparecchio noto come in-ear monitor, che gli permette di controllare meglio la voce.
Alla fine del Vagabond Heart Tour, Stewart decide di godersi la sua bellissima moglie e una vita maggiormente votata al tepore familiare. Nel 1993 esce Lead Vocalist, un disco strano, a metà tra la compilation – si parte dal vecchio blues “I Ain’t Superstitious” con Jeff Beck – e una serie di nuovi singoli, esclusivamente cover. Da Stevie Nicks arriva l’eighties-pop “Stand Back”, mentre la versione orchestrale di “Ruby Tuesday” è un portentoso buco nell’acqua, superato solo dall’inutile marcia matrimoniale “Shotgun Wedding”. Decisamente meglio con il Chicago blues di "First I Look At The Purse" (Smokey Robinson) e con la gemma "Tom Traubert's Blues”, ancora dal repertorio di Tom Waits.
All’inizio del 1993, Rod viene invitato dalla celebre emittente televisiva Mtv a registrare un live dell’altrettanto noto format Unplugged, già sfruttato con enorme successo da artisti come Eric Clapton e Paul McCartney. Non a caso, dalla prima messa in onda nell’estate del 1981, Mtv ha “passato” in heavy rotation brani come “Da Ya Think I’m Sexy?” e “Sailing”. Stewart, che è un animale da palcoscenico, improvvisamente si intimorisce: suonare, da seduto e in acustico, davanti a una platea ristretta, quasi da pub. Arriva così il momento più giusto per richiamare il vecchio amico Ronnie Wood, che aiuta Rod in un nuovo arrangiamento acustico dei suoi grandi successi, durante tre settimane di prove a Los Angeles. Il live per Mtv viene registrato il 5 febbraio agli Universal Studios, pubblicato dalla Warner a maggio con l’insolito titolo Unplugged... And Seated.
Nonostante Wood non sia segnato dalle stimmate del fenomeno come Clapton, l’esibizione acustica per Mtv è una sorta di resurrezione per Stewart, che riesce a restituire nuova linfa a brani ormai datati come “Cut Across Shorty” e la British-ballad “Handbags And Gladrags”. Se lo stesso format Mtv Unplugged sembra destinato ai signori – in senso anagrafico – del rock, Stewart riesce a sfoderare una prestazione vocale di tutto rispetto, sicuramente una delle migliori dalla fine degli anni 70. Anche se a volte il live scade nelle solite dolcezze di troppo – “Tonight’s The Night” o la versione di Van Morrison, “Have I Told You Lately” – Rod azzecca la furbata di recuperare a piene mani il repertorio seventies, dalla scatenata “Every Picture Tells A Story” alla cristallina “Mandolin Wind” che rinverdisce di colpo l’intesa con Wood.
Il ritorno dell’amico di una vita lo riporta sulle polverose strade del blues (“Highgate Shuffle”) prima di rispolverare in chiave acustica la hit dei Faces “Stay With Me”. La voce di Stewart sembra di colpo liberata, sollevata dalla liturgia sinfonica di “People Get Ready” e dalla nenia folk “The First Cut Is The Deepest”. Alla fine, lo show di Rod è un trionfo, perché riesce a combinare i più antichi (e scatenati) ritmi fifties (“Having A Party”) andando avanti con il folk di venti anni dopo (“Gasoline Alley”) e ancora nel futuro con la hit eighties “Forever Young”. Dopo anni difficili, un riscatto coi fiocchi, anche in un format per vecchie cariatidi del rock.
Unplugged... And Seated è una bomba sul mercato discografico statunitense, dove vende oltre 3 milioni di copie. Il disco porta Stewart in tour nei due anni successivi, fino all’apoteosi alla vigilia di Capodanno nel 1994 dove si esibisce sulla spiaggia di Copacabana a Rio con oltre 3.5 milioni di spettatori che lo portano nel World Guinness Record per la maggior concentrazione di pubblico a un concerto. Introdotto da Jeff Beck, nello stesso anno entra nella Rock and Roll Hall of Fame.
