Tra le tante band che, nel corso degli anni, sono diventate delle vere e proprie leggende, gli MC5 hanno, senza dubbio, un posto d'onore. Il loro messaggio rivoluzionario, estremamente influenzato dal leader del White Panther Party, John Sinclair, entrò in rotta di collisione con l'ideologia fin troppo accomodante della cultura "hippie", lontana mille miglia dagli assordanti baccanali proposti dalla band di Detroit. La storia racconta che nel 1964, a Lincoln Park, nello stato del Michigan, si formarono i Motor City Five, la cui line-up era costituita dal cantante Rob Tyner, dai chitarristi Fred "Sonic" Smith (futuro marito di Patti Smith) e Wayne Kramer, dal bassista Pat Burrows e dal batterista Bob Gaspar. Giusto il tempo di qualche concerto, ed ecco i primi esperimenti di Smith e Kramer con distorsioni e feedback, roba che faceva venire il mal di testa a Burrows e a Gaspar, tanto da indurli ad abbandonare. Come sostituti, arrivarono il batterista Dennis Thompson e il bassista Michael Davis.
Durante tutto il 1966, la band raccolse un nutrito seguito nell'ambito della scena locale, grazie anche a una costante presenza live al Grande Ballroom. Immediatamente, i nostri attirarono l'attenzione di John Sinclair, un insegnante di Inglese, che, tra l'altro, era anche leader delle Pantere Nere, un partito dalle forti tinte rivoluzionarie che predicava l' "assalto totale alla cultura con ogni mezzo necessario, incluso il rock & roll, la droga, e il sesso nelle strade". Diventato manager della band, Sinclair seguì la lavorazione del loro primo singolo, "I Can Only Give You Everything", che raccolse buoni consensi.
Dopo la partecipazione allo "Yippies' Festival Of Life" di Chicago, venne firmato un contratto con la Elektra, preludio alla pubblicazione del loro primo album. Registrato dal vivo al Grande Ballroom tra il 30 ed il 31 ottobre del 1968, Kick Out The Jams è uno degli esordi più devastanti e fulminanti di sempre, vera pietra miliare del rock più duro e oltraggioso. La Elektra ebbe il suo gran da fare per distribuire l'album, a causa delle liriche esplicite di Tyner.
L'idea di registrare l'album dal vivo fu di Sinclair, convinto che solo così si potesse catturare lo spirito autentico degli MC5. Ed, infatti, quella notte di Halloween, c'erano tutte le premesse perché la band di Detroit entrasse direttamente nella leggenda. A salire per primi sul palco, furono gli Stooges di Iggy Pop. L'aria era quasi irrespirabile, con tutto quell'aroma soporifero di incenso e marjuana. Il set di Iggy & c. fu, come al solito, eccezionale: punk-ante litteram come non se ne è visto mai. Le luci stroboscopiche scivolano insidiose sul volto degli spettatori: il Grande Ballroom appare come una bolgia di grida e di silenzi irreparabili. Ad infiammare ulteriormente il pubblico, ci pensò una violenta arringa di J.C. Crawford, "Brother" e "Spritual Advisor" della band: "I wanna hear some revolution out there, brothers. I wanna hear a little revolution".
Certo, oggi il suo messaggio può apparire datato, ma quella sera sembrava che davvero la rivoluzione fosse prossima ad abbattersi sugli States, facendo piazza pulita di tutto il loro bagaglio di idiozie criminali. E la violenza e la rabbia con la quale si apre "Ramblin' Rose", con quel falsetto di Tyner che cavalca in maniera egregia il caos organizzato da Kramer, da Smith e da tutto il resto della combriccola, è la rabbia, violenta e smisurata, di tutti i presenti al grande evento, e, di riflesso, di una intera generazione stanca di soprusi e di politici da strapazzo. Giusto qualche attimo di pausa, ed ecco giungere uno dei momenti essenziali della storia del rock, quello in cui Tyner grida, senza esitazione, "Kick out the jams, motherfuckers!". Quello che segue è uno dei brani più epilettici di sempre, con la batteria rutilante e pestona, le mitragliate incendiare delle sei corde, e il basso che, mentre sembra sommerso dal rumore assordante, lancia barlumi minacciosi e veementi. Quanto di più iconoclasta l'America puritana poteva aspettarsi!
