War On Drugs

War On Drugs

Viaggi e sogni della nuova Americana

Nata nel 2003 da un’idea di Adam Granduciel e Kurt Vile, la band di Philadelphia ha fatto centro al primo colpo con “Wagonwheel Blues”. Nonostante la dipartita di Vile, protagonista di una brillante carriera solista, la band ha proseguito un percorso reso virtuoso da due lavori cardine della nuova Americana: “Slave Ambient” e “Lost In The Dream”

di Claudio Lancia

La leggenda narra che Adam Granduciel e Kurt Vile nel 2003 si conobbero a una festa, e dopo svariati drink scoprirono di avere gusti musicali in comune, a partire dal Bob Dylan di “Highway 61 Revisited”. Siamo a Philadelphia, Pennsylvania, e di lì a poco i due iniziarono a lavorare assieme su composizioni che univano la visione poetica del menestrello di Duluth con gli attacchi chitarristici presi a prestito dal miglior alt-rock americano.
Inizialmente Granduciel entrò nella band di Vile, i Violators, ma nel 2005 i due vararono il progetto War On Drugs, un nome mutuato dalle campagne proibizionistiche repubblicane, assestandosi su una formazione che, oltre a loro due (che si occupavano di voci e chitarre), comprendeva Dave Hartley al basso, Kyle Lloyd alla batteria, Charlie Hall alla batteria e all’organo, quest’ultimo con trascorsi nei Windsor For The Derby.

I primi passi furono spesi nell’indecisione fra suonare per puro divertimento oppure abbandonare i rispettivi lavori per dedicarsi full time alla passione musicale. Nel frattempo i ragazzi divennnero una presenza fissa nella zona di residenza, con qualche puntatina newyorkese perfetta per far girare il nome.
Nel 2007 rilasciano Barrel Of Batteries, un Ep autoprodotto con cinque demo, fra i quali spiccano “Arms Like Boulders” (già programmatica del loro suono, un alt-folk che tritura assieme Dylan, i Waterboys e chitarroni quasi shoegaze), “Buenos Aires Beach” (entrambe riprese l’anno successivo nel primo album ufficiale) e ”Pushing Corn”, quasi un outtake di “Forever Changes”. Completano il lotto i brevi intermezzi sperimentali “Set Yr. Sights”, “Toxic City # 26” e “Sweet Thing Reprise”. Registrato su un otto tracce digitale e distribuito in free downloading, Barrel Of Batteries non tarda a ricevere recensioni positive, mentre la fama di buona live band contribuisce a incuriosire la Secretly Canadian, l’etichetta che mette il quintetto sotto contratto e pubblica il loro primo album.

