Wilco

A Ghost Is Born

2004 (Nonesuch)
folk-rock

L'ETERNO AUTUNNO DELLA MALINCONIA

di Cristian Degano

Che Jeff Tweedy fosse un cantautore di razza era cosa risaputa già da tempo, sin da quando si propose come leader degli Uncle Tupelo, gruppo di enorme importanza per il rock indipendente degli anni Novanta, anche se dalla vita molto breve. Smessi quei panni, eccolo di nuovo in pista con il progetto musicale che lo vede tutt'ora di scena: gli Wilco. "A Ghost Is Born", l'ultimo nato della genie, è il quinto capitolo di un percorso diacronicamente breve (solo 9 anni), ma enormemente lungo sotto il profilo artistico, che si è messo in evidenza per l'estrema capacità di Tweedy di fondere con stupefacente personalità le più diverse tradizioni musicali: pop, country (alt-country era l'etichetta, troppo ristretta, con cui veniva indicata la sua musica), elettronica glitch, classic rock. Il tutto perfettamente riassunto nel capolavoro del 2002: "Yankee Hotel Foxtrot", un'opera che del caos ordinato, della destrutturazione contenuta comunque all'interno di solide melodie pop, aveva fatto il proprio credo, e impreziosito dalla produzione di Jim O' Rourke, vero e proprio membro aggiuntivo della band (la sua presenza anche in questo nuovo lavoro ne è testimonianza) e interprete di una già straordinaria carriera solista.

"A Ghost Is Born" è un'altra svolta (come ogni suo predecessore in fondo): atmosfere chiaroscurali create attraverso improvvisi lampi scagliati nella nebbia, squarci di lucidità gettati in una languida narcosi dei sensi, improvvise impennate pop accanto a sofferti pianti di chitarra, parole fragili come cristallo intonate da un canto rotto, commosso, in procinto anch'esso di frantumarsi sotto il peso di significati molto, forse troppo, profondi e intristiti.

Il suono complessivo del lavoro appare stranamente alterato, quasi che fosse passato attraverso il filtro di un eterno autunno fatto di malinconia e inquietudine: il sole splende, ma lo si osserva attraverso l'animo irrequieto di Tweedy, corroso dalle ultime dolorose esperienze personali e quindi meno carico di quella deliziosa ironia che ne aveva caratterizzato le precedenti produzioni. Sintomatico il lungo viaggio rumoristico in coda a "Less Than You Think", 12 minuti di musica "microcosmica" in cui i Can vengono proiettati tra le macerie dell'animo umano, e che succedono a una toccante ninna nanna intonata con una dolcezza spezzata, rotta quasi dal pianto. Gli sprazzi di geniale pop beatlesiano non mancano ("Hummingbird" e la caustica "Theologians" su tutte), ma il mood complessivo appare essere maledettamente blues, nella sostanza più che nella forma.

"Hell Is Chrome", vera e propria testimonianza personale di Tweedy, trasporta la fantasia lungo strade deserte solcate dal volo commosso degli uccelli (un travolgente assolo di chitarra spezzata dal dolore che scava le pareti del firmamento), mentre l'iniziale "At Least That's What You Said" subisce un'improvvisa elettrificazione colma d'ira e sovreccitazione dannatamente maledetta.

La compattezza del disco è scalfita dalla presenza di un paio di episodi più deboli degli altri (la pastorale "Muzzle Of Bees" e l'edulcorata "Whishful Thinking"), ma la cifra complessiva dell'opera resta di notevole valore, supportata da liriche straordinariamente sincere e abbaglianti e da un tessuto sonoro claustrofobico, ma debordante, variopinto quadro impressionistico che disegna paesaggi interiori ebbri di tristezza e nostalgia. Ombre e luci, dunque, che sostanziano un lavoro mai banale e trascinante (si pensi alla rutilante "I'm A Wheel"), epigrafe di una vitalità artistica non spentasi nei fumi della dipendenza da psicofarmaci che stava per inghiottire Jeff Tweedy, ma anzi, di questa, ispirata figlia accanto ai validissimi predecessori.

