Waterboys

Waterboys

The Big Music

Dall’epicità dirompente degli esordi al lirico folk-rock della maturità, dalla diaspora degli anni Novanta alle multiformi reincarnazioni progettate dal leader Mike Scott. Fino al recente omaggio alla poesia di William Butler Yeats. Un lungo viaggio di formazione, lungo le strade di un'inesausta ricerca musicale, senza mai scendere a compromessi. Ovvero: la saga dei Waterboys, la band che inventò quel tracimante “pieno sonoro” chiamato “Big Music”

di Enrico Iannaccone, Claudio Fabretti

Un lungo viaggio di formazione, lungo le strade di un'inesausta ricerca musicale, senza mai scendere a compromessi: si potrebbe sintetizzare in questo modo la parabola artistica di Michael Scott, detto Mike, titolare da ormai quasi trent'anni del marchio “The Waterboys”, nome collettivo con il quale il musicista scozzese ha firmato una lunga serie di album, tra i quali almeno un paio di capolavori assoluti. Proviamo a ripercorrere la lunga storia di una band e di uno spesso geniale “uomo di musica” che, probabilmente, non hanno mai riscosso il successo e la considerazione che pure avrebbero meritato.

Mike Scott nasce ad Edimburgo il 14 dicembre del 1958. La sua infanzia è complicata dal divorzio dei genitori (nel 1968) e dai continui traslochi della sua famiglia da una località all'altra della Scozia: il giovanissimo Mike, in questo modo, acquisisce una irrequietezza e una tendenza al nomadismo, esistenziale ma anche artistico, che in futuro paleserà nei frequenti cambi di rotta musicale che imprimerà ai lavori della sua band. Come tutti gli adolescenti, Scott si appassiona alle ragazze e al calcio, ma il suo più grande amore è proprio la musica, in particolare quella di Beatles, Bob Dylan e David Bowie: ben presto impara a suonare la chitarra (diventerà un eccellente polistrumentista) e, all'età di 15 anni, forma la sua prima band, nella cittadina scozzese di Ayr.
A 18 anni intraprende (senza grande entusiasmo) gli studi di letteratura inglese e filosofia all'Università di Edimburgo, ma li abbandona dopo poco per dedicarsi a tempo pieno alla sua vera grande passione. Tra il 1977 e il 1978, in piena era punk, crea la fanzine musicale “Jungleland” e forma una band chiamata “The Bootlegs” che, completata la line-up con l'ingresso dell'amico John Caldwell, cambia nome in “Another Pretty Face”.
La nuova formazione incide quattro singoli, riceve articoli piuttosto lusinghieri della stampa specializzata, viene notata dalla Ensign Records e decide di conseguenza di trasferirsi a Londra, dove cambia ancora nome in “Funhouse”, prima che Scott, insoddisfatto della direzione musicale presa dal gruppo, decida di abbandonarlo per seguire un nuovo progetto per il quale scrive febbrilmente diverse canzoni.

Il 23 dicembre del 1981, in un piccolo studio di registrazione di Islington, nord di Londra, chiamato “Redshop”, Mike Scott, con l'ausilio di una 12 corde Danelectro Bellzouki e di alcuni loop di batteria pre-registrati, in poche ore incide tre nuovi brani (“December”, “The Three Day Man” e “Bury The Heart”) che costituiranno il primo nucleo dell'album di esordio dei Waterboys prossimo venturo.
Chiusa definitivamente l'esperienza con i Funhouse, Scott si guarda attorno alla ricerca di musicisti con i quali avviare un nuovo progetto: in un disco dell'amico Nikki Sudden (ex-Swell Maps) il musicista scozzese scopre un talentuoso giovane sassofonista chiamato Anthony Thistlethwaite e lo coinvolge immediatamente in una nuova band chiamata The Red and the Black, della quale entrerà a far parte anche un amico di Thistlewaite, il batterista Kevin Wilkinson. Il nuovo gruppo avrà vita assai breve, ma il sodalizio di Scott, Thistlewaite e Wilkinson sarà foriero di sostanziosi sviluppi.

Una ragazza di nome Johnny

Waterboys - Mike ScottNella primavera del 1982 la Ensign chiede a Scott di tornare in sala d'incisione con il produttore Rupert Hine per registrare nuove canzoni e rifinire quelle già incise qualche mese prima: nell'ambito di queste session verrà fuori “A Girl Called Johnny”, brano cardine del primo periodo Waterboys. Nell'autunno del 1983 una nuova full immersion nello studio Redshop, con l'aiuto di Thistlewaite e Wilkinson, permetterà a Scott di incidere nuovi pezzi e affinare notevolmente le sue abilità in sala d'incisione.
I tempi sono maturi per la pubblicazione di un disco d'esordio: la Ensign avrebbe in mente di puntare su un Mike Scott solista ma questi ha idee differenti, preferisce muoversi nell'ambito di un gruppo e crea The Waterboys (citazione da “The Kids”, brano di Lou Reed contenuto nell'album “Berlin” del 1973), prima che una vera e propria nuova band, una sorta di collettivo aperto del quale entreranno progressivamente a far parte Anthony Thistlewaite e il drummer Kevin Wilkinson. Tra le decine di canzoni incise da Mike Scott e soci, ne vengono scelte otto e, nell'estate del 1983, viene pubblicato un album omonimo, esordio della nuova formazione.

The Waterboys è un disco interessante, ma ancora indeciso sulla direzione da prendere: la sua musica è un misto, paradossale ma a tratti affascinante, della voce calda e appassionata di Mike Scott innestata su gelide atmosfere post-punk (tipiche del periodo storico) e di suoni sintetici “umanizzati” dall'arioso e potente sassofono di Anthony Thistlewaite. Si cominciano a intravedere le linee guida del primo periodo dei Waterboys, la cosiddetta “Big Music”, che ancor meglio caratterizzerà i successivi due album della band, quell'indefinibile eppure inconfondibile e trascinante/tracimante “pieno sonoro” cantato con enfasi e passione da Mike Scott e caratterizzato da liriche che sovente parlano di religiosità e misticismo (anche pagano e ancestrale).
Il pezzo trainante, e anche i primi abbozzi della “Big Music” prossima ventura, di The Waterboys è senza dubbio il primo singolo estratto dalla raccolta, la bellissima “A Girl Called Johnny”, a quanto si racconta dedicata alla “sacerdotessa” Patti Smith: il brano vive del perfetto impasto sonoro tra la voce appassionata e il pianoforte di Mike Scott, il sassofono di Anthony Thistlewaite e le percussioni suonate dai due, da Ray Massey e dal produttore Rupert Hine. Notevole anche l'iniziale “December”, secondo singolo estratto dall'album: il brano, inciso per la prima volta nelle session del 23 dicembre 1981 e rifinito successivamente con l'aiuto di Rupert Hine in quelle della primavera 1982, è una lunga cavalcata (quasi sette minuti) dalle suggestive atmosfere post-punk, con in bella evidenza la 12 corde di Mike Scott e un testo appassionato che dai temi abbastanza classici di una “calda” storia d'amore sbocciata sullo sfondo di un gelido dicembre trascende (è proprio il caso di dirlo), in maniera sorprendente, in un finale impregnato di misticismo e religiosità.
Suoni più scarni per l’acerba ma tutto sommato intrigante “The Three Day Man” (anch'essa frutto delle session al Redshop di fine 1981), dal retrogusto ancora una volta post-punk, così come la lunga, sommessa e atmosferica “Gala”. Nuovi assaggi di “Big Music” nella vivace, movimentata e ben più matura “I Will Not Follow”, dove ritorna il sax di Thistlewaite e fanno capolino anche il basso di Nick Linden e la batteria di Kevin Wilkinson. Decisamente meno interessanti la fin troppo frenetica “It Should Have Been You”, forse banalizzata da una batteria elettronica un po' troppo elementare, e la ballata al rallentatore “The Girl In The Swing”, dai toni cupi e quasi sepolcrali. Più significativa la ferina e inquietante “Savage Earth Heart”, con la quale si chiude The Waterboys, o quantomeno la sua versione originale, dal momento che diversi brani “scartati” tra quelli incisi tra il 1981 e il 1983 verranno inclusi nella versione rimasterizzata dell'album, pubblicata nel 2002.
In definitiva, l'album d'esordio dei Waterboys è un disco interessante, nel quale è possibile indovinare l'evoluzione futura di Mike Scott e soci verso la “Big Music” che costituirà la cifra stilistica della band fino al 1985 ma che ancora si dimostra irrisolto e acerbo, pagando dazio all'epoca post-punk con suoni che verranno decisamente accantonati nei lavori successivi.

