Smiths - Morrissey

Smiths - Morrissey

L'ultima popstar

Sulle loro canzoni si è specchiata una intera generazione. Ma l'impatto che l'opera musicale (e poetica) degli Smiths ha avuto nella cultura britannica è tuttora tangibile. Così come l'energia del loro leader, che dopo una ventennale carriera solista è ancora sulla cresta dell'onda con il suo ultimo album, "Years Of Refusal"

di Francesco Giordani, Claudio Fabretti

Non sono poi numerose le band che nella storia del rock siano riuscite a incarnare sino in fondo la complessità di una specifica epoca culturale e storica, facendosi carico delle sue incertezze di carattere politico e sociale, creando, attraverso il tessuto delle proprie canzoni, un megafono per l'urlo di un'intera generazione rimasta senza voce o, forse, senza più nemmeno la voglia di continuare a parlare. Manchester è stata una città che da questa prospettiva ha dato un contributo più che cospicuo, con i Joy Division alla fine degli anni Settanta e gli Oasis nei Novanta, ma per quanto riguarda il decennio intermedio, ovvero quello più controverso e problematico degli anni Ottanta, la figura dominante e "paradigmatica" è stata principalmente una: gli Smiths.

L'impatto che l'opera musicale (e poetica) del gruppo guidato da Steven Patrick Morrissey e Johnny Marr ha avuto nella cultura britannica è infatti ancor oggi più che tangibile (ne sia parziale testimonianza il successo che accompagna costantemente antologie e ristampe del loro non certo poderoso catalogo), tanto che si potrebbe quasi dire che dall'anno del suo scioglimento fino ad oggi, la band non abbia mai cessato di essere attuale e "all'ordine del giorno", fonte di inesauribile ispirazione per centinaia gruppi di ogni genere, latitudine ed estrazione generazionale (con un apice significativo negli anni del britpop). Non male per un gruppo che sin dall'inizio della propria carriera non inseguì mai la pretesa di sperimentare il "nuovo", anteponendo all'invenzione di stili inediti la necessità di un "bel canto" capace di attingere e preservare una verità esistenziale libera dalle maschere mistificanti e traditrici delle ideologie e dei troppo facili conformismi.
Alla nascita e al successo inarrestabile di questa sorta di leggenda o icona istantanea, hanno contribuito in pari misura una stile musicale estremamente riconoscibile nelle sue apparentemente semplici movenze (e per questo imitatissimo negli anni a venire) e la figura carismatica ed egocentrica del suo cantante, sottilissimo osservatore (e fustigatore) della società inglese (e più in generale umana) nonché sopraffino scrittore "prestato" alla musica.

Steven Patrick Morrissey nasce il 22 maggio 1959 da una coppia di immigrati irlandesi di modeste origini, residenti a Hulme, nella periferia meridionale di Manchester. Dopo un'infanzia serena, in seguito alla separazione dei genitori conduce un'esistenza sempre più solitaria e ritirata, che trova nelle mura rassicuranti del propria stanza uno stabile baricentro. Parallelamente matura in lui la progressiva scoperta di un amore fortissimo per la letteratura, in particolare per le opere di Oscar Wilde, nei confronti del quale sviluppa una sorta di vertiginosa identificazione (di cui rimarranno tracce sparse in alcune delle sue canzoni), ma anche per il cinema, soprattutto le produzione di alcuni cineasti britannici a cavallo tra le fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, le cui pellicole (da "Taste of Honey" a "Billy Liar", passando per numerose altre), con i loro spaccati realistici di una società inglese in profonda crisi e fermento, vanno a definire una ben precisa intelaiatura di riferimenti narrativi e figure archetipiche che sapranno nutrire in maniera costante (a tratti quasi ossessiva) le invenzioni poetiche di Morrissey.

Prima di tutto, però, viene la profondissima fascinazione del nostro per il mondo della pop-music: le sue preferenze oscillano tra l'eleganza raffinata di interpreti sensibili come Marianne Faithfull e Sandie Shaw (al cui rilancio mediatico contribuirà personalmente negli anni a venire) e il suono ingenuo e trasognato dei leggendari girls-group lanciati da Phil Spector (con una predilezione del tutto particolare per le Shangri-Las).

Il primo vero e proprio scossone arriva con il glam, la cui irrefrenabile carica trasgressiva, congiuntamente a un erotismo ambiguamente ammiccante fanno breccia nella fantasia del giovane Morrissey che inizia a seguire con passione crescente le febbrili imprese degli antesignani New York Dolls (sui quali pubblica nel 1981 un piccolo saggio, presto doppiato da un'opera analoga dedicata a James Dean), di David Bowie, dell'amatissimo Marc Bolan e dei suoi T-Rex, dei Roxy Music e degli Sparks. Non può del resto evitare di entrare in contatto con i primi vagiti musicali del fenomeno punk in una Manchester destinata a diventare, grazie al rapido exploit dei Buzzcocks prima e alle produzioni discografiche dell'etichetta Factory in seguito, una delle città britanniche più vitali della nuova scena rock nazionale.