A giugno del 2008 esce Wagonwheel Blues, che subito riceve egregi riscontri sulla stampa specializzata di tutto il mondo. E’ un disco basato sin dal titolo sul tema del viaggio, in grado di richiamare persino nei suoni e nell’andatura di alcune canzoni i vagoni di un treno che si muove coast-to-coast a cavallo tra gli anni della Grande Depressione e i fermenti della Summer of Love. Una bella immagine, in netto contrasto con il frenetico mondo contemporaneo, nel quale le distanze tendono ad annullarsi. Dentro Wagonwheel Blues si respira tangibile l’odore di asfalto e strade bruciate dal sole, grazie a nove tracce in costante equilibrio tra presente e passato, tutte piacevoli e affascinanti, nelle quali vengono narrate avventure di persone comuni. Musicalmente parlando, l’album rappresenta una fusione fra la tradizione cantautorale di scuola Dylan/Springsteen/ Petty e gli sperimentalismi avant-alt-country dei Wilco epoca Jim O’Rourke (quelli di “Yankee Hotel Foxtrot” e “A Ghost Is Born”, tanto per intenderci), con le chitarre dissonanti dei Sonic Youth a fare da contrappunto, chitarre apertamente richiamate ad esempio nella coda strumentale di “There Is No Urgency”. L’iniziale "Arms Like Boulders", presente in una diversa versione nell’Ep dell’anno precedente, è una cavalcata folk-rock che già da sola miscela moltitudini di influenze, ma i ragazzi non restano impantanati nella pioggia dei riferimenti: riescono a scrollarsi di dosso l'immagine di meri "ripropositori" attualizzando i suoni del passato, filtrando il tutto secondo una propria personale prospettiva (come avviene nella sferragliante "Taking The Farm"), senza disdegnare il ricorso all'elettronica.
La locomotiva prosegue il proprio cammino shakerando un mix nel quale il folk d'oltreoceano costituisce la radice, il punto di partenza, mentre l’obiettivo linearmente raggiunto è una sorta di stil novo alt-folk, aggiornato nello stile musicale sebbene legato al passato dagli stessi romantici temi. E' così che uno strumentale come "Coast Reprise" trova il suo perché nello sferragliare del plettro sulle corde dell'acustica, quasi a ricordarci il suono continuo e ritmato di un treno. La veste si arricchisce anche di aromi acidamente country nella dilatata "Show Me The Coast", e di venature vagamente vaudeville in "Buenos Aires Beach", dove l'epica pioneristica incontra gli Arcade Fire, che ritornano anche nella springsteeniana "A Needle In Your Eye #16", arricchita da un organo in grande spolvero. In questo vivace trip non esistono passaggi a livello, nessuna pausa, come a voler favorire un rapido incontro fra nature stilistiche apparentemente contrapposte. Wagonwheel Blues si impone pertanto come disco dal sapore classico, ma sul quale vengono innestati suoni e rumori moderni. Tuttavia, pur costituendo un’interessante sintesi, l’album può risultare a tratti caotico, come se la band non fosse ancora riuscita a trovare gli equilibri migliori per veicolare in maniera fluida tutte le idee e le soluzioni sonore che ha in testa. Ma la formula perfetta arriverà molto presto.

Dopo pochi mesi, a seguito del tour promozionale europeo a supporto di Wagonwheel Blues, Kurt Vile decide di abbandonare il gruppo per perseguire il proprio progetto solista, che lo porterà rapidamente a diventare una stella di prima grandezza del nuovo cantautorato americano, grazie soprattutto al riuscito "Smoke Ring For My Halo " (2011) e al successivo "Walkin On A Pretty Daze" (2013), raggiungendo un livello di visibilità ancor superiore grazie al lavoro realizzato in coppia con Courtney Barnett "Lotta Sea Lice" (2017).
Ma Vile non sarà il solo a mollare, anche Hall e Lloyd abbandonano la partita, con Granduciel (divenuto così guida assoluta, sia vocale che autoriale) e Hartley (che assume la gestione delle chitarre) che reclutano il batterista Mike Zanghi per registrare nel 2010 l’Ep Future Weather, una sorta di ponte verso l’album successivo, il quale mostra il work in progress di canzoni che verranno successivamente perfezionate o accantonate.
Di lì a poco Steven Urgo rimpiazzerà Mike Zanghi alla batteria, e il polistrumentista Robbie Bennett si unirà al gruppo. Con questa formazione i War On Drugs affrontano il completamento delle operazioni che condurranno al secondo fatidico album.