Neopaganesimo celtico

WaterboysIl seguito si fa attendere soltanto un anno e, del resto, non può essere altrimenti, considerata la grande prolificità del Mike Scott autore e dal momento che già diversi brani, frutto delle session al Redshop dell'autunno 1982, sono già praticamente pronti. Il nuovo album, intitolato A Pagan Place è un lavoro decisamente più denso e strutturato del suo predecessore, un'opera che porta a compimento il processo di evoluzione della “Big Music” in parte enunciata nella prima raccolta e che trasforma definitivamente il collettivo fluido e abbastanza indistinto The Waterboys in una vera e propria band, della quale, oltre ad Anthony Thistlewaite e Kevin Wilkinson, di fatto entrano a far parte anche il tastierista Karl Wallinger (reperito tramite un annuncio di Scott sul Nme) e il trombettista Roddy Lorimer, a completare con Thistlewaite una eccellente sezione fiati.
Realizzato in due fasi ben distinte (le session del novembre 1982 al Redshop e quelle dell'autunno 1983, con l'aggiunta di Wallinger e Lorimer, presso i gallesi Rockfield Studios, nelle quali vengono incisi i brani che Mike Scott ha elaborato durante il suo buen retiro estivo nella cittadina scozzese di Ayr), A Pagan Place si apre immediatamente con uno dei momenti più significativi della raccolta, l'emozionante crescendo “Big Music” di “Church Not Made With Hands”, brano che riprende i temi mistici e religiosi già palesati nell'esordio omonimo e che ben rappresenta la potenza sonora sviluppata dalla voce, dalla chitarra e dal pianoforte di Mike Scott, dalla batteria di Kevin Wilkinson e dalla granitica sezione fiati del duo Thistlewaite-Lorimer.
Notevole anche la graffiante e ritmata “All The Things She Gave Me”, sorta di amareggiata riflessione di un uomo che, alla fine di un amore, si chiede dove poter conservare le cose che la non più sua lei gli ha dato, mentre la sognante “The Thrill Is Gone”, incisa come la precedente nelle session dell'autunno 1982, risente in maniera palese della lezione del grande Van Morrison e arricchisce il quadro musicale dipinto da Mike Scott con le note struggenti del violino di Tim Blanthorn, primo passo nella direzione “celtica” che contraddistinguerà la musica dei Waterboys a cavallo tra gli anni 80 e 90.
Formazione al gran completo, da Scott a Wallinger, passando per Thistlewaite, Lorimer e Wilkinson, per la bella e vivace “Rags”, mentre la breve e tiratissima “Somebody Might Wave Back” introduce a “The Big Music”, probabilmente il massimo capolavoro dell'album, nonché il manifesto della poetica di Mike Scott: il brano, un'emozionante cavalcata sonora con in bella evidenza la voce calda e appassionata del frontman a dispiegare un testo intarsiato da un'ebbrezza quasi panica (“I have heard the Big Music and I'll never be the same... something so pure just called my name”), vede di nuovo la line-up della band al gran completo, con la piacevole nota dell'aggiunta ai cori di una giovane Eddi Reader, futura cantante degli scozzesi Fairground Attraction e successivamente titolare di una dignitosissima e forse un po' sottovalutata carriera solista.
Le atmosfere si fanno più plumbee per la cupa e suggestiva penultima traccia, intitolata “Red Army Blues”: la canzone, anch'essa incisa nelle session dell'autunno 1982, è una malinconica ballata che vede il sax di Anthony Thistlewaite librarsi altissimo a colorare di note struggenti e disperate la vicenda di un reduce dell'Armata Rossa che, dopo aver rischiato la vita per il proprio paese durante la Seconda guerra mondiale, finisce internato in un gulag, vittima ideologica delle epurazioni staliniane.
A Pagan Place si chiude con l'eterea e gradevolissima title track, con la quale Scott sembra nuovamente ispirarsi alle suggestioni celtiche e vanmorrisoniane già palesate in “The Thrill Is Gone”. Come accaduto per il primo disco, nella ristampa rimasterizzata del 2002 verranno aggiunti altri brani inediti, a testimoniare la fervida creatività di Mike Scott, ma, anche volendo limitare il giudizio ai soli otto pezzi che compongono in origine la scaletta dell'album, non si può non constatare il deciso passo in avanti di un'opera compiuta e matura rispetto all'ancor acerbo esordio. Ormai The Waterboys non è più il moniker di un solista, ma una band a tutti gli effetti: la “Big Music” è diventata il suo verbo e non più una mera dichiarazione d'intenti. Mike Scott e soci cominciano a ottenere sostanziosi riscontri dal loro lavoro e vanno in tour in Gran Bretagna e Stati Uniti come band di supporto degli U2. I tempi sono maturi per il capolavoro.

Il mare sconfinato

Waterboys - Mike ScottE il capolavoro, puntualmente, arriva nell'autunno del 1985, con This Is The Sea. Come già accaduto per i precedenti due album, Mike Scott si dimostra un autore estremamente prolifico, scrivendo e incidendo, nel corso di un anno di lavoro, una quarantina di brani, dei quali solo nove finiscono nella versione definitiva del disco. La genesi dell’album viene dettagliatamente raccontata dallo stesso Scott nelle interessanti note di copertina della ristampa rimasterizzata, pubblicata nel 2004 e contenente un secondo cd con molte delle canzoni scartate nella prima edizione del 1985. Secondo il leader dei Waterboys, le liriche dei brani di This Is The Sea (in particolare quelle del singolo “The Whole Of The Moon”), trarrebbero spunto dal romanzo “Winter's Tale” dello scrittore americano Mark Helprin, mentre lo spiritualismo del quale è intriso il disco originerebbe dalla lettura degli scritti di C.S. Lewis, George MacDonald e Dion Fortune. Le influenze più strettamente musicali dell'album sarebbero invece da ricondurre ai Velvet Underground, al capolavoro di Van Morrison “Astral Weeks” e alle opere del compositore americano Steve Reich. This Is The Sea, sarà di nuovo lo stesso Scott a ribadirlo, si giova inoltre di una più stretta collaborazione tra i componenti della band, a conferma della coesione raggiunta tra i suoi membri, e sarà proprio il tastierista Karl Wallinger ad aiutare Mike Scott a rifinire il concetto di “Big Music”, con la creazione in studio di un vero e proprio “wall of sound” dal sapore spectoriano. Frutto di svariate session in diversi studi di registrazione tra la primavera e l'estate del 1985, prodotto in parte con la collaborazione di Mick Glossop e John Brand, This Is The Sea viene pubblicato nell'autunno dello stesso anno, costituendo il punto di arrivo (e non ritorno) della “Big Music” dei Waterboys.
Il disco si apre con la struggente intro (dal sapore molto “cinematografico” e spagnoleggiante) della tromba di Roddy Lorimer che apre la strada alla impressionante muraglia sonora di “Don't Bang The Drum”, brano dal testo ambientalista nel quale l'intreccio di chitarre, tastiere, percussioni e fiati, con in bella evidenza la voce stentorea di Mike Scott e lo squillante sax di Anthony Thistlewaite, dà vita a una potenza davvero travolgente. Atmosfere più terse e rilassate per “The Whole Of The Moon”, piacevolissimo singolo da classifica che ancora una volta declina brillantemente gli stilemi della “Big Music” della band. Discusso è il significato delle suggestive e un po' criptiche liriche del brano (“Unicorns and cannonballs, palaces and piers/ trumpets, towers and tenements/ wide oceans full of tears/ flags, rags, ferryboats, scimitars and scarves/ every precious dream and vision underneath the stars/ You climbed on the ladder/ with the wind in your sails/ you came like a comet/ blazing your trail/ too high, too far, too soon/ You saw the whole of the moon”): lo stesso Scott, solitamente prodigo di informazioni e di aneddoti circa il suo lavoro (tanto da pubblicare di recente un'autobiografia), non ha mai contribuito granché a sciogliere il mistero, limitandosi a evidenziare la già citata influenza sul brano del lavoro dello scrittore Mark Helprin.
I temi mistici cari al musicista scozzese ritornano con “Spirit”, breve intermezzo (ma nella rimasterizzazione del 2004 viene riproposto in una version extended di circa quattro minuti) che introduce alla drammatica e affascinante “The Pan Within” che, allo spiritualismo di matrice cristiana del brano precedente, sostituisce l'ebbrezza neo-pagana di scoprire sotto la propria pelle la presenza dell'Antico Dio Pan. La canzone, uno dei tanti picchi di una raccolta priva di punti deboli, inizia quasi in sordina, per poi salire lungo le scale di un emozionante crescendo musicale e si segnala per la presenza di un brillante violinista irlandese di nome Steve Wickam, conosciuto grazie alla partecipazione a un demo di una giovanissima Sinéad O'Connor: Wickam, di lì a poco, diventerà membro effettivo della band e fulcro fondamentale della “svolta folk” di Fisherman's Blues.
Dopo la movimentata e probabilmente meno interessante “Medicine Bow”, ispirata alle vicende dei nativi americani, è la volta della splendida “Old England”, potente atto d'accusa nei confronti della decadenza dell'Inghilterra di Margareth Thatcher, una nazione che si crogiola ancora nel ricordo della passata gloria ma che, in realtà, sta agonizzando e che, ipocritamente, distoglie gli occhi dalla sofferenza dei giovani, vittime del disagio sociale e dell'abuso di sostanze stupefacenti (e in questo senso, più volte, durante la sua lunga carriera, Mike Scott ribadirà il suo fermo e sincero rifiuto all'uso di droghe e alcol). Il brano è una magnifica e incisiva ballata che intreccia in maniera mirabile voce, pianoforte, batteria e sax, e che nasconde tra i suoi versi preziose citazioni letterarie da James Joyce (il refrain “Old England is dying”) e da William Butler Yeats.
Ritmi forsennati per la scatenata e quasi punk “Be My Enemy”, mentre la sezione fiati torna in bella evidenza per la struggente storia d'amore raccontata in “Trumpets”. L’album si chiude con la splendida title track, travolgente apice ma anche, paradossalmente, epitaffio per la “Big Music” della band. Il brano, da ascoltare rigorosamente a volume altissimo per apprezzarne la “pienezza”, è una emozionante cavalcata sonora contenente un messaggio di speranza e di catarsi, nel rigetto di ogni nostalgia per il passato e nell'invito a vivere il proprio presente.

