T. Rex

Electric Warrior

1971 (Fly Records)
glam-rock

Chiudete gli occhi; allargate le braccia e lasciatevi svaporare.
A quel punto, poco per volta, vi solleverete da terra. Ecco, così.
(Paul Auster, "Mr. Vertigo")

La trascendenza è un processo complesso. Ce lo insegnano da millenni. Noi ci crediamo. E diamo per buona l'ipotesi per cui certi solchi sulla fronte siano sintomatici di un pensiero a lunga scadenza. Nel frattempo, la natura ci sfugge di mano, e con essa l'incanto. Incatenati alla ricerca di un senso latente, a monte e a valle di ogni accadimento, impariamo l'indifferenza e dimentichiamo lo stupore. La bellezza diventa un accidente astratto e sfocato, nella ricerca affannata di un dirvi intorno. Il filtro tra la percezione e l'emozione si fa effetto serra, e la gioia del fruire fine a se stesso si smarrisce in un pulviscolo razionale.

Marc Bolan, o dell'innocenza. I T. Rex, o della trascendenza di quella stessa innocenza. Ma abbandonando ago e filo, lontano da ogni ricamo cerebrale, partiamo, invece, dal cuore.

Il 1965 è l'approdo di un percorso esistenziale fantasmagorico per il diciottenne Mark Feld, ex-principe dei Mods londinesi e dandy barocco per vocazione. Il background a base dell'eroe Elvis, insieme con altre piccole, vecchie e nuove divinità - Cliff Richards, Eddie Cochran, Bob Dylan, Syd Barrett - come in un Olimpo costruito a propria immagine e somiglianza, è sobillato dall'emergere planetario di un nuovo, determinante e portentoso fenomeno: l'ascesa dei Beatles. Mark, acrobata sulla sottile linea di demarcazione tra realtà e fantasia, non teme certo di sfidare la possibilità, e, imbracciata la propria chitarra, inizia a bazzicare diversi studi di registrazione, con una manciata di cover - biglietto da visita. L'operazione non frutta alcun contratto, ma procura un manager all'ambizioso sognatore, Mike Puskin, autore del passaggio (che sancirà ufficialmente l'inizio di un sogno) dalle speranze di Mark Feld alla determinazione di Marc Bolan, con una k in meno e un cognome nato probabilmente dalla contrazione tra lo stilista Bohan (un altro tra i molteplici eroi di Mark) e il songwriter Dylan. Il contratto tra i due dura un anno, durante il quale Marc incide per la Decca "The Wizard", primo singolo solista e delizioso psych-garage donovaniano, incrocia tra le quinte di un qualche programma pop un ancora sconosciuto Jimi Hendrix e si diletta a scrivere racconti fantasy. Il 1966 non è ancora finito, ma evidentemente Marc non ha bisogno di troppo tempo per ammaliare la gente: Simon Napier Bell è il suo nuovo manager, ed è che con lui che incide per la Parlophone "Hippy Gumbo", piccolo e ingiusto flop.