Nel 2011 il cantiere partorisce l’acclamato Slave Ambient, nel quale il suono dei War On Drugs risulta perfezionato e raffinato rispetto al capitolo precedente, consolidando il retroterra roots/americana in un crogiuolo di psichedelia, Paisley sound, shoegaze e alt-rock dalle chiare ascendenze velvettiane. Ciò che più impressiona è la forza propulsiva ed evocativa del wall of sound ricavato dall'interplay fra il fitto jingle-jangle delle chitarre (il buon Vile fa un informale ritorno in alcuni brani) e il pulviscolo onirico e atmosferico emanato da synth e tastiere. Ma le qualità della formazione americana non si esauriscono nelle scelte sonore o nella perizia produttiva: sono le melodie agre, impastate, stazzonate, eppure stagliate e incisive, la carta vincente di questo secondo lavoro. L'influenza della "vulgata" country-rock dylaniana si avverte ancora distintamente (soprattutto nel cantato di Granduciel, in quel modo nasale di strascicare le ultime sillabe alla fine di ogni verso) in brani quali "Brothers", nell'opener "Best Night", semi-acustica e rauca d'insonnia su scintillanti arazzi di chitarra, nella conclusiva "Black Water Falls" o nella bluesy (piano e chitarra, quasi The Band) "I Was There".
E’ però nei brani più ritmici e spigolosi che il gruppo cresce d'intensità e trova il giusto cambio di passo: la commistione di shoegaze e new wave nella bellissima "Your Love Is Calling My Name", lunga e dilatata fino al limite della jam, la tirata "Original Slave", la marziale e ascendente "Come To The City" che ricorda a tratti gli U2 di metà anni 80, la bruma sintetica ma dissipata da un'armonica springsteeniana in sottofondo di "Baby Missiles". Slave Ambient è folk-rock inacidito da tocchi psichedelici, espressione di una peculiare versione metropolitana, modernista e crepuscolare di quel tipico suono americano passato di mano in mano a tanti cantautori nel corso del tempo. La solita autostrada americana, ma illuminata dai lampioni sul far della sera. Slave Ambient è un disco delicato e nostalgico, ma al tempo stesso attuale nella sua grana onirica e perturbante, nel suo essere un ponte panoramico tracciato fra cantautorato sixties (rivisitato alla luce soffusa degli anni 80) e neo-psichedelia di sponda alternativa. Una bella prova di coerenza e maturità per un gruppo abituato a cambiare pelle (e componenti) e ad assorbire nuovi stimoli, che sembra aver trovato la propria dimensione ideale.

Tre anni più tardi, a marzo del 2014, esce Lost In The Dream, che consolida e amplia ancor di più la fama dei War On Drugs a livello mondiale. La sfida di evocare il “sogno”, perdendosi nei grandi spazi aperti della heartland americana, può ritenersi completamente vinta. L’album rappresenta un moderno instant-classic che si pone come atto d’amore nei confronti della grande musica americana. Già ascoltando “Red Eyes”, il singolo che anticipa l’album, si evince l’evoluzione della band, con la sezione ritmica più incisiva del solito, la maggiore convinzione nella voce di Granduciel, e quei synth spaziali che lo rendono uno dei loro brani più epici fino a quel momento. Pur essendo un chitarrista, Granduciel compone spesso al piano, e i risultati sono evidenti in ballad sopraffine quali “Suffering” (molto Fleetwood Mac, e il paragone vuole essere un complimento), in grado di ampliare lo spettro stilistico del gruppo. Ma il centro della scena è quasi sempre preso dai consueti arrangiamenti motorik, oramai il riconoscibilissimo marchio di fabbrica, sui quali si innesta il cantato dylaniano e i tappeti di chitarre. I migliori esempi di questo tipo di svolgimento sono le epiche cavalcate “Under The Pressure” e “An Ocean Between The Waves”. Ma dentro Lost In The Dream non mancano i consueti echi springsteeniani (“Burning”) e gli strumentali ambientali (“The Haunting Idle”).
Il suono complessivo risulta ampio, liquido, colmo di echi ed effetti space decisamente inusuali per un lavoro di matrice roots-rock. Coltri di tastiere space-ambient e di synth quasi new romantic avvolgono i ricercatissimi ricami tra piano e chitarra in un’atmosfera sovente ovattata, quasi senza tempo. Uno dei brani chiave è “Disappearing”, un puro distillato di romanticismo nel quale i suoni sembrano andare lentamente alla deriva, immersi in una consistenza liquida memore dei Popol Vuh, ma filtrati attraverso una sensibilità spiccatamente eighties, con la lunga coda strumentale tra le pieghe della quale si insinua un pianoforte che risveglia una miriade di sensazioni sepolte, una cassa quasi-balearica, il riff di un pianoforte nostalgico. La tavolozza sonora dei War On Drugs è ricca come mai prima d’ora, in una miscela di folk, americana, space-pop, ambient, soft-rock. Persino in brani più classici, come “Eyes To The Wind” (da notare come la canzone realizzi perfettamente in termini di atmosfere l’immagine suggerita dal titolo), è possibile intercettare quella palpitante urgenza che contraddistingue la band di Philadelphia.
Grazie a Lost In The Dream, uno dei migliori dischi pubblicati nel 2014, i War On Drugs vengono identificati unanimamente come uno dei gruppi più interessanti e innovativi della nuova nidiata americana.