Con l'ennesimo capolavoro, si chiude l'album “perfetto” del primo periodo della band di Mike Scott. Portata idealmente a compimento la sperimentazione sulla cosiddetta “Big Music”, il musicista scozzese, sempre alla ricerca di nuove suggestioni, rivolgerà il proprio sguardo verso occidente, in direzione dell'Isola di Smeraldo, nella cui terra affonderà le mani, alla scoperta delle radici della musica celtica.

Un blues per l’Irlanda

Waterboys - Steve WickhamTra il 1985 e il 1988, anno dell'uscita di Fisherman's Blues, ai Waterboys accadono diverse cose: il tastierista Karl Wallinger, che aveva fortemente contribuito alla definizione della “Big Music”, esce dal gruppo (pur restando in ottimi rapporti con Mike Scott), per curare un progetto solista che, con il nome collettivo di World Party, licenzierà, tra il 1987 e il 2000, cinque interessanti e sottovalutati album (la cui unica hit single, “She's The One”, per ironia della sorte, riscuoterà un enorme successo solo grazie alla cover realizzata da Robbie Williams). Il posto vacante nella line-up dei Waterboys viene assunto ad interim dal violinista irlandese Steve Wickam, già ascoltato in “The Pan Within”, la cui influenza si fa presto sentire sulla direzione musicale della band. Mike Scott, infatti, ospite di Wickam a Dublino, s'innamora dell'Irlanda e vi si trasferisce per quasi sei anni, durante i quali approfondisce la conoscenza e la passione, non solo per la musica popolare celtica e per la poesia di W. B. Yeats, ma anche per il folk americano di Woody Guthrie e Hank Williams, apprezzandone sempre più l'immediatezza e la capacità di colpire dritto al cuore senza troppi orpelli e sovrastrutture create in studio di registrazione. Nelle note di copertina della ristampa rimasterizzata di Fisherman's Blues del 2006, al solito ricchissime di aneddoti e curiosità, Scott racconterà della sua frustrazione nel non riuscire a riprodurre dal vivo la pienezza sonora della “Big Music” creata in studio per This Is The Sea e spiegherà come da questo sentimento fosse nata la pressante esigenza di un ritorno alle radici, alla libertà di nuove sperimentazioni sonore.
Spinto da questa urgenza interiore, Scott, come del resto sua consuetudine, tra il 1986 e il 1988 scrive e incide decine di brani nel corso di diverse session, all'inizio presso i Windmill Lane Studios di Dublino e, successivamente, dopo una breve parentesi a San Francisco sotto la supervisione del produttore Bob Johnston, nella Spiddal House di Galway, nel cuore gaelico dell'Irlanda, dove il musicista si spinge alla ricerca della più profonda essenza della musica popolare celtica. Tredici brani frutto delle session vengono scelti a comporre la scaletta del nuovo album, mentre dieci verranno pubblicati nel 2002 con il titolo Too Close To Heaven (significativamente rinominato “Fisherman's Blues Part 2” per il mercato americano) e altri quattordici proposti come “bonus disc” nella già citata ristampa rimasterizzata del 2006. Con il nuovo album i Waterboys, in buona sostanza, confermano la loro originaria natura di nome collettivo aperto alle collaborazioni di svariati musicisti e sessionmen (una buona ventina, oltre ai fidi Thistlewaite, Lorimer, Wilkinson e Wickam).