***

UN FANTASMA IN CARNE E OSSA

di Gabriele Benzing

E' un fantasma fatto di carne e di ossa, quello di cui gli Wilco annunciano la nascita.
La rinascita di un io disgregato, in cerca della propria originale identità.
Un guscio che si dischiude e si avventura incontro al mondo.
Al centro dell'atteso ritorno degli ex "padri" della scena alt.country non c'è altro che questo: un uomo alla ricerca del proprio vero volto, nel rapporto con la realtà e con le relazioni di cui la vita è intessuta.

Dopo la travagliata gestazione di "Yankee Hotel Foxtrot", acclamato dalla critica dopo essere stato rifiutato (con brillante lungimiranza…) dalla precedente casa discografica, "A Ghost Is Born" sembrava dover essere per la band americana il disco delle certezze, nonostante la dipartita del polistrumentista Leroy Bach alla fine delle registrazioni dell'album.
E invece, quando tutto sembrava già pronto per l'uscita del disco, è arrivata la notizia dell'improvviso annullamento di tutti gli impegni promozionali già programmati dal gruppo: Jeff Tweedy, voce e anima degli Wilco, doveva iniziare una cura per disintossicarsi dalla dipendenza da antidolorifici, con cui aveva tentato di combattere le emicranie e gli attacchi di panico che lo perseguitavano.
Ma Tweedy, con la band ancora una volta a un passo dal baratro, alla fine ce l'ha fatta a uscire dalla morsa che aveva stretto il suo animo: e così, questo disco diventa al tempo stesso una confessione di fragilità e un punto di equilibrio.

Quel sottile senso di leggerezza che aveva reso indimenticabile "Yankee Hotel Foxtrot" lascia il posto in "A Ghost Is Born" a un suono molto più concreto e materico, frutto di un approccio che alla sperimentazione in studio ha deciso di preferire l'espressione dinamica della band, pur senza rinunciare a proseguire lungo la strada di quel definitivo allontanamento da facili sicurezze "roots" iniziato già a partire da "Summerteeth".
Un disco fatto di brani più corposi e meno immediati, che esige un ascolto attento per lasciare emergere la sua sostanza: se per portare sul palco i brani di "Yankee Hotel Foxtrot", nati tra le mura dello studio, gli Wilco avevano dovuto in pratica impararli nuovamente, stavolta Jeff Tweedy ha voluto che quella fase di apprendimento venisse anticipata, partendo da semplici improvvisazioni, imparando a costruirle in una chiave live e arrivando solo alla fine di questo processo alla registrazione.

Così, bastano un'eco di chitarra e un soffio di pianoforte a sostenere il sospiro della voce di Tweedy nell'apertura densa di malinconico struggimento di "At Least That's What You Said". E' il suono di un singhiozzo lontano, amaro come un legame che ha perso il suo significato.
"When I sat down on the bed next to you/ you started to cry/ I said maybe if I leave you'll want me/ to come back home/ or maybe all you mean/ is leave me alone".
Ed è il lancinante dolore che quella voce rassegnata tentava di nascondere dentro di sé a emergere quando, dopo due minuti, entra in scena una chitarra elettrica tagliente, presa in prestito da Neil Young, ad anticipare l'ingresso della sezione ritmica, trasformando una rarefatta ballata in uno spigoloso crescendo di distorsioni, tra lo spiazzante e il dispersivo.

Il pianoforte diventa saltellante e illude di una spensieratezza piena di soul, ma è solo l'impressione di un istante, il prologo all'apparizione di un demone misteriosamente suadente, che invece di incutere timore invita con dolcezza a seguirlo. E' "Hell Is Chrome", e ancora una volta quella chitarra pungente, venata di cosmiche suggestioni floydiane, interviene a disegnare nuovi contorni.
Un metronomico drumming di ascendenze kraute introduce quindi "Spiders (Kidsmoke)", lasciando che acuminati frammenti di chitarra si intreccino alla ritmica ossessiva con le loro dissonanze, che fanno da onirico contrappunto alla voce di Tweedy. E quando le chitarre si aprono in quel chorus in cui nessuno ormai osava più sperare, è puro rock 'n roll a liberarsi dalla rigorosa geometria robotica di questo brano mutante.