Senza prendere respiro, la corazzata MC5 dilania ulteriormente la sotterranea vena blues in "Come Together", marciume sonico che precipita periodicamente in abissi di rumore e di deliri dionisiaci. C'è un clima di eccitazione febbrile nel pubblico che segue, stupefatto, questi moderni baccanali, queste apocalissi vertiginose di sesso, droga e rock & roll. E il concerto, allora, diventa un vero e proprio happening, dove tutti si sentono protagonisti, perché tutti hanno un ruolo: quello di essere qui e ora.
"Rocket Reducer No. 62" continua a macinare feedback e distorsioni, e sembra di vederle quelle torri di amplificatori che tremano, quasi impaurite di dover sopportare tanta violenza. Ma non c'è spazio per i tentennamenti, come sembra voler suggerire il punk sudicio e sfrenato di "Borderline", con scintille al napalm di chitarra. Un momento di distensione è rappresentato dal blues esuberante di "Motor City Is Burning", con Smith e Kramer intenti a disegnare sublimi triangolazioni di accordi velenosissimi. "I Want You Right Now" ha un passo solenne, con la ritmica abbandonata al suo destino, in mezzo a quelle chitarre furibonde e malsane.
Giusto il tempo di lasciare spazio alla voce, qui più sensuale che mai, di Tyner, ed ecco esplodere di nuovo il caos, senza compromessi. A questo punto, a dare il colpo di grazia ci pensa una incredibile rilettura della "Starship" di Sun Ra, profeta del jazz-cosmico. La progressione imperiosa lancia il rumore tra le stelle, lo lascia annegare tra buchi neri e galassie lontanissime. Il silenzio cosmico viene trafitto da bagliori impercettibili, da vocalizzi primordiali e da brandelli psichici. Tutto assume contorni oscuri, indefinibili. Lontane le sarabande assordanti e le distorsioni magmatiche, ecco apparire una voce che lancia messaggi da un punto disperso nell'universo. La platea è come ipnotizzata: ognuno è vicino all'altro, ma, dentro di se, lontanissimo da tutto e da tutti. La liberazione definitiva, il ritorno all'origine, a quel fruscio impalpabile che era la nostra curiosità per un mondo non ancora ridotto a pura immagine, è prossima. Questo è quanto il disastro strumentale che chiude Kick Out the Jams sembra prefigurare.
Irriducibili e ultra-politicizzati, gli MC5 sono un cancro da cui l'America non è mai riuscita a liberarsi. Dopo la pubblicazione dell'album, la band non riuscì a godersi il suo momento di gloria, dato che Sinclair venne arrestato per una losca storia di droga. Senza il loro manager, gli MC5 persero anche l'appoggio della Elektra. Poco male. L'Atlantic, infatti, era già pronta sulla porta di casa con un nuovo contratto. Ma senza Sinclair, la forza dirompente e l'impegno politico del primo album svanirono senza lasciare traccia.
Prodotto da Jon Landau, Back In The Usa fu pubblicato nel 1970, e vede la partecipazione anche di due tastieristi, Pete Kelly e Dan Jordan. Molti addetti ai lavori ritengono che sia questo "l'album definitivo del proto-punk". Difficile dirlo con certezza, però brani quali "Looking At You" e "Human Being Lawnmover" sembrano confermare quanto sopra.
Comunque, venuta meno l'urgenza espressiva e la volontà di sperimentare elevando il rumore a "poesia sonora", l'album non può che apparire, per forza di cose, inferiore al suo monumentale predecessore. Se "Tutti Frutti" e la title track (poste una all'inizio e una alla fine dell'album) sono riletture possenti di brani di Little Richards e di Chuck Berry, gli anthem supersonici, che si susseguono uno dopo l'altro nella terra di mezzo, non fanno altro che scatenare un trambusto estenuante e minaccioso, privo, però, di quella capacità enormemente "creativa" che caratterizzava i brani del primo album. I fan si divisero in merito al nuovo approccio della band; molti, tra l'altro, mal sopportavano l'avvenuta "de-politicizzazione".
Nel 1971, dopo un anno di concerti in giro per gli States, fu la volta di High Times, loro terzo e ultimo album ufficiale, nonché quello più accessibile. La matrice hard-rock del lavoro precedente viene qui sovraccaricata da una strampalata vena rhythm & blues. Brani come "Sister Anne", "Skunk (Sonicly Speaking)" o "Baby Won't Ya", pur essendo di discreta fattura, non possono fare altro che confermare che il viaggio della band di Detroit è, purtroppo, giunto al capolinea.