Cover Man
Non mi piace scrivere canzoni.
Maggio 1995. Dopo una insolitamente lunga pausa discografica, Stewart torna con l’album A Spanner In The Works, a quattro anni di distanza dall’ultimo disco di materiale originale, Vagabond Heart. Di originale, in realtà, è rimasto poco e niente. Rod ammette pubblicamente di non sentirsi più un vero songwriter, piuttosto un acclamato performer ormai giunto alla piena maturità. Dopo l’esibizione acustica per Mtv – dove almeno ha ritrovato l’amico Wood e la vecchia verve seventies – il nuovo disco è tiepido, come uno specchio per un uomo di mezz’età che si diverte a cantare brani altrui. La sentita e toccante versione di “Sweetheart Like You” (Dylan) convince più per l’interpretazione vocale che per arrangiamenti, sicuramente più grintosi nella “Hang On St. Christopher” ancora dal canzoniere di Waits. Con il pop-rock di “Leave Virginia Alone” (Tom Petty), ben pochi altri sussulti nel corso del disco, che scivola via senza alcuna infamia, ma nemmeno grandi picchi di originalità (almeno) nel sound, pur in presenza di un numero quasi infinito di musicisti coinvolti in studio.
La nuova dimensione da performer dilaga nel successivo If We Fall In Love Tonight, prodotto da Arnold Stiefel, chairman e Ceo dell’omonima agenzia specializzata in talent management e produzione Tv. L’album è completamente votato a un unico format, la ballad soft-pop con effetti di masterizzazione degni di un programma televisivo per aspiranti cantanti. La title track, ad esempio, si candida come una delle peggiori cose mai registrate da Rod, seguita dalla melassa disneyiana di “For The First Time”. Forse concepito per esaltare i cuori più deboli degli ascoltatori di mezz’età statunitensi, il disco si salva soltanto per la cover di Carole King, “So Far Away” e la collaborazione con Sting e Bryan Adams in “All For Love”. Per il resto, non si potrebbe nemmeno parlare di un vero e proprio disco, piuttosto di una over-produzione studiata a tavolino per spezzare cuori di ascoltatori poco avvezzi all’arte delle sette note.
L’ultimo lavoro prima della separazione dalla Warner Bros. è When We Were The New Boys, pubblicato nel 1998 con una scelta decisamente più azzeccata di cover. Rod ritrova la grinta perduta sul brit-riff "Cigarettes And Alcohol" (Noel Gallagher) e commuove con la nuova versione acustica del vecchio classico Faces “Ooh La La”, riscritta subito dopo la morte dell’amico-nemico Ronnie Lane, che negli ultimi anni di vita lo ha anche accusato di avergli rubato la melodia principale di “Mandolin Wind”. Stewart sembra finalmente guardare ad artisti più contemporanei, come nell’hard-boogie supersonico “Rocks” (Primal Scream) o nella nenia folk “Secret Heart” (Ron Sexsmith). L’intera mossa, a un primo ascolto, pare forse azzardata: ritrovare la vena da pub rocker dopo troppi anni. Invece Rod tiene botta come il proverbiale vecchio leone e sfodera una grande prestazione nell’acida "Hotel Chambermaid" (Graham Parker), dimostrando a tutti di poter trovarsi ancora a suo agio con materiale più duro o alternativo, da "Shelly My Love" (Nick Lowe) alla ballad country "What Do You Want Me to Do?" (Mike Scott).