Fisherman's Blues esce nell'autunno del 1988 e viene immediatamente salutato dalla critica musicale dell'epoca come un nuovo capolavoro. La “Big Music” che aveva caratterizzato i primi tre album è solo un ricordo: il presente è un emozionante ritorno alle radici della musica popolare britannica (per il quale Scott conierà il termine di “Raggle Taggle Sound”) e un disco impregnato del verde umido dei prati irlandesi e dell'odore di torba tipico dell'Isola di Smeraldo.
La raccolta si apre con l'emozionante title track, una trascinante ballata folk scritta a quattro mani con Steve Wickam, il cui violino, meravigliosamente sposato al mandolino di Anthony Thistlewaite, fa la parte del leone, con l'appassionata voce di Scott a cantare una vicenda epica e nello stesso tempo struggente (“I wish I was a fisherman/ tumbling on the sea/ far away from dry land/ and its bitter memories/ …/ no cieling bearing down on me/ save the starry sky above/ with Light in my head/ and you in my arms”). Ancora Wickam in bella evidenza nella febbrile “We Will Not Be Lovers”, storia “arrabbiata” di un amore e di una passione che non potranno mai sbocciare: il brano, uno dei picchi dell'album, è probabilmente il più tirato e torrenziale della raccolta, un vero e proprio muro sonoro che non concede tregua.
Ritmi decisamente più blandi e rilassati per la dolce “Strange Boat”, ballata dalle atmosfere quasi country, mentre nella successiva “World Party” troviamo lo zampino dell'ormai “ex-Waterboy” Karl Wallinger (co-autore del brano con Mike Scott e il bassista Trevor Hutchinson) e, significativamente, con l'inconfondibile tocco del tastierista tornano per un attimo a bruciare gli ultimi fuochi dell'ormai accantonata “Big Music” (da notare la curiosità che proprio il titolo del brano ispirerà a Wallinger il nome della sua nuova band).
La vecchia e mai sopita passione di Mike Scott per “Astral Weeks” si riaffaccia con la bella e appassionata cover della classica “Sweet Thing” di Van Morrison, mentre il primo lato dell'originaria versione in vinile dell'album si chiude con il breve intermezzo strumentale, sospeso tra il folk irlandese e il country americano, di “Jimmy Hickey's Waltz”.
Il secondo lato si apre con un nuovo capolavoro, la romantica “And A Bang On The Ear”, lunga ballata folk, scritta da Scott in collaborazione con Thistlewaite e Wickam, che racconta di vecchi amori perduti in toni struggenti ma ironici (il “colpo sull'orecchio” del titolo dovrebbe stare per “bacio sulla guancia” in slang irlandese). Di nuovo country e America per la forse meno interessante “Has Anybody Here Seen Hank?”, dedicata proprio all'icona Hank Williams, mentre le atmosfere si rifanno tipicamente irlandesi con le caratteristiche note del traditional “When Will We Be Married?”, ancora una volta “dominato” dall'inconfondibile “fiddle” di Steve Wickam. Sapori quasi californiani (ma con violino tipicamente “irish”) per la suadente ballad “When Ye Go Away”, mentre “Dunford's Fancy” è un breve divertissement strumentale dedicato da Steve Wickam all'amico e suonatore di bodhran Steve Dunford, fratello di John Dunford (in parte co-produttore dell’album).
Atmosfere rarefatte ed estremamente suggestive per “The Stolen Child”, ardita ma riuscitissima messa in musica del celeberrimo poema di W. B. Yeats (vero nume tutelare di chiunque, ad un certo punto della vita, s'innamori della cultura, della letteratura e delle tradizioni della Verde Isola). Il duetto tra Mike Scott e la profonda e pastosa voce narrante del poeta Tomas Mac Eoin, accompagnato dal flauto di Colin Blakey, è senza dubbio uno dei momenti più alti ed emozionanti di una raccolta che non conosce punti deboli e che si chiude con un omaggio ironico e simpaticamente caciarone a Woody Guthrie, con un paio di versi di “This Land Is Your Land” nei quali alcuni nomi di città americane vengono trasformati in località irlandesi, quasi a ribadire il filo rosso che, da una parte all'altra dell'Oceano Atlantico, collega la musica irlandese a quella americana e le fonti d'ispirazione di Scott e soci per la realizzazione del capolavoro chiamato Fisherman's Blues.

Il quarto album dei Waterboys riscuote un eccellente riscontro di critica che, unito a un discreto risultato di vendite, convince ancor di più Mike Scott della bontà delle sue scelte e dell'opportunità di continuare il suo viaggio alla ricerca delle radici della musica britannica. Per l'ennesima volta i Waterboys si confermano un collettivo dalla composizione estremamente fluida: ai quattro membri “stabili” Scott, Thistlewaite, Wickam e Hutchinson si aggiungono il talentuoso flautista di “The Stolen Child” Colin Blakey, la giovane e brillante fisarmonicista Sharon Shannon, e il batterista dublinese Noel Bridgeman, già presente nelle session di Fisherman's Blues, che prende il posto lasciato vacante dall'abbandono di Kevin Wilkinson (che ritornerà nella band per una breve parentesi qualche anno dopo, prima di togliersi tragicamente la vita nel 1999).

Raggle Taggle Sound

Waterboys - Mike ScottCon la nuova formazione composta da sette elementi, i Waterboys vanno in tour nell'estate del 1989, trasformando una serie di esibizioni live in un vero e proprio flusso di creatività musicale che non può non avere come naturale conseguenza il ritorno in studio per l'incisione di un album. Il nuovo lavoro, intitolato Room To Roam (da un verso del poeta scozzese George MacDonald), pubblicato nell'autunno del 1990, viene inciso nella Spiddal House di Galway già utilizzata per parte delle session di Fisherman's Blues ed è, ancor più del precedente, un album di folk celtico (o “Raggle Taggle Sound”, come da definizione di Mike Scott), essendo decisamente meno presenti le forti venature country dal sapore americano che avevano caratterizzato parte delle composizioni del suo predecessore.
Nelle, al solito doviziose, note di copertina dell'edizione rimasterizzata del 2008 (che, come per i precedenti album, contiene un secondo disco con ben 17 tra brani inediti e versioni live), Mike Scott, nel sottolineare il sostanzioso contributo del co-produttore Barry Beckett, spiegherà come il processo creativo alla base delle incisioni di Room To Roam, estremamente libero e aperto alla collaborazione di tutti i componenti della band, sia stato fondamentalmente dissimile rispetto ai precedenti album: questa volta, infatti, oltre a brani originali, vengono realizzati diversi traditional irlandesi e scozzesi, in molti casi modificati nelle liriche o nella costruzione musicale. I pezzi contenuti nella raccolta sono tanti (almeno per un'epoca ancora “dominata” dal vinile), ben 17, ma la durata dell'album è piuttosto breve (41 minuti circa) a dimostrazione del fatto che molti dei brani sono piccoli, deliziosi interludi (ben sette al di sotto dei due minuti l'uno) che, se da un lato pagano una certa irrisolutezza e frammentarietà, dall'altro testimoniano l'inesausta creatività di una formazione al culmine della sua ricerca musicale. Nelle note del 2008, inoltre, Mike Scott rivendicherà per Room To Roam, oltre all'ovvia influenza dei panorami selvaggi e incontaminati dell'Irlanda occidentale, anche il forte ascendente della musica dei Beatles più psichedelici e sperimentali (quelli di “Sgt. Pepper’s”, per intenderci).
Il quinto album dei Waterboys si apre con la delicata e brevissima ballad “In Search Of A Rose”, sorta di soave celebrazione del viaggio di ricerca interiore, e ha i suoi momenti più significativi nel folk (quasi) punk (forse leggermente influenzato dai coevi Pogues?) di “Song From The End Of The World”, nel deliziosamente infantile flauto suonato da Colin Blakey in “A Man Is In Love”, nel giocoso pop di “Bigger Picture”, nella graffiante cavalcata sonora di “Life Of Sundays” (forse il più “americano” dei brani della raccolta), nella bizzarra sperimentazione psichedelica di “Islandman”, nel sax di Anthony Thistlewaite che torna ad affacciarsi nella romantica e ariosa “How Long Will I Love You?”, nella divertente orchestrina “dixie” di “Spring Comes To Spiddall”, nella serie di traditional irlandesi e scozzesi proposti con gusto e partecipazione (tra i quali va senza dubbio segnalata la convincente rilettura della classica “Raggle Taggle Gipsy”, più volte incisa in precedenza da gruppi come Dubliners e Planxty), nella title track, una scatenata giga strumentale che chiude la raccolta con l'emblematica firma collettiva di tutti i componenti della band.
Insomma: Room To Roam è probabilmente il disco più vario e sperimentale mai realizzato dai Waterboys, solidamente nel solco del percorso di recupero delle tradizioni celtiche già iniziato con Fisherman's Blues, ma aperto alle suggestioni di un'inesausta ricerca musicale a tutto campo. Room To Roam è anche il disco più “democratico” della band che, in occasioni future, più che un gruppo, si ridurrà a una sorta di moniker del suo leader. La voce di Mike Scott, solitamente enfatica e declamatoria, assume toni più dimessi e sussurrati e il risultato, di certo un po' disorientante, risulta decisamente piacevole.
Dall'altro lato, Room To Roam paga la sua frammentarietà, l'essere composto prevalentemente da bozzetti, la sua sostanziale irrisolutezza. Un buon disco, in definitiva, interessante e ricco di spunti, degno di riscoperta e rivalutazione, ma che, tuttavia, si mantiene lontano dai capolavori della band.

Room To Roam è anche la raccolta che segna la fine della fase folk dei Waterboys. I componenti del gruppo si dividono sulla direzione musicale da intraprendere: i membri storici, Scott in testa, maturano l'esigenza di un ritorno a sonorità maggiormente rock, mentre i “celtici” Wickam, Shannon, Blackey e Bridgeman, per ovvi motivi, vorrebbero proseguire sul cammino intrapreso a partire da Fisherman's Blues. Sotto la spinta di queste tensioni interne, il gruppo esplode e, come prima conseguenza, Room To Roam viene portato in tour con una formazione tipicamente rock, composta da Scott, Thistlewaite, Hutchinson e un batterista aggiunto.
Ben presto, però, le strade dei tre membri superstiti dei Waterboys si dividono (in maniera peraltro consensuale e pacifica, tanto da lasciare inalterati i reciproci rapporti di stima e amicizia): Anthony Thistlewaite entrerà stabilmente a far parte della band irlandese The Saw Doctors e inciderà diversi album solisti, mentre Trevor Hutchinson, fermatosi anch'egli stabilmente in Irlanda, formerà i Lùnasa, con i quali proseguirà il percorso di ricerca sulla musica celtica.