È il 1967, e Marc diventa chitarrista e corista dei John's Children, a cui ruberà immediatamente la scena, per poi andarsene dopo soli tre mesi e un infelice tour di supporto agli Who. Il nuovo vagabondaggio è segnato da un incontro illuminante, quello con il sitar di Ravi Shankar, da cui il ritorno di fiamma al rock acustico e un folle annuncio sul Melody Maker per cercare chitarra, basso e batteria. Il primo a rispondere è il percussionista e corista Steve Peregrine Took. Signori, ecco a voi i Tyrannosaurus Rex. Tra il 1968 e il 1969, vengono realizzati "My People Were Fair and Had Sky in Their Hair... But Now They're Content to Wear Stars on Their Brows", "Prophets, Seers & Sages - The Angels of the Ages" e "Unicorn", sorta di saga in tre atti per un'infanzia adulta e naive, dalla mirabile limpidezza acustica a narrare i più reconditi afflati di aria, terra, fuoco e aria col supporto di un impianto percussivo come gentilmente sostenuto dalle tantissime creature dei boschi che abitano la penna di Marc. I Tyrannosaurus Rex piacciono, e non è necessario strafare, basta essere se stessi, non è ancora tempo di scendere a compromessi con pubblico e produttori, alterare la propria immagine e forgiare opportunisticamente la propria identità a seconda del vento che spira nel mercato e nell'immaginario dei volubili fan. Si può ancora costruire la propria arte intorno a un nucleo romantico e ancestrale. È con questa valigia piena di elfi, unicorni e rugiada che si parte per il tour negli States. Ma qualcosa non funziona. Per vivere l'incanto del bosco Marc non ha bisogno (almeno per il momento) di additivi, ma Steve sì, ed è, quindi, fuori. Ancora un altro annuncio su Melody Maker, e ancora un altro componente (stavolta quasi definitivo): a prendere il posto di Steve è il pittore Mickey Finn, membro fisso sino al 1975.

Lasciatosi alle spalle un 1969 segnato non solo da un cambio d'organico, ma anche da una crisi coniugale, risolta nella riconciliazione con una June Child al limite della devozione e un incrociare il proprio talento a quello del Bowie reduce dalla freccia magnifica di "Space Oddity" (per cui leggenda vuole che Marc suoni la chitarra in "The Prettiest Star), è tempo di alleggerire la nomenclatura, così da facilitare il lavoro ai dj in radio (compreso John Peel, acuto sostenitore della prima ora): i Tyrannosaurus Rex divengono, molto più agilmente, T. Rex. Gli abiti di scena si fanno scintillanti e la quantità di glitter con cui enfatizzare un aspetto già di per sé insolito diventa un segno di riconoscimento - tra i tanti - per meglio identificare Marc e la sua musica.
"T. Rex", nel 1970, non è che l'anticamera piacevole di ciò che sta per accadere l'anno successivo. Il training volto a dinamizzare il suono, sino all'epoca dei Tyronnosaurus Rex orgogliosamente abbarbicato alla frugalità dell'approccio acustico, riesce alla perfezione ed "Electric Warrior", nel 1971, ne diventa l'irripetibile saggio finale.

Il progetto, irrobustito dalla progressiva ascesa e dal carisma irresistibile di Bolan, nasce già ambizioso: l'organico si amplia, con Steve Currie al basso elettrico, Bill Legend alla batteria ed un'incursione del produttore Tony Visconti ai violini. È come se l'elfo più bello del bosco avesse perso l'innocenza, divenendo consapevole del proprio fascino, amplificato da un fare innocentemente provocante, nella volontà di sedurre definitivamente il mondo. L'androginia smaliziata non allontana il pubblico, ma ne scatena ancor più violentemente l'immaginario. Tutti vogliono essere Marc, meno accidioso di Bowie e più viscerale del futuro Bryan Ferry.
Il glam-rock di "Electric Warrior" è luce per eccellenza, e saranno, qualche anno di là da venire, solo le infauste circostanze a gettarne le ombre. Il trampolino di lancio è "Get It On", ed è immediatamente visibile il cambio di rotta verso un suono più denso ed elettrificato. I T. Rex di "Electric Warrior" sono una creatura nuova, sfrontata e vanitosa, giustamente vanitosa e Marc ha ormai archiviato l'antico languore silvestre, per lanciarsi in un vibrato sussurrato mordicchiando l'orecchio all'ascoltatore ("Mambo Sun"). La coesione delle singole parti - malgrado la recente formazione - è assolutamente perfetta, ogni musicista riesce bene nel proprio ruolo, accelerando a velocità sostenuta un Marc cowboy nel country-pop di "Jeepster".