Dopo un lungo ed esaltante tour, Adam Granduciel torna in pista nel 2017 con un nuovo lavoro, per la prima volta con il peso sulle spalle di un’attesa collettiva ben al di sopra delle proprie abitudini. A Deeper Understanding nasce con l’intento di proseguire la missione di riportare alla luce elementi rock del passato, che fino a qualche anno prima si credevano desueti, sintonizzandosi con il trend di ripescaggio di sonorità e tendenze propriamente eighties. E' un lavoro che non porta stravolgimenti, e che si tiene stretto il recente brillante passato di Granduciel e soci, cha ha assicurato la fiducia di pubblico e critica, con plausi trasversali. Nessuna mutazione, ma Adam "vaneggia" di meno: abbandona i flussi psichedelici e si affida a una formula rock più classica, meno votata alle derive space, pur mantenendo lunghe code strumentali. Prendono così quota momenti di assoluto coinvolgimento: “Strangest Thing” - ad esempio - vale da sola il prezzo del biglietto, con sei minuti e mezzo di profonda estasi, un battito d’ali che portaa con sé smarrimento e disincanto.
Stesso dicasi dell’altra perla, “Thinking Of A Place”, arricchita da vibranti assoli e dolci pause: un’elegia notturna con armonica e piano che illuminano dolcemente l’atmosfera. Non mancano i momenti nei quali Adam sembra viaggiare con il pilota automatico lungo le polverose strade della heartland americana, vedi la più immediata “Holding On” e la fin troppo diluita “In Chains”. Ma trattasi di episodi isolati, in fin dei conti apprezzabili al netto di una certa pignoleria critica. Tutto funziona egregiamente anche nell’episodio più breve: “Knocked Down”, ballad dal sapore bluesy con improvvisi squarci di chitarra e il piano in delicato appoggio. A Deeper Undestanding è un'opera che conserva e consolida tutte le caratteristiche del sound dei War On Drugs, confermando l’evidente fedeltà a certi stilemi classici del rock americano degli Anni Ottanta. Un’alchimia la cui ricetta non prevede ingredienti insoliti, bensì l’attenta mescolanza di elementi intramontabili, sorretti da una grande ispirazione melodica.

Mentre il Covid-19 blocca ovunque l'attività live, i War On Drugs assemblano il loro primo disco dal vivo, Live Drugs, pubblicato a novembre 2020, quasi a voler impacchettare per i propri appassionati l’atmosfera delle grandi arene, al momento impossibilitate per decreto a ospitare qualsiasi tipo di evento. Nella dimensione da palcoscenico la band di Philadelphia esalta ancor più le proprie composizioni, impreziosendole attraverso dilatazioni dall’ampio respiro e memorabili assoli di chitarra (o di sassofono, come avviene ad esempio in “Eyes To The Wind”) dal taglio inequivocabilmente classic. Il materiale incluso è stato registrato nell’arco di sei anni: non un concerto integrale quindi, bensì un collage di performance "da viaggio" che coprono quasi tutta la discografia della formazione di Adam Granduciel: da “Buenos Aires Beach”, ripescata dall’esordio “Wagonwheel Blues“, alle più recenti tracce del Grammy winningA Deeper Understanding”, passando per ben cinque estratti da “Lost In The Dream”, più una cover di Warron Zevon, “Accidentally Like A Martyr”.
Alcune fra le loro cavalcate elettriche più fragorose, “An Ocean Between The Waves”, “Pain”, “Red Eyes” e “Under The Pressure”, affiancate alle serene dolcezze di “Strangest Thing” e “Thinking Of A Place”, per un album dal grande equilibrio, nel quale il roots-rock (o come direbbero alcuni, heartland rock) si intreccia con l’alt-folk, sdoganadolo nel nuovo millennio, senza mai temere di mostrare una fortissima matrice Dylan. Un disco che piacerà molto ai fan e sorprenderà chi ancora non conosce a fondo i War On Drugs. Per questi ultimi Live Drugs potrebbe essere il miglior punto di partenza possibile per un inatteso colpo di fulmine.