Lasciato solo dagli ex-compagni di viaggio, scaduto il decennale rapporto con la Ensign Records (che nel 1991 licenzia il prevedibile greatest hits The Best Of Waterboys 1981-1990), Mike Scott saluta l'Irlanda e si trasferisce in America, dove tenta inutilmente di formare una nuova band. Decide così di andare avanti da solo, rimedia un nuovo contratto con la Geffen Records e, con l'ausilio di un consistente numero di session-men (tra i quali il bassista Kenny Aaronson e il batterista Jim Keltner, storico collaboratore di Ry Cooder), presso i Right Track Studios di New York, incide Dream Harder, il sesto album a nome Waterboys, anche se, di fatto, un vero e proprio disco solista.
Abbandonato il filone folk e celtico, la parola d'ordine per il nuovo lavoro è “rock 'n' roll”, ma gli esiti non sono particolarmente incoraggianti: “Dream Harder” si rivela un lavoro piatto e banale, che tenta senza successo di recuperare la pienezza sonora della “Big Music” di qualche anno prima (l'assenza di Karl Wallinger in studio di registrazione si sente eccome) e che, tranne pochi episodi, delude profondamente critica e appassionati, sia quelli della prima ora e sia quelli guadagnati alla causa dalla “svolta folk”.
Gli strumenti acustici che avevano caratterizzato Fisherman's Blues e Room To Roam vengono accantonati e Dream Harder si apre emblematicamente con l'aggressiva elettricità delle chitarre di “The New Life”, sorta di (invero un po' monocorde) “brano manifesto” dell'album e palese dichiarazione d'intenti circa il nuovo corso del progetto Waterboys (“I've burned my bridges/ and I'm free at last/ All my chains/ are in the past/ The New Life starts here”). Decisamente più convincente il secondo pezzo della raccolta, la splendida “Glastonbury Song”, una delle canzoni più famose dei Waterboys (e oggetto in Italia di una buona cover del nostro Samuele Bersani): il brano è un'emozionante e trascinante ballata elettroacustica che ripresenta i temi spirituali cari a Mike Scott (il verso “I just found God” più volte ripetuto nel ritornello). Di nuovo misticismo, questa volta neopagano, nella piacevole “The Return Of Pan”,  sorta di “The Pan Within' Part. 2”, significativamente scritta da Scott durante un soggiorno nella regione greca dell'Arcadia e che riprende la figura del Gran Dio Pan, già trattata nel sopracitato brano di This Is The Sea.
Per il resto in Dream Harder c'è davvero poco da segnalare e l'album nel suo insieme proprio non riesce ad andare oltre un'aurea mediocritas, arrancando tra i propositi di rinnovamento di nuovo invocati con stanca baldanza (e prolungato e un po' volgare assolo di chitarra) nella fiacca “Preparing To Fly” (“I haven't felt so great/ since I first went west/ I've got brilliant intentions/ unthinkable plans/ I've got sparks and electric shocks/ exploding in my hands”), le resipiscenze country della bamboleggiante “Corn Circles”, l'improbabile crossover funky di “Suffer”, l'imbarazzante filastrocca in odor di psichedelia di “Spiritual City”, la invero monotona “Love And Death” (nuova messa in musica di una poesia di W. B. Yeats, purtroppo ben lontana dai fasti della riuscitissima “The Stolen Child”), il blando pop-rock di “Good News” e il confuso “The Return Of Jimi Hendrix” (omaggio al grande chitarrista, co-firmato da Mike Scott con Jim Keltner e l'ex-Waterboy Anthony Thistlewaite).
In definitiva Dream Harder è un disco francamente mediocre, che si segnala solo per un paio di belle canzoni ma che, nell'insieme, delude non poco, abbassando le quotazioni del marchio Waterboys e rischiando seriamente di diventarne l'estremo epitaffio, dal momento che Mike Scott decide di accantonare la sigla per proseguire da solista.

Scott riparte da solo

Waterboys - Mike ScottAbbandonate le tentazioni americane, il musicista scozzese ritorna alle origini, firmando un nuovo contratto con la Chrysalis (casa madre della Ensign Records) che, nel 1994, pubblica The Secret Life Of The Waterboys 81-85 (raccolta di demo, inediti e brani live risalenti al primo periodo della band) e, subito dopo, nel 1995, Bring 'em All In, il primo album a nome Mike Scott e il primo da lui inciso nella natìa Scozia (presso la Findhorne Foundation, una sorta di comunità spirituale ed ecologica nella quale il musicista decide di soggiornare stabilmente per un po' di tempo).
Le canzoni della nuova raccolta sono scarne ed essenziali, “cantautorali” oseremmo dire, nel solco della tradizione del Bob Dylan più folk, in ogni caso abbastanza equidistanti sia dalla “Big Music” dei primi tre album dei Waterboys, sia dal “Raggle Taggle Sound” dei successivi due e sia dall'anonimo rock di “Dream Harder”. I brani sono prevalentemente acustici, quasi sempre dal tono intimo, e spesso eseguiti con chitarra, voce e poco altro dal solo Scott, definendo i contorni di un'opera sincera e sofferta, probabilmente figlia di un periodo difficile vissuto dal musicista (che proprio nel 1995 divorzia dalla moglie Irene Keogh), ma forse un po' troppo monocorde e dimessa.
Francamente difficile distinguere un pezzo dall'altro e altrettanto complesso segnalare quelli più significativi di una raccolta dal livello piuttosto uniforme e senza grandissimi guizzi. L'album si apre con i ritmi sincopati della title track, per continuare con le atmosfere tetre e inquietanti di “Iona” (dedicata a una piccola isola delle Ebridi, sede di una famosa abbazia fondata nel sesto secolo da San Colombano), alle quali seguono i drammatici crescendo della graffiante “Edinburgh Castle”. Atmosfere pacatamente folk, ma un testo degno del più banale “Christian Rock”, per l'accorata preghiera di “What Do You Want Me To Do?”, mentre “I Know She's In The Building” è una ballata elettrica che non decolla praticamente mai ma che si segnala per la curiosità di un'ennesima citazione del dio Pan.
Ironica e movimentata è la simpatica dedica a Dublino di “City Full Of Ghosts”, probabilmente uno dei pezzi più riusciti della raccolta, mentre il resto del disco scorre via, nell'insieme piacevolmente, ma senza lasciare particolari tracce, fatta eccezione per la gradevole ballata “Long Way To The Light”, sorta di confessione autobiografica del lungo viaggio di formazione che ha portato Mike Scott a sciogliere la sua band, a tornare nella natìa Scozia dopo lungo peregrinare e a vedere finalmente la luce di un nuovo futuro. L'album si chiude con il brano più elettrico e movimentato della raccolta, intitolato “Building The City Of Light” che, pur non strappando applausi, riesce perlomeno a far battere il piedino per qualche minuto.
Bring' em All In si dimostra dunque un lavoro dignitoso, che prende lodevolmente le distanze dalla prosopopea che aveva appesantito il pretenzioso Dream Harder, ma che non riesce ad andare oltre un'aurea mediocritas, troppo piatto e monocorde per imprimersi nella memoria, troppo pensoso e appesantito da temi spirituali (probabilmente derivati dal soggiorno di Scott presso la Findhorn Foundation): in parole povere, troppo... poco Waterboys!

