Ecco uno dei "dischi dell'anno" a prescindere: la collaborazione tra Courtney Barnett e Kurt Vile, due nomi abbastanza importanti da far rizzare le antenne del pubblico indipendente, sperando almeno insieme di attraversare il "muro dimensionale", mano nella mano, sbancare Lollapalooza, illuminare l'anfiteatro delle Red Rocks a giorno, passare per i festival europei come un'orda barbara di capelloni e camicie di flanella.
"Lotta Sea Lice" è un disco incomprensibile, in questo senso: l'apporto della Barnett, a parte una spallata alla delivery smozzicata e da fattone di Vile, sembra quasi inesistente in fase di scrittura, dato che il disco ospita sostanzialmente il mumblecore chitarristico (compreso il singolo di lancio, da Fleetwood Mac fumati, di "Over Everything") che comincia ormai a generare sguardi di muta solidarietà tra gli ascoltatori, e che risulta esiziale in sede live. In questo senso, la speranza di una bella rinfrescata nello studio di Kurt, dove ormai l'aria si è fatta irrespirabile, è sostanzialmente mal riposta.
Gli unici brividi vengono forniti da duetti country d'altri tempi ("Blue Cheese"), tanto (in)volontariamente parodistici, macchiettistici da risultare alternativi; tanto grottescamente stoned da suonare esteticamente "giusti" ("Untogether"). Di sicuro, far cantare a Courtney un brano già pubblicato non vale come "grandiosa, sinergica collaborazione" ("Peepin Tom", che sia così o no importa poco); e neanche metterla per prima nell'ordine dei nomi, in copertina.
Per la maggior parte del disco, la sensazione è di ascoltare la registrazione di un pomeriggio in cui si è un po' esagerato con le droghe leggere e si è lasciato acceso il microfono mentre si strimpellava sul divano, canticchiando. L'abilità di Kurt Vile è sempre stata quella di "far credere" questo agli spettatori, ma qui l'impressione comincia ormai a sovrastare la sostanza.
Nella trasandatezza della scrittura, diventa quasi irritante il citazionismo evidente, il revivalismo sciatto del disco (il Neil Young scolastico di "Fear Is Like A Forest", il country-blues paludoso di "Outta The Woodwork") suona come la scoperta dell'acqua calda, o di un'opera legittimata dalla sua stessa, idiosincratica ma riconoscibile, interpretazione. Rimangono comunque un'eleganza dissipata, un know-how puramente "professionistico" che può rendere il disco degno d'interesse per chi ascolta ("On Script") - come se Barnett e Vile avessero inventato queste interpretazioni "sapute" nel campo dell'Americana. Se basta questo, allora è chiaro che c'è anche tanta voglia di accontentarsi.
17/10/2017