Maggio 2000. Stewart varca le porte del Cedars-Sinai a Los Angeles, per il suo solito controllo medico di routine. Questa volta, nonostante giochi ogni week-end a calcio all’età di 55 anni, l’attesa per il referto è più lunga del solito. Gli viene diagnosticato un cancro alla tiroide, fortunatamente operabile alla svelta senza trattamenti chemio che avrebbero portato la sua amatissima chioma bionda a salutare tutti. Il problema vero è che Rod deve assolutamente astenersi dal cantare per una durata variabile tra tre e sei mesi. Incapace ormai di fare altro nella vita, Stewart decide di assoldare un maestro di canto per iniziare a fare esercizi di rafforzamento della voce dopo l’operazione. Con stoica calma e assoluta dedizione, torna a cantare. Un’ottima notizia dopo un periodo difficile: nel 1999 Rachel chiede infatti il divorzio. Ma Rod sembra avere infinite vite matrimoniali e nello stesso anno incontra Penny Lancaster, altra modella alta e bionda di ventisette anni.
Nel 2001 esce Human, primo album per la nuova etichetta Atlantic Records che in realtà è una sister label del Warner Music Group. Nel corso della sua carriera, Stewart è riuscito sempre a cavarsela bene con i nuovi trend musicali, dalla disco al britpop. Con Human, la nuova onda è il contemporary soul, ovvero quel sound in stile Babyface che sicuramente aiuta le sue corde vocali provate dall’intervento alla tiroide. Il risultato è però disastroso, una tappezzeria inutile di drum machine con armonie vocali tra le En Vogue e appunto la ballad portata al successo negli States da Babyface. Dalla title track alla nuova hit “I Can’t Deny It”, i brani si susseguono senza alcuna distinzione tra loro, nel tentativo di ringiovanire ancora un artista che sembra ormai destinato alla soffitta del rock.
Il grande canzoniere americano
Penso di dover realizzare un disco fatto interamente di classici, quelle meravigliose canzoni americane.
A cena con il suo manager, Stewart confessa: “Penso di dover fare un disco di classici”. Il manager quasi soffoca. “Sì, dai. Un album fatto di standard, quelle meravigliose canzoni americane. Cole Porter, Irving Berlin, Rodgers e Hart. Le canzoni con cui sono cresciuto, la roba che ho ascoltato mentre ero ancora sulle ginocchia di mio padre”. Ma Arnold Stiefel non è affatto convinto: “Posso essere onesto con te? Credo che dovresti accantonare l’idea, almeno per una o due decadi”.
La cena in questione è datata 1983. Rod ascolta il consiglio di Arnold, per almeno due decadi. Ma se allora c’era ancora tanto da fare, musicalmente parlando, dopo il flop totale di Human il ricordo di quel desiderio prende forma. Perché Rod è assolutamente convinto di essere finito come songwriter, e dopo milioni di dischi venduti, Human è stato un disastro allarmante per i suoi standard. Il suo ultimo produttore, Trevor Horn, gli consiglia di ritirarsi in un cottage in campagna per provare a suonare da solo con una chitarra acustica. Ma Rod Stewart non è Johnny Cash o Neil Young e la sola idea lo fa rabbrividire.
La miccia si accende quando incontra il produttore discografico Richard Perry, che è un amante delle vecchie canzoni americane quanto lui. Perry lo incoraggia. Nasce così It Had To Be You: The Great American Songbook, pubblicato per la J Records (Sony Music) nell’ottobre 2002. L’idea alla base del disco è pure brillante: rivitalizzare le vecchie pop-song americane con la partecipazione di una delle voci più roboanti del rock moderno. Supportato da Clive Davis – l’uomo dietro il ritorno trionfale di Santana sulle scene del pop-rock mondiale – Stewart ci mette l’anima, considerando la recente operazione e l’orrendo lavoro portato a termine con Human. Il problema sta nella scelta dei brani, oltre che negli arrangiamenti pop-jazz che sostanzialmente non permettono all’ascoltatore di distinguere un brano dall’altro. Rod non è certamente Sinatra, e pur mettendoci il suo, non riesce a produrre un disco memorabile.
L’operazione, manco a dirlo, riesce a livello commerciale: il disco venderà 3 milioni di copie negli Stati Uniti e verrà seguito giusto l’anno successivo da As Time Goes By: The Great American Songbook, Volume II che presenta un format identico al precedente, ad eccezione del duetto con Cher, "Bewitched, Bothered & Bewildered” e di quello con Queen Latifah nella title track.