Imprevedibile come sempre, Mike Scott ben presto matura un nuovo mutamento di rotta musicale e con l'aiuto di un gruppo di esperti sessionmen (tra i quali il batterista americano Jim Keltner, il bassista gallese Pino Palladino, il corista inglese Ian McNabb) e l'ausilio in studio del produttore Niko Bolas (che già aveva collaborato con il musicista scozzese nel suo esordio solista), incide a Londra una nuova raccolta a suo nome che, come s'intuisce dall'emblematico titolo Still Burning, palesa la ferrea intenzione dell'autore di lasciarsi alle spalle l'intimismo sofferto del lavoro precedente per dimostrare che il fuoco che ardeva nei solchi dei dischi dei Waterboys non è spento e nemmeno sopito.
L'album, pubblicato nel 1997 dalla Chrysalis, si apre con la convincente “Questions”, movimentata da una bella sezione fiati che le conferisce un feeling quasi soul, mentre la successiva “My Dark Side” è un brano più elettrico e graffiante. Dopo l'intermezzo (invero un po' stucchevole) della lenta ballata “Open”, si giunge al capolavoro dell'album, il pop orchestrale, arricchito da un'ariosa sezione archi, della beatlesiana “Love You Anyway” che sembra riallacciarsi direttamente al filone britpop che proprio verso la metà degli anni 90 è al culmine della sua parabola.
Ancora fiati in evidenza per la gradevole ma forse un po' anonima “Rare, Precious And Gone”, mentre le atmosfere si fanno elettriche e crepitanti per “Dark Man Of My Dreams”, pezzo contraddistinto (e forse appesantito) da lunghi assolo di chitarra, così come accade per la scatenata “King Electric”, due brani che, assieme alla vivace title track e allo scoppiettante rock alla Tom Petty di “Man On The Mountain” (con tanto di “Oh, yeah” e di “La-la-la” nei coretti), segnano una netta discontinuità rispetto alle sonorità pensose e acustiche di Bring 'em All In.
Di nuovo chiare influenze beatlesiane per la splendida “Strawberry Man”, uno dei pezzi più significativi della raccolta, così come convincente risulta la commovente ballad “Everlasting Arms” e il ponte gettato tra Gran Bretagna e Stati Uniti della toccante ed epica “One Of Many Rescuers”.
Nell'insieme, Still Burning è un buon disco, che strizza l'occhio al britpop e talvolta indulge in tentazioni rock Fm di marca più prettamente americana, prevedibilmente lontano dai capolavori anni 80 dei Waterboys, ma senz'altro il migliore dei tre lavori licenziati dopo Room To Roam, assolutamente degno di un ascolto privo di preconcetti e, magari, di un'adeguata, sebbene tardiva, rivalutazione, dal momento che alla sua uscita passa sostanzialmente inosservato.

Still Burning, infatti, lascia freddi (se non addirittura indifferenti) i vecchi fan dei Waterboys e non ne guadagna di nuovi alla causa. Se ne accorge anche Mike Scott e così, mentre nel 1998 la Chrysalis pubblica una nuova antologia, questa volta dedicata al mercato americano e intitolata The Whole Of The Moon, il musicista scozzese decide, non è dato sapere se a malincuore o con un sospiro di sollievo, di porre fine alla parentesi solista e di resuscitare il glorioso marchio Waterboys.

Ritorno in famiglia

La storica ditta scozzese riapre così i battenti dopo sette anni, celebrando il nuovo millennio con A Rock In The Weary Land (2000). Ma nella nuova line-up, in realtà, di quella storica esperienza non v’è quasi traccia, salvo la partecipazione amichevole di Thistlethwaite, e l’unico vero reduce è lo stesso Scott, il quale giustifica la riproposizione della ragione sociale per via di un sound più “corale” e multiforme rispetto ai suoi lavori solisti. E in effetti tracce come “My Love Is My Rock In The Weary Land” (un epico tour de force di 8 minuti, con improbabile coda gospel) e la torbida e struggente “Is She Conscious” rispolverano parte dell’armamentario della band, attingendo soprattutto alla sua fase iniziale più marcatamente rock e alla lezione dei Beatles più lennoniani. Non a caso la critica userà per il disco proprio la definizione di “sonic rock”.
L’apporto di Thighpaulsandra, manipolatore di suoni già al servizio di Julian Cope, contribuisce a forgiare un sound denso e avvolgente, fin troppo sovraccarico nell’elettricità distorta dell’iniziale "Let It Happen", ma capace anche di ripiegare su morbide ballate trasognate, come "The Wind In The Wires" o di indulgere in più prevedibili episodi elettro-acustici (“It's All Gone”, “Malediction”). La voce di Scott resta sempre inconfondibile, un marchio di qualità, ma l’impressione è che il bardo scozzese si sia lasciato prendere la mano dall’ambizione e dall’egocentrismo, nel tentativo di rifondare l’esperienza Waterboys su una nuova, pomposa architettura rock, di cui la tiratissima e pretenziosa “Crown” (oltre sette minuti tra chitarre ruggenti e sax fuori rotta) è, nel bene e nel male, l’espressione più fedele.

Il disco non sfonda, ma ridesta quantomeno l’attenzione attorno al fenomeno Waterboys, e Scott ne approfitta per pubblicare poco tempo dopo Too Close To Heaven (2001), una preziosa raccolta di outtake di Fisherman's Blues (negli Stati Uniti, come ricordato, uscirà proprio con il titolo "Fisherman's Blues, Part 2"). Dieci brani, rimasti fuori dalla scaletta finale e che lasciano presagire come quell’album-capolavoro potesse tranquillamente uscire anche in versione “doppio”. Perché nella galoppata forsennata del traditional "On My Way To Heaven" (con la tromba di Roddy Lorimer sugli scudi), nella non meno vibrante "Lonesome Old Wind" (con Jim Keltner al drumming e John Patitucci al basso), nella morrisoniana e torrenziale title track (oltre 12 minuti di pathos al calor bianco, tra il canto infervorato di Scott, gli inserti di sax e fiddle e una sezione ritmica implacabile), nella tensione inesplosa della palpitante "The Ladder" (con il canto a ergersi maestoso tra piano elettrico, fiddle) e in quella che deflagra infine in "Custer's Blues" (con Wickham al fuzz mandolin), si intravedono le stimmate del più puro Waterboys-sound, ancora sospeso tra le geniali asprezze dell’esordio e la maturità folk-rock di Fisherman's Blues.
E anche quando ripiegano in innocue scampagnate country ("Good Man Gone") o si abbeverano alle rassicuranti fonti del folk celtico (“A Home In The Meadow”), i Waterboys confermano come in quel periodo avessero raggiunto davvero un affiatamento straordinario e forse mai più eguagliabile.

Quel teatro nel bosco

Waterboys - Mike Scott - Steve WickhamMa il riaffiorare di quelle memorabili session in quel di Windmill Lane (Dublino, 1986) rende ancor più problematico il ritorno alla realtà degli anni Zero. Scott quantomeno riesce a riappacificarsi con il violinista Steve Wickham, che ingaggia per un nuovo disco di inediti a nome Waterboys. Neanche Universal Hall (2003), però, riesce a invertire la china di un declino che pare ormai irreversibile. L’intero lavoro è pervaso da uno spirito magico, nel solco di quel neopaganesimo di cui Scott è alfiere da tempo, ed è dedicato alla speciale location in cui è stato inciso: il sotterraneo Universal Hall, un teatro pentagonale immerso nei boschi di Findhorn (Scozia) e reso caratteristico dalle grandi vetrate decorate e dalla massiccia struttura in legno.
Il fascino del luogo riporta Scott e compagni sul sentiero naturale del folk. E anche gli arrangiamenti sono ora più scarni e calibrati rispetto agli eccessi di A Rock In The Weary Land. Seduto da solo al piano in "I've Lived Here Before", intercalando i rintocchi con soffici arpeggi di chitarra (“Every Breath Is Yours”) o in attesa di un’esplosione che non arriva mai (la cantilena ossessiva di "Always Dancing, Never Getting Tired"), il menestrello di Edimburgo resta sospeso in un limbo in cui la carica magica della sua musica riemerge solo a sprazzi. E quando tenta di rinnovare gli esperimenti elettrici dei dischi precedenti, scade in un’epicità di seconda mano (“Silent Fellowship”, “E.B.O.L.”) o addirittura nel kitsch (la tumultuosa – e orrida - “Seek The Light”).
Ma il punto di forza del disco è nella ritrovata sintonia con Wickman, che si sublima in paesaggi sonori agresti d’indubbia suggestione: la liturgica "Peace Of Iona", impreziosita dai ricami country del fiddle, la ballata “The Christ In You”, dove davvero il dialogo violino-voce riaccende l’antico incanto, il breve traditional irlandese “The Dance At The Crossroads”. E se un tono predicatorio mina l’inno di "This Light Is For The World", la title track riesce a mitigare la verbosità di Scott con raffinati interventi strumentali che riecheggiano le atmosfere di Fisherman's Blues.
Nel complesso, un disco che non riporta certo i Waterboys ai fasti del passato, ma che li riconsegna a un dignitoso folk-rock d’autore, suggellando la ricostituzione dell’asse portante della band (Scott- Wickham) anche nei concerti dal vivo, fotografati nell’album Karma To Burn (2005).