Ma perché non osare ancora? Quanto può essere diametralmente opposto il Dna di un bluesman rispetto a quello di una rockstar generosamente truccata e di paillettes abbigliata? A voler riflettere su ciò che ne può venir fuori, non si può pensare che a un ibrido probabilmente molto ridicolo. Ma Marc non è uno qualunque. E sotto quegli abiti di scena non vive un camaleonte opportunista. Il blues di "Lean Woman Blues" va al di là di ogni confine di genere, contrastato dalla chitarra assolutamente maschia e da quel vocalizzare deliziosamente ruffiano, capace di sedurre ogni creatura proveniente anche da pianeti altri. Altra caratteristica assolutamente imprescindibile, nella comprensione del capolavoro, è l'importanza assegnata ai cori, che in "Planet Queen" fanno da propaggine tesa all'infinito, e alla fine co-protagonista della voce di Marc. In "Motivator" il gioco della chitarra è serratissimo, sino quasi a riempire da sola gli spazi vuoti.

Sul finire, l'antipasto hard-rock di "Rip It Off" graffia più che mai, Marc si diverte a ispessire la voce e la chiosa è affidata al sassofono pregevole di Ian Mc Donald (già nei Fairport Convention, King Crimson e nella cricca zappiana), che l'Andy Mackay degli imminenti ed esordienti Roxy Music sembrerà ascoltare attentamente. Ma l'ultima delle matrioske è quella più stupefacente, piccola e piena di bellezza. Non è un caso aver deciso di lasciare alla fine le ballate bolaniane, viaggi emozionali in galassie nelle quali fluttuare con assoluta, indicibile, disarmante gioia dello spirito. Basterebbero i violini avvolgenti di "Cosmic Dancer" per guardare l'onere terrestre dall'alto e imparare non solo a volteggiare sui tetti delle case come Billy Elliott (il protagonista del film omonimo di cui la canzone sarà parte della colonna sonora), ma anche a sfidare l'aria come novelli Mr. Vertigo, memori del nostro embrionale essere e rigirarci nella fluidità del ventre materno.
Se "Monolith" è una vischiosa dedica soul, la sensualità immacolata di "Girl", con il ritorno all'essenzialità della chitarra acustica, recupera quella dimensione magica à-la "Unicorn". A questo punto, resta solo da ballare "Life's A Gas", appiccicati con complicità, e senza aggiungere parola alcuna, ma solo qualche sorriso e sguardo d'assenso.

Dopo è Gloria, di nome e di fatto. Marc, monarca assoluto tra piume e lustrini, cavalca l'onda del proprio ego, perdendone le coordinate e iniziando a sguazzare nella debolezza delle dipendenze. Malgrado il successo gli arrida ancora per qualche anno, la critica non è poi così magnanima con i suoi nuovi lavori, e alcool e droga sono lì a portata di mano.
Marc ricomincia dall'amore, costruendo ex-novo la sua vita con Gloria Jones, la bellissima vocalist della Northern Soul (la stessa dell'originale e poi abbondantamente coverizzata "Tainted Love" del 1964) conosciuta qualche anno prima in America.
La morte deciderà di affidare proprio a Gloria l'auto nella quale Marc compirà l'ultimo viaggio: la notte del 16 settembre 1977 - a un mese esatto dalla dipartita di Elvis - la Mini Gt viola su cui la coppia viaggia va a schiantarsi contro una quercia. La stella ha compiuto la sua traiettoria, troppo breve, seppur intensa, per lasciare qualche barlume di consolazione.
Avremmo voluto dirne ancora molto, ma non ci resta che il tesoro di un bagliore puro e, per questo, per sempre, magnifico, insieme con qualche ristampa completa di bonus track ed una edizione deluxe, in occasione del trentesimo anniversario.

In memoria di Marc Bolan e di tutta la sua luce

08/01/2012

Tracklist

  1. Mambo Sun
  2. Cosmic Dancer
  3. Jeepster
  4. Monolith
  5. Lean Woman Blues
  6. Bang A Gong (Get It On)
  7. Planet Queen
  8. Girl
  9. The Motivator
  10. Life's A Gas
  11. Rip Off

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