In "Muzzle Of Bees" e "Company In My Back", la circolarità della chitarra acustica di Jim O'Rourke (anche stavolta nume tutelare e membro aggiunto della band) concede una pausa pacificante, che sembra provenire da certe pieghe dei suoi "Eureka" e "Insignificance", per subito lasciare spazio al pop d'autore di "Hummingbird", beatlesiano come avrebbe potuto esserlo tra le mani di Elvis Costello: uno zuccheroso arrangiamento d'archi sarebbe bastato a renderlo fastidiosamente stucchevole, mentre qui c'è solo una viola profumata di campagna ad ammorbidire il suo volteggiare di colibrì.

Ed eccoci arrivare finalmente al vero cuore del disco, con l'irresistibile giro di basso di "Handshake Drugs" a fare da collante a un rock pieno di riverberi elettrici e di riflessioni solo in apparenza lievi. Perché la liberazione dalle "droghe da stretta di mano" comincia quando non sei più schiavo di quello che gli altri pretendono da te: "Oh it's ok for you to say what you want from me/ I believe that's the only way for me to be/ exactly what you want me to be". Il primo passo per ritrovare il proprio sguardo umano sta così nel superare quel velo di indifferenza in cui il mondo sembra voler avviluppare il nostro io, fino a farci dimenticare persino quello che siamo davvero: "Where I'm going you cannot come/ no one's gonna take my life from me".

Solo allora è possibile comprendere quello che canta Tweedy in "Theologians", fingendo ancora una volta un sorriso giocoso: "Theologians don't know nothing/ about my soul/ I'm an ocean". La sete insaziabile del cuore non può essere contenuta in uno schema o in una teoria. Le gabbie costruite intorno ai nostri desideri non sono l'ultima parola: è nato un fantasma, qualcosa che non può essere ridotto alla misura del mondo. Un fantasma disposto a seguire fino in fondo le proprie aspirazioni più vere, dovunque esse lo conducano. Infatti, "what would we be without wishful thinking?". E' questa, in fondo, la questione decisiva, riassunta nella domanda che riecheggia in "Wishful Thinking", dopo che da un tappeto di fruscii e improvvisazioni sono sbocciati una chitarra e un organo avvolti di vibrazioni elettriche.
Allora ci si può abbandonare senza remore allo schietto rock di "I'm A Wheel", figlio degli Uncle Tupelo e degli Wilco più classici e degno di una reincarnazione dei Replacements convertiti al pop. Oppure ci si può perdere nelle lande di "Less Than You Think", che parte come una semplice e struggente ballata pianistica per perdersi nel mezzo di una nube radioattiva dai confini invisibili, fatta di loop, sintetizzatori e rumori improvvisati. Un quarto d'ora di sperimentalismo che suona in realtà giustapposto e fine a sé stesso, laddove il resto dell'album riesce a essere sempre comunicativo, pur senza scivolare nella scontatezza.

D'altra parte, il segreto di Jeff Tweedy, affidato al ritmo scanzonato della conclusiva "The Late Greats", è semplice e disarmante: "The best songs will never get sung". Non si tratta altro che di tentare di catturare un frammento di quella bellezza inafferrabile e sempre sfuggente.

13/12/2006

Tracklist

  1. At Least That's What You Said
  2. Hell Is Chrome
  3. Spiders (Kidsmoke)
  4. Muzzle Of Bees
  5. Hummingbird
  6. Handshake Drugs
  7. Wishful Thinking
  8. Company In My Back
  9. I'm A Wheel
  10. Theologians
  11. Less Than You Think
  12. The Late Greats
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