Poi però, attaccando Book Of Lightning (2007), si resta nuovamente spiazzati. Perché quel diavolo di Scott se n’esce con nuove, improvvide riesumazioni rock, sotto forma di un simil-boogie in odor di glam che non sembra proprio nelle sue corde (“Love Will Shoot You Down”), o con sguaiate ballate elettriche senza capo né coda (“Nobody's Baby Anymore”).
Il bardo scozzese non sembra proprio in grado di riannodare il filo del suo songwriting, mentre annaspa tra seduzioni beatlesiane aggiornate all’evo britpop (“Crash Of Angel Wings”, “It’s Gonna Rain”) e palesi ammiccamenti a Van Morrison (la confessione melodrammatica di “Sustain”).
Quando aggiusta il tiro, rifugiandosi in un folk-rock venato d’Irlanda (“Strange Arrangement”), punteggiato dal piano e dal violino (“You In The Sky”, “The Man With The Wind At His Heels”) o appena irrobustito da iniezioni elettriche (“She Tried To Hold Me”), Scott ritrova se non altro la classicità del suo stile, riuscendo a uscire in qualche modo dalle secche. Ma nel complesso l’impressione è che la fiammella riaccesa dal precedente Universal Hall si sia nuovamente spenta.

Appuntamento con Yeats

Waterboys - An Appointment With Mr. YeatsForse consapevole di essere finito in un cul de sac, Scott si concede una pausa di quattro anni. E il ritorno sulle scene è colmo di rinnovate ambizioni: addirittura un concept-album, An Appointment With Mr. Yeats (2011), in cui i Waterboys mettono in musica le poesie di William Butler Yeats.
Il vate irlandese ha da sempre avuto un forte ascendente sul mondo del folk, irlandese e non, basti pensare ai riferimenti alla sua poesia presenti nel repertorio di artisti come Van Morrison, Donovan, Loreena McKennitt, Smiths, U2, nonché il nostro Angelo Branduardi, che gli dedicò un album intero (“Branduardi canta Yeats”). Gli stessi Waterboys, come si è visto, realizzarono una formidabile versione di “The Stolen Child” su Fisherman's Blues e musicarono anche “Love And Death” (su Dream Harder).
Per Scott, irlandese d’adozione, la poesia di Yeats rappresenta dunque un faro costante. Così dopo un concerto-evento all’inizio degli anni Novanta, in cui ebbe l’occasione di mettere in musica quattro delle sue poesie, nel 2010 arriva il suggello definitivo: cinque serate (dal 15 al 20 marzo) all’Abbey Theatre di Dublino, il teatro fondato proprio da Yeats, dedicate interamente alla trasposizione musicale dell’opera del nume irlandese.
Il grande successo ottenuto incoraggia Scott a tradurre su disco quell’esperienza (anche se nella scaletta finale finiranno solo 14 delle 20 canzoni del concerto). Ne scaturisce un lavoro complesso, tanto affascinante, a tratti, quanto discontinuo nel complesso, in cui i Waterboys rincorrono la vena folk perduta, aggiornandola con suoni moderni, dal tocco vagamente bluesy e psichedelico, grazie anche a un organico allargato, in cui brillano la cantante Katie Kim e la factotum Kate St. John.
An Appointment With Mr. Yeats non perde però un vizio ricorrente nella produzione di Scott: la sovrabbondanza di suoni e di idee; ascoltare per credere l’iniziale “The Hosting Of The Shee”, che affoga in un turbine di chitarre, fiati e tastiere, smarrendo intensità anche per via di una sezione ritmica un po’ troppo meccanica e asettica. Meglio, semmai, la giga inquieta di “Mad As The Mist And Snow”, dove il crescendo strumentale, con tanto di solo lancinante di violino, è funzionale al climax emotivo del brano, o la ballata di “Song Of Wandering Aengus” (già saccheggiata da Donovan e Branduardi), dove il tripudio di tasti (doppia tastiera, piano elettrico e organo) riesce a creare un morbido tappeto sonoro su cui ricama poi finemente il flauto “pastorale” di Sarah Allen.
Ma l’impressione è che, ancora una volta, Scott sia più a suo agio quando duetta con il violino di Wickham in partiture più composte e sobrie, come nel midtempo di “Sweet Dancer” (con l’irlandese Katie Kim a dar man forte al canto) o nella struggente “News For The Delphic Oracle”, dalle nuove fragranze celtiche e dall’imprevedibile coda neo-cabaret. Oppure quando si immerge in scenari fiabeschi, rispolverando un melltron molto progressive, nella conclusiva “The Faery's Last Song”.
Gli episodi più rock (la lennoniana “A Full Moon March”, il lungo tour de force di “September 1913”, tra fraseggi di piano e scintille di chitarra elettrica) restano invece un po’ irrisolti, a metà tra il furore di This Is The Sea e il torpore maturo degli ultimi esperimenti, e neanche la confezione blues di “The Lake Isle Of Innisfree” (uno dei poemi più celebri di Yeats) riesce a riscaldare i cuori.
Non mancano qua e là intuizioni suggestive (l’intervento del corno inglese di Kate St. John in “An Irish Airman Foresees His Death”, il suadente duetto vocale con la Kim in “Politics”, gli echi morrisoniani della intensa “Let The Earth Bear Witness”), ma nel complesso Scott non riesce a sfruttare appieno l’occasione. Se non altro, comunque, An Appointment With Mr. Yeats riporta i Waterboys in una dimensione a loro molto più consona, che non sarà quella magica dei tempi migliori, ma che li assesta in un dignitoso manierismo maturo.

Raschiando un po’ il fondo del barile, Scott torna poi a saccheggiare i suoi archivi con In A Special Place (2011), una collezione di 15 demo tratti dalle session di This Is The Sea. Si tratta in gran parte di versioni scarne, con Scott al piano, accompagnato occasionalmente da una drum machine. Un’opera solo per collezionisti, corredata da un booklet contenente appunti dell’autore sulle canzoni, incluse scansioni dei testi dal suo notebook.

Tempi moderni

A gennaio 2015 arriva un nuovo cambio di registro con Modern Blues, un disco straordinariamente ispirato, che trova ragione d’esistere sin dai cinque minuti della cavalcata elettrica “Destinies Entwined”, un vero e proprio instant classic. Chi si aspettava un rigurgito folkye da Modern Blues sarà disatteso: chitarroni elettrici e tastiere vintage si appropriano della scena, con tanto di soli seventies style (molto Crazy Horse) e impennate ad altissimo contenuto epico. Basterebbero le prime tre tracce per definire Modern Blues un album assolutamente riuscito, con una “November Tale” (il primo singolo estratto) capace di sedurre in maniera intrigante e l’irresistibile passo r’n’r di “Still A Freak”. Ma c’è anche molto altro, ulteriori sei tracce che si mantengono su binari qualitativamente importanti, realizzati con Bob Clearmountain in cabina di regia e l’ausilio di alcuni musicisti dell’area di Nashville, dove il disco è stato registrato.
Ci si muove fra composizioni più vigorose (“Rosalind”, la lunga cavalcata finale “Long Strange Golden Road”) e momenti carezzevoli (“The Girl Who Slept For Scotland”, “Nearest Thing To Hip”), fra cadenze modern blues (“I Can See Elvis” giustifica il titolo dell’album) e meravigliose puntate alt-pop dove a rionfare è l’orecchiabilità (“Beautiful Now”). Modern Blues è classic rock, idealmente a cavallo fra Springsteen ed il Dylan elettrico, ma suonato in maniera assolutamente contemporanea. Proprio nel momento in cui band come i War On Drugs replicano (attualizzandole) certe atmosfere psych-alt-folk, i Waterboys invece che cavalcare l’onda, proclamandone la paternità, spostano il pallino altrove giocando a fare i Rolling Stones. Modern Blues è il disco che non ti aspetti, sfornato da una band in grande salute, distante anni luce da qualsiasi ipotesi di prepensionamento.