Protetto dal successo commerciale – nel 2002 supera i 100 milioni di copie vendute in tutto il mondo – Stewart può permettersi di insistere con Stardust: The Great American Songbook, Volume III che contiene i duetti con Eric Clapton (“Blue Moon”), Stevie Wonder (“What A Wonderful World”) e Dolly Parton (“Baby, It’s Cold Outside”). Il disco vince un Grammy Award nel 2004, ma non dice nulla sul prosieguo artistico di Rod, che continua nella sua versione da anziano crooner da cocktail-bar. Il progetto continua l’anno successivo con Thanks For The Memory: The Great American Songbook, Volume IV che vede la partecipazione di Elton John e Diana Ross.
Nell’ottobre 2006 esce Still the Same…Great Rock Classics Of Our Time, che continua sulla scia delle cover ma con un ritorno ai generi rock e pop dopo quattro album consecutivi di traditional a stelle e strisce. Fin dall’iniziale versione country-pop di “Have You Ever Seen The Rain?” appare chiaro che Rod The Mod si muova questa volta in una zona di comfort, certamente non con il piglio vocale di una volta, ma almeno con un mood più suo. Stewart sente emotivamente il ritorno alle basi, dalla ballad “I’ll Stand By You” al country-rock “Day After Day”. Anche se resta quel sapore di disco karaoke, Still The Same è un album decente di intrattenimento, con una versione da lacrimoni di “Father And Son” e le schitarrate in downtempo di “Lay Down Sally”.
Dopo l’uscita dell’ennesimo album di sole cover, Stewart entra a far parte della Uk Music Hall of Fame, insieme ai Led Zeppelin e Brian Wilson. Ormai sulla vetta del monte Olimpo delle celebrità pop mondiali, Rod continua imperterrito a vestire l’abito luccicante del karaoke-man, pubblicando nel 2009 Soulbook, album interamente dedicato al genere soul e alla celebre etichetta Motown. Dalla versione funky di “Wonderful World” al duetto con l’armonica di Stevie Wonder in “My Cherie Amour”, Soulbook è un disco che segue piuttosto pedissequamente il tradizionale sound di Motor City, condotto interamente dalla voce da crooner melodico di Stewart come in “You Make Me Feel Brand New” con Mary J. Blige.
La gigantesca operazione di recupero del traditional-pop americano continua nel 2010 con Fly Me To The Moon... The Great American Songbook Volume V che nulla toglie o aggiunge agli altri quattro capitoli della serie.
Nel marzo 2011 parte da Fort Lauderdale l’Heart & Soul Tour, che vede protagonisti Stewart e Stevie Nicks per due leg fino ad agosto 2012 tra Canada e Stati Uniti. Il giro di concerti fa registrare il sold-out nelle principali arene nordamericane, con incassi a sei zeri. Nell’estate 2011, Rod firma un contratto di 2 anni come resident artist al Colosseum del Caesars Palace di Las Vegas, attirando milioni di spettatori con il suo greatest hits.
Stiamo ormai parlando di un mostro della musica mainstream, un re mida capace di trasformare in patacche dorate tutto ciò che canta. Nel giugno 2012 firma un contratto discografico con la Universal, pubblicando ad ottobre il disco di standard natalizi Merry Christmas Baby per l’etichetta controllata, la Verve. Prodotto dalla macchina da Grammy David Foster, il disco include diversi duetti spacca-classifiche (Michael Bublé, CeeLo Green, Mary J. Blige) e vende l’esagerazione di 2.6 milioni di copie diventando il settimo album più venduto dell’anno.
Time: ritorno al songwriting
Dopo venti anni bui, scrivere la mia storia mi ha restituito quell’impeto per scrivere ancora musica originale.