Il 4 giugno 1976 prende parte allo storico concerto dei Sex Pistols alla Lesser Free Trade Hall di Manchester e viene così anche lui "contagiato" (non senza un certo distacco e una buona dose di ironia, come testimoniato da una lettera apparsa su Nme) da quella stessa infezione virale dal nome bislacco che stava allora colpendo le menti friabili dei giovani sudditi della regina.

Working class heroes

Le prime incursioni musicali non sono però molto fortunate. Milita prima (nelle vesti di cantante, essendo un rigoroso non-musicista) nei Nosebleeds, grazie al patrocinio del sodale Billy Duffy, ma la band si scioglie dopo qualche sporadica apparizione live (intercettata dall'occhiuto Paul Morley). Tenta un provino con gli Slaughter&The Dogs che non ha buon esito. Per qualche tempo accarezza anche l'ipotesi di dedicarsi al giornalismo musicale, ma anche in quel versante le cose paiono non funzionare in maniera soddisfacente.

L'incontro decisivo avviene nel 1982, quando John Martin Maher (che si ribattezzerà in seguito Johnny Marr) bussa alla porta di Morrissey, che gli è stato segnalato da una comune conoscenza. L'obiettivo è quello di instaurare una collaborazione di carattere artistico per comporre musica non necessariamente destinata a una band, magari da vendere a qualche interprete già affermato. I due scoprono di essere immersi in un immaginario musicale molto simile e il sodalizio inizia a prendere corpo. Johnny Marr è, al pari di Morrissey, figlio di immigrati irlandesi appartenenti alla working class di Manchester, coltiva sin da adolescente una passione viscerale per la chitarra, e studia con vorace dedizione le partiture dei prediletti Howlin' Wolf, Keith Richards, Neil Young, Bert Jansch, Mick Ronson e Marc Bolan (senza trascurare la decisiva influenza di Roger Mcguinn dei Byrds e di Tom Petty, da cui farà derivare quel tipico suono cosiddetto jingle-jangle destinato a fare epoca, indissolubilmente legato alla musica degli Smiths). Sviluppa così una conoscenza molto sottile delle molteplici potenzialità timbrico-espressive della chitarra.
Tuttavia anche i suoi primi passi musicali (in compagnia, tra gli altri, dell'amico fraterno Andy Rourke) non lasciano tracce molto tangibili: i gruppi più "longevi" sono i White Dice (che per poco non spuntano un contratto) e i Freak Party, in cui per breve tempo può dare libero sfogo alla sua nuova passione per la musica funky (amore destinato a rivelarsi durevole nel prosieguo della sua carriera, soprattutto solista).

Scelto il nome The Smiths (uno dei cognomi più diffusi nel mondo anglosassone, l'equivalente albionico dei nostri Rossi o Bianchi, quasi a voler rimarcare una precisa volontà di anonima ordinarietà quotidiana, unita a un contesto di natura a tratti quasi domestico-familiare), i due iniziano a comporre i primi brani: Morrissey cura la parte specificamente letteraria delle liriche, Marr si occupa invece della parte compositiva, confezionando melodie e tessiture strumentali con cui drappeggiare le immagini sempre più vivide del compagno.
I primi frutti di questa fase embrionale sono, tra le altre, "Handsome Devil", "What Difference Does It Make?" e "Miserable Lie", tra le composizioni più "antiche" del repertorio smithsiano. Il battesimo live avviene il 4 ottobre 1982, con Mike Joyce alla batteria (scelto in seguito a una focosa audizione per il suo stile energico e nerboruto) e Dalle Hibbert al basso (sostituito nel giro di qualche mese dal vecchio amico di Marr, Andy Rourke). In seguito viene realizzato un provino per una modestamente incuriosita Emi, che non dà tuttavia i frutti sperati, il che spinge gli Smiths a "ripiegare" (dopo un fallimentare abbordaggio di una Factory imbavagliata dalle ristrettezze economiche) sulla giovane Rough Trade dell'intraprendente Geoff Travis, molto attivo nella promozione (sia come venditore che come discografico) di promettenti formazioni di area new wave, molte delle quali per altro destinate a scrivere pagine importanti della storia musicale di quel periodo (si pensi solo ai Fall, ai Pere Ubu, ai Cabaret Voltaire, al Pop Group o agli Swell Maps).

Frattanto il gruppo si esibisce in un leggendario concerto all'Hacienda di Manchester nel febbraio 1983, catturando un'attenzione consistente da parte dei media di settore anche (se non soprattutto) grazie all'insolita scelta estetica di adornare le brulle pareti del locale con fiori (narcisi gialli, stando a cronache accreditate), in omaggio a Oscar Wilde, consuetudine che accompagnerà per parecchio tempo le prime apparizioni del gruppo definendo in maniera indelebile la stessa iconografia degli Smiths. Programmatiche le parole di Morrissey dell'epoca: "L'unica cosa importante nel 1983 è essere belli!".