Due anni più tardi, il ritorno sotto l’egida di una major (la BMG) è sancito dalla passione di Mike Scott per l’hip hop. Con queste premesse viene pubblicato Out Of All This Blue, anche se in verità le intrusioni di loop e drum machine rimandano più alla soul-music di Isaac Hayes e Curtis Mayfield, il che spiega il motivo della presenza di Trey Pollard (Matthew E White, Natalie Prass) dietro il banco di produzione in alcune tracce. Nel trascinante disco-soul di “Didn’t We Walk On Water” l’autore mette al servizio di sonorità in bilico tra philly-sound e Barry White una delle sue migliori intuizioni pop, allo stesso modo la sontuosa orchestrazione di “Love Walks In” restituisce tutta l’epica che sembrava smarrita, grazie a un elegantissimo celtic-soul, poi ripreso con il titolo “So In Love With You”. Anche le solari e ispirate “Do We Choose Who We Love” e “Santa Fe” hanno la stessa verve del passato, è solo la veste sonora ad essere cambiata, e se in “If The Answer Was Yeah” e “The Connemara Fox” il mix funky-blues-rock evoca pericolosamente gli Inxs, Mike Scott sembra intenzionato a rischiare tutta la credibilità passata.
Non sono le contaminazioni il gap di Out Of All This Blue, anzi sono proprio le canzoni infettate da loop e drum machine quelle che lasciano il segno, vedi il minimal funk di “If I Was Your Boyfriend” e “New York I Love You” (le due tracce più difficili da digerire per i vecchi fan), le vere sorprese: dietro il loro minimalismo lirico e ritmico si nasconde l’essenza del rock’n’roll, il refrain non è molto diverso da “Sweet Jane” dei Velvet Underground, o “Walk On The Wild Side” di Lou Reed, o di alcuni brani di StonesClash. “The Girl In The Window Chair” e “Kinky’s History Lesson” ritornano elegantemente nei dintorni folk, era Roam To Room, mentre “Monument”, “Nashville Tennessee” e “Mister Charisma” pur evocando le atmosfere di Modern Blues restano al palo, sottolineando il vero difetto di Out Of All This Blue, ovvero l'eccessiva mole. A dispetto di una ritrovata qualità della scrittura, resta un album difficile: mentre canzoni come “Man, What A Woman”,“Rokudenashiko” e il trip-hop di “The Elegant Companion” preservano un proprio fascino, alcune tracce risultano inutili e irritanti (“The Hammerhead Bar”, “Hiphopstrumental 4”, “Yamaben”). Con una scelta più diligente e un po’ di coraggio in più, poteva trasformarsi in una delle pagine più elettrizzanti della discografia dei Waterboys, ma dietro le scelte stilistiche di Out Of All This Blue, si scorge un futuro interessante.

Le premesse vengono mantenute in toto quando, a maggio 2019, la band conferma l'ottimo stato di salute dando alle stampe Where The Action Is. Lontani da qualsiasi forma di precoce invecchiamento, Mike Scott e compagni continuano a stupire tutti coloro che tuttora li associano al folk in grana scozzese che li rese immortali negli anni 80. Oggi quelle atmosfere tornano soltanto a sprazzi, sempre opportunamente trasmutate, giusto fra le pieghe di “Then She Made The Lasses-O”, brano ispirata da un poema del 1700 di Robert Burns. Scott ha da tempo voltato pagina, e punta tutte le azioni della propria creatura su eclettismo e vitalità, a partire dalla zampata rollingstoniana di “Where The Action Is” e dall’espressa dedica ai Clash inviata attraverso i versi dell’energetica “London Mick". Da lì si sviluppa un album rock di stampo “classic”, nel quale la band cambia spesso registro, ammaliando con i giri sensuali e persino confidenziali di “Out Of All This Blue” e “In My Time On Earth”.
Ma non è finita: dopo l’esperimento di due anni prima, i Waterboys confermano di volersi dilettare anche con l’elegante elettronica (dal gusto sempre retro) di “Right Side Of Heartbreak” e con il brillante iper pop di “Take Me There I Will Follow You”, che strizza l’occhiolino alla modernità, puntando dritta verso territori rap. Il disco si chiude con la lunga e struggente ballad declamata “Piper At The Gates Of Dawn”, che non vuole essere un omaggio ai Pink Floyd, bensì un reading di parte del testo di “The Wind Is The Willows”, classicone della letteratura per ragazzi degli inizi del Novecento, opera dello scrittore scozzese Kenneth Grahame. Se tutto ciò non dovesse bastare, la deluxe edition di “Where The Action Is” contiene un secondo dischetto con undici versioni alternative di questi brani.

La saga di Mike Scott e dei suoi Waterboys, insomma, sembra destinata a durare ancora a lungo. Nonostante alti e bassi, cadute e risalite, la band conferma con i dischi più recenti un talento indomito e prolifico, che trova spesso nella mancanza di misura il suo limite, ma che continua a dispensare album di grande interesse e tutt'altro che spenti.


Contributi di Claudio Lancia ("Modern Blues", "Where The Action Is"), Gianfranco Marmoro ("Out Of All This Blue")

Waterboys

Discografia

WATERBOYS

The Waterboys (Ensign/Chrysalis, 1983)

6,5

A Pagan Place (Chrysalis, 1984)

7,5

This Is The Sea (Chrysalis, 1985)

9

Fisherman's Blues (Ensign/Chrysalis, 1988)

8

Room To Roam (Ensign/Chrysalis, 1990)

7

The Best of the Waterboys: 1981-1990 (antologia, Ensign, 1991)
Dream Harder (Geffen, 1993)

5

The Secret Life of the Waterboys 81-85 (antologia, Emi, 1994)
The Whole of the Moon: The Music of the Waterboys & Mike Scott (antologia, Chrysalis, 1998)
A Rock In The Weary Land (Bmg, 2000)

4,5

Too Close To Heaven (demo e outtake, Bmg, 2001)

7

Universal Hall (Puck, 2003)

6

The Essential (antologia, Emi, 2003)
Karma To Burn (live, Msi Music Distribution, 2005)

Book Of Lightning (Umvd, 2007)

5

An Appointment With Mr. Yeats (Proper Records, 2011)

6,5

In A Special Place (demo e outtake, Capitol, 2011)

Modern Blues (Kobalt, 2015)

7

Out Of All This Blue (Bmg, 2017)6,5
Where The Action Is (Cooking Vinyl, 2019)6,5
MIKE SCOTT

Bring 'Em All In (Chrysalis, 1995)

5,5

Still Burning (Minty Fresh/Steading, 1997)

6,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

A Girl Called Johnny
(videoclip, da The Waterboys, 1983)

The Big Music
(videoclip, da A Pagan Place, 1984)

 

Red Army Blues
(live all'Haldern Festival, Germania, 2007 da A Pagan Place, 1984)

The Whole Of The Moon
(videoclip, da This Is The Sea, 1985)

The Pan Within
(live a Haldern, Germania, 2007, a This Is The Sea, 1985)

Fisherman's Blues
(live at The Tube, da Fisherman's Blues, 1988)

 

How Long Will I Love You?
(live all'Aberdeen's Music Hall, 2012, da Room To Roam, 1990)

 

Glastonbury Song
(live alla Brixton Academy, Londra, 2001, da Dream Harder, 1993)

Let It Happen
(live, da Rock In The Weary Land, 2000)

Every Breath Is Yours
(live, da Universal Hall, 2003)

Documentario sull'album "Book Of Lightning"
(videoclip on the road con la band che presenta il disco, 2007)

Mad As Mist And Snow
(live, da An Appointment With Mr. Yeats, 2011)

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