Nella primavera del 2013 viene pubblicato il disco Time, che dopo oltre dieci anni di sole cover e di successi da karaoke mainstream vede il ritorno di Rod Stewart alla scrittura di canzoni originali. Prodotto con il compositore e tastierista Kevin Savigar, il disco rivitalizza solo a metà la sua carriera da songwriter, anche perché lo stesso Stewart deve ricorrere a diversi compositori inseriti tra i credits di ciascun brano. Se lo stornello folk “Live The Life” e il ritmo rollingstoniano “Finest Woman” sembrano tornare ai fasti degli esordi, altre canzoni in Time suonano migliori per l’ascolto in macchina, come nel pop-rock da autoradio “Can’t Stop Me Now” e “Beautiful Morning”. Mentre l’ennesimo recupero dal canzoniere di Tom Waits tocca le corde dell’emotività (“Picture In A Frame”), numeri come la giga irlandese “Make Love To Me Tonight” o il soft-R&B “Sexual Religion” non brillano per originalità.
Alla fine emerge però una chicca: “Time”, una grintosa ballata soul-rock scritta con il suo nuovo chitarrista Emerson Swinford. Ovviamente, il disco scala le classifiche mondiali, diventando in Inghilterra il settimo più venduto nell’intero anno. Almeno, questa volta, con brani originali.
Il successo commerciale di Time spinge Rod a continuare con il suo nuovo produttore Kevin Savigar. Due anni dopo esce Another Country che vede Stewart alle prese con un mix di generi, nel tentativo di rilanciare la sua vena compositiva. L’apertura è convincente, sulla melodia celtica “Love Is” e il boogie-soul di marca Stones “Please”. Anche la voce di Rod sembra aver trovato il giusto piglio, peccato che l’album scivoli successivamente tra ripetizioni e derive verso sonorità quasi mai affrontate, come il reggae da spiaggia “Love And Be Loved”.
Il sodalizio artistico con Kevin Savigar produce un ultimo album, Blood Red Roses, che suona abbastanza identico al precedente: dalla giga celtica della title track alla versione Irish di “Rollin’ & Tumblin’”. Il disco scalza le classifiche inglesi, arrivando al primo posto dopo quasi 50 anni da Every Pictures Tells A Story. Dopo milioni di copie vendute in tutto il pianeta, la rivincita in terra d’Albione di Rod The Mod.
Tre anni dopo è la volta di The Tears Of Hercules (2021), impreziosito dall'emozionante “Touchline”, ultimo brano in scaletta dedicato al padre Robert, scomparso nel lontano 1990. Prodotto in collaborazione con Emerson Swinford e il fido Kevin Savigar (insieme hanno co-scritto la maggior parte dei brani, nove su dodici sono nuovi di zecca) l'album non ammette però pause depresse, anzi, i ritmi sono al solito goliardici e danzerecci su testi che riguardano per lo più sesso e relazioni sentimentali, da sempre il suo rettangolo da gioco preferito, visto che di donne, manco a dirlo, ne ha avute a centinaia. Una delle tante è “Gabriella”, che rievoca la notte brava ai Tropici con una signorinella di diciannove anni, mentre la vezzosa e spensierata “One More Time” tratta lo strampalato rapporto di un celtic-lover consumato con la propria ex.
La figura del seduttore errante torna pure nella title track pianistica “Tears Of Hercules”, rielaborazione di un originale del 2004 dei compositori canadesi Marc Jordan e Stephan Moccio, ma l'amore, quello vero, dopo tanto vagabondare da un letto all'altro, glielo ha dato finalmente la moglie Penny, così la morbida “I Can't Imagine” è tutta per lei.
Per il resto, si svaria con rapidità dalla dance a luci rosse “Kookooaramabama” (unisce le tastiere cyber-electro di “Love Missile” dei Sigue Sigue Sputnik al refrain di “I Want Your Sex”) alle schitarrate glam di “Born To Boogie” in omaggio a un caro vecchio compagno di bevute (sottotitolo “A Tribute To Marc Bolan”, i versi citano alcuni pezzi da novanta dei T-Rex sul riff di “Bang A Gong”). La voce è sempre quella graffiata e graffiante dei tempi del Jeff Beck Group e dei Faces: al netto di alcuni facili stereotipi, la ballata acustica “Hold On” e il doo-wop “Precious Memories” confermano che il nostro riesce ancora a far vibrare le giuste corde prima di mettersi comodo per la pensione, magari sulle spiagge assolate del Messico con una “All My Days” a colpi di cha-cha e piña colada. Infine, spazio per altre due cover, “These Are My People” di Johnny Cash e “Some Kind Of Wonderful” di John Ellison.