Ma facciamo un passo indietro. Giusto un mese dopo essersi aggiudicati il Grammy Award nella categoria "Best Rock Album" per "A Deeper Understanding", i War On Drugs hanno velocemente messo a punto parecchio nuovo materiale. 
Sembrava l’inizio di un nuovo modus operandi nel processo compositivo della band, sempre impegnata ad arricchire in maniera eccessiva il proprio complicato puzzle sonoro. Ma i tre anni successivi sono poi trascorsi fra ripensamenti, ritocchi e infinite session che hanno interessato ben sette studi di registrazione. Un’odissea che ha sottratto a quelle canzoni tutto il pathos e quasi tutta l’energia del “buona la prima”, tanto da far percepire come depotenziate molte delle tracce incluse in I Don't Live Here Anymore, pubblicato il 29 ottobre del 2021. La ferma intenzione di riprodurre parte del canzoniere americano degli ultimi sessant’anni inizia a mostrare la corda: i dischi dei War On Drugs suonano sempre benissimo, il problema è che se vuoi rifarti ai cantori della strada, della fuga, del viaggio, sarebbe più eccitante puntare su un suono più “dusty”, polveroso. Invece Granduciel persiste sui timbri plasticosi e riverberati che fanno tanto anni Ottanta, e che alla lunga rischiano di diventare in qualche modo irritanti. Non solo: col passare del tempo, Adam ha scelto di ridurre la presenza di chitarre troppo rumorose, quelle chitarre che sapevano però creare interessanti stratificazioni ai limiti con lo shoegaze, ed ha pressoché azzerato le cavalcate elettriche.
Come conseguenza, I Don't Live Here Anymore assume l'aspetto di un nuovo lavoro di “musica da viaggio”, perfetta da ascoltare alla guida, sognando di sfrecciare coast-to-coast lungo le route americane. Spazi aperti e malinconia, con la poetica di Granduciel che insiste sui consueti temi del rimpianto, della perdita, del dolore, delle occasioni sprecate. Una sorta di auto annientamento che continua a produrre canzoni per gran parte prevedibili e indistinguibili, oltre che assolutamente già sentite. Se c’è un pezzo che cerca davvero di intraprendere una direzione diversa, è quello non a caso posto in apertura, “Living Proof”, il migliore del lotto, anche se si resta sempre su un discorso derivativo: in questo caso lo stratagemma è indossare il vestito buono dei Wilco. Sta di fatto che “Living Proof” venne registrata durante una delle sedute più proficue, nel maggio del 2019, con la band al gran completo. Uscì subito così bene che Granduciel per una volta rinunciò ad aggiungere i consueti overdub, lasciando che la versione definitiva restasse grosso modo simile alla prima fissata su nastro. Peccato che i War On Drugs quasi mai optino per la strada della semplicità.

Dopo aver tagliato il traguardo dei quindici anni d'attività, nello spazio di cinque album Adam Granduciel e la sua band sono riusciti nell'intento di disegnare un’estetica assolutamente personale, coerente e riconoscibile. Gli va senz'altro attribuito il merito di aver costruito un suono spazioso in grado di conferirgli una netta e precisa caratterizzazione, mettendo d'accordo gli amanti del rock più classico e gli appassionati dei Festival indipendenti. 


Contributi di Luigi Gaudio ("Wagonwheel Blues"), Simone Coacci (“Slave Ambient”), Gioele Sforza ("Lost In The Dream"), Giuliano Delli Paoli ("A Deeper Understanding")