Nel 2024 quella che si profilava come una festa per il clamoroso ritorno dopo più di cinquanta anni, viene listata a lutto dalla scomparsa di Wayne Kramer, venuto a mancare a Los Angeles il 2 febbraio dello stesso anno. Kramer era l’unico sopravvissuto degli Mc5, ed ecco allora che questo nuovo album non fa che consegnare l’eredità definitiva di uno dei più grandi sovversivi del rock. Ma se cercherete in Heavy Lifting (2024) lo spirito dell’anatema “Kick out the jams, motherfucker”, rimarrete delusi. Se più realisticamente vi aspettate un disco tosto, generoso, grondante voglia di suonare e a suo modo fresco, come lo è sempre l’energia quando il mestiere assicura al tutto la dignità necessaria, senza soffocare la spontaneità, allora questo è un ascolto che potrà animarvi le giornate. Che abbiate 14 anni o 74. Vi troverete l’energia militante dello scambio di battute fra Tom Morello dei Rage Against The Machine e il miliardario sovranista double standard più orribilmente famoso del pianeta, il piglio ironico e navigato del Bob Ezrin produttore dei Deep Purple maturi e, per coloro che amano un certo modo di fare cultura americana, il pathos melodico e cantautorale made in Oakland di Brad Brooks.
Si tratta sostanzialmente un disco solista di Wayne Kramer, con la collaborazione di Morello e Brooks, nato da un’idea di Ezrin. Il riferimento agli Mc5 però è tutt’altro che infondato. A parte il diritto che ha ogni artista di porsi in continuità con il proprio passato quando lo ritiene opportuno, ci sono ottime ragioni in un periodo come quello che stiamo attraversando per ritrovare dei vecchi amici che non hanno mai mollato il colpo, che non si sono mai venduti.
Certo, se vi siete nutriti del mito di un Wayne Kramer anticipatore del nichilismo autodistruttivo generazione ‘75/’77, o se non perdonate a Tom Morello di non avere più 20 anni, potreste rimanere persino infastiditi da un album del genere. Ma la forza di un personaggio come Kramer sta anche nella sua ingenuità. L’onestà intellettuale e senza paletti di brani come “Blessed Release”, o “Barbarians At The Gate” (sull’assalto dei trumpiani alla Casa Bianca) travalica generi ed epoche. Un disco del genere lo ascolti solo se ne hai voglia. Altro da lassù un vecchio rocker un po’ punk e un po’ hippy, un po’ debosciato e un po’ grande saggio come Wayne Kramer non chiede. E meno ancora chiederebbe un Dennis “Machine Gun” Thompson, batterista outsider, nonché ultimo della formazione originaria degli Mc5 ad andarsene, a maggio di quest’anno, anch'egli occasionalmente coinvolto qui.
In questi pezzi Wayne aveva solo una grande voglia di suonare. La sua ultima parola è un bell’album di classic rock appassionato e muscolare, da sentire a volume alto e senza indulgere in paragoni che rovinino la festa. Meglio lasciarsi trasportare dall’attacco in grande stile della title track con un Tom Morello in grande forma, molto vicino al suono dei suoi concerti da solista dell’ultimo periodo. La festa prosegue con episodi di buon impatto come “Can’t Be Found” con la partecipazione di Vernon Reid (uno dei brani in cui suona Dennis Thompson), o “The Edge Of The Switchblade” con William Duvall e Slash, fino al gran finale di “Hit It Hard”.
E' stato un gran bel viaggio. E ora, "kick out the jams, motherfuckers!".
Contributi di Piergiorgio Pardo ("Heavy Lifting")
Kick Out The Jams (Elektra, 1969) | ||
Back In The Usa (Rhino, 1970) | ||
High Time (Rhino, 1971) | ||
Looking At You (Receiver, 1994) | ||
Ice Pick Slim (Alive, 1995) | ||
The American Ruse (Total Energy, 1995) | ||
Teen Age Lust (Alive, 1996) | ||
Big Bang (Rhino, 2000) | ||
Heavy Lifting (earMusic/Edel2024) |