In una recente intervista, Rod Stewart ha smentito una simpatica leggenda metropolitana secondo la quale il segreto della sua chioma da rubacuori starebbe nell'uso della maionese “altrimenti sai che odore...”: benché gli ingredienti risultino spesso poco amalgamati e disomogenei, nel complesso anche questo trentunesimo album non puzza affatto di marcio, occhio però alla data di scadenza.
Contributi di Giuseppe D'Amato ("The Tears Of hercules")
JEFF BECK GROUP | ||
Truth (1968) | 8,5 | |
Beck-Ola (1969) | 7,5 | |
FACES | ||
First Step (1970) | 6,5 | |
Long Player (1971) | 7 | |
A Nod Is As Good As A Wink... To A Blind Horse (1971) | 7,5 | |
Ooh La La (1973) | 6,5 | |
Coast To Coast: Overture And Beginners (1974) | 5,5 | |
Snakes And Ladders/The Best Of Faces (1976) | ||
Good Boys... When They're Asleep (1999) | ||
Five Guys Walk Into A Bar... (antologia, 2004) | ||
ROD STEWART | ||
An Old Raincoat Won’t Ever Let You Down (1969) | 7 | |
Gasoline Alley (1970) | 7 | |
Every Picture Tells A Story (1971) | 7,5 | |
Never A Dull Moment (1972) | 7 | |
Sing It Again Rod (1973) | ||
Smiler (1974) | 6,5 | |
Atlantic Crossing (1975) | 6 | |
A Night On The Town (1976) | 6,5 | |
Foot Loose & Fancy Free (1977) | 7 | |
Blondes Have More Fun (1978) | 6 | |
Greatest Hits, Vol. 1 (antologia, 1979) | ||
Foolish Behaviour (1980) | 5 | |
Tonight I’m Yours (1981) | 7 | |
Absolutely Live (live, 1982) | 7 | |
Body Wishes (1983) | 4 | |
Camouflage (1984) | 4 | |
Every Beat Of My Heart (1986) | 4 | |
Out Of Order (1988) | 6,5 | |
The Best Of Rod Stewart (antologia, 1989) | ||
Storyteller – The Complete Anthology: 1964–1990 (antologia, 1989) | ||
Downtown Train – Selections From The Storyteller Anthology (antologia, 1990) | ||
Vagabond Heart (1991) | 6,5 | |
Lead Vocalist (1993) | 6 | |
Unplugged… And Seated (live, 1993) | 7,5 | |
A Spanner In The Works (1995) | 5,5 | |
If We Fall In Love Tonight (1996) | 3,5 | |
When We Were The New Boys (1998) | 6,5 | |
Human (2001) | 3 | |
The Story So Far: The Very Best Of Rod Stewart (antologia, 2001) | ||
It Had To Be You: The Great American Songbook (2002) | 5 | |
As Time Goes By: The Great American Songbook, Volume II (2003) | 5 | |
Stardust: The Great American Songbook, Volume III (2004) | 5 | |
Thanks For The Memory: The Great American Songbook, Volume IV (2005) | 5 | |
Still The Same… Great Rock Classics Of Our Time (2006) | 6 | |
Soulbook (2009) | 5,5 | |
Fly Me To The Moon... The Great American Songbook Volume V (2010) | 5 | |
Merry Christmas Baby (2012) | 4 | |
Time (2013) | 5,5 | |
Another Country (2015) | 5,5 | |
Blood Red Roses (2018) | 5,5 | |
The Tears Of Hercules (Warner / Rhino, 2021) | 6 |
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