The SmithsNel maggio 1983 esce il primo singolo "Hand In Glove", con "Handsome Devil" come lato B, e la band inizia a collezionare partecipazioni di prestigio a una John Peel Session e, poco dopo, al David Jensen Show (parte di queste testimonianze confluirà nella miscellanea Hatfull Of Hollow). La canzone "Hand In Glove" inizia a suscitare polemiche sempre più rumorose (relative a ipotetici riferimenti di carattere omosessuale) a causa del gioco di parole contenuto nel titolo (volontario?) e per la copertina del disco, che ritrae un uomo nudo fotografato di spalle. Anche il testo, d'altra parte, può prestarsi a interpretazioni "ambigue" (come spessissimo accadrà con molte canzoni scritte successivamente) e la questione si aggrava ulteriormente quando alcune testate giornalistiche vedono nei versi di "Handsome Devil" un'implicita esaltazione della pedofilia.
Ma il gruppo prosegue a testa bassa e nell'ottobre dello stesso anno dà alle stampe il bellissimo singolo "This Charming Man" che entra nella Top 30 dei singoli più venduti e fa da traino alla prima fortunata apparizione della band a Top of The Pops. A gennaio dell'anno seguente esce "What Difference Does It Make?", cui segue una seconda apparizione a distanza ravvicinata a Top Of The Pops (nella quale Morrissey sfoggia i suoi tipici occhiali dalla montatura spessa, in stile Buddy Holly).
Nel febbraio del 1984 esce l'omonimo debutto degli Smiths, prodotto da John Porter, che guadagna il disco di platino (pur fermandosi al secondo posto delle classifiche di vendita) e che dà in un certo senso inizio ufficiale al mito della band.
Come molti commentatori attenti hanno notato (anche in senso polemico) la principale novità del disco d'esordio The Smiths risiede del tutto paradossalmente nella sostanziale assenza di novità in termini strettamente sonori e compositivi. Dopo anni di innovazioni e sperimentazioni costanti, che avevano portato la new wave a ibridarsi con linguaggi disparati e spesso vicini alla più colta avanguardia, gli Smiths riscoprono l'inaggirabile necessità di tornare all'essenzialità di un classicismo melodico fondato sulle semplici canzoni.
Vengono così riscoperti e aggiornati gli stilemi compositivi che avevano dato lustro alla produzione rock della seconda metà degli anni Sessanta, attraverso un reticolo complesso di citazioni che vanno dai Beatles ai Kinks, passando attraverso Velvet Underground, Love e Byrds. Di pari passo la musica assume un piglio più lirico e introspettivo, tratteggiando i contorni sfumati di un microcosmo privato intriso di fragilità e inconfessabili contraddizioni, un piccolo mondo immaginario che si popola di memorabili personaggi. Personaggi che spesso raccontano la propria goffaggine e inadeguatezza in romanzi magistralmente costruiti.
Il grido di libertà e amore negato che promana dai testi di Morrissey (tra i migliori "scrittori" che la musica inglese abbia mai conosciuto), la sua rivendicazione di una diversità (e quindi solitudine) irriducibile, riesce così a plasmare l'immaginario di una nuova generazione di adolescenti schiacciati dal peso opprimente dello sterile thatcherismo e dall'inesorabile sbriciolarsi di ogni ideologia o progetto di rivoluzione sociale, amplificando le "deformità" e, al contempo, il bisogno di verità di giovinetti che affidano alla bellezza incorrotta della musica la loro ultima speranza di autentica guarigione.

Dal punto di vista musicale, le caratteristiche essenziali degli Smiths sono due e già perfettamente riconoscibili nell'opera d'esordio: innanzitutto lo stratificarsi dei morbidi arpeggi chitarristici di Marr, che scivolano a cascata sulle parole intonate da Morrissey, fasciandole in una trama calda e crepuscolare di suoni aerei. Il cantante, dal canto suo, plana con leggerezza sulle superfici levigate dalla propria voce, in bilico tra la tensione emotiva di un'aria operistica e il salmodiare assorto di un maestro di culto. Tra i frutti più prelibati di questa irripetibile alchimia, vanno citate senz'altro "This Charming Man" (inserita come bonus track dell'edizione statunitense dell'album), che con le sue pennate trillanti e un giro melodico brioso e frizzante sembra quasi esplodere nell'aria come un bengala luminoso, la splendida ballata pastorale di "Reel Around The Fountain", prevista inizialmente come singolo ma poi bloccata dalla polemica montata dal Sun su presunti contenuti pedofili (il tabloid sarà poi denunciato e condannato per diffamazione), "Still Ill", nella cui ritmica si infiltra un passo quasi funky, impreziosito da evoluzioni vocali di stordente bellezza, la controversa "Hand In Glove", che si allunga in un minuetto erotico senza fine, e "What Difference Does It Make?", ghermita da un fraseggio affilato di chitarra che si incide subito nella memoria.
L'impressione generale è quella di trovarsi di fronte a dei monologhi di un piccolo teatro della coscienza, nel quale una voce che parla a se stessa viene contornata da uno screpolato alone musicale, una sorta di scenografia intessuta di chitarre policrome che si intrecciano e perdono l'una nell'altra, costantemente. Solo così si può spiegare l'incanto senza tempo, la sospensione tenue e smagata di piccoli idilli come la diafana "The Hand That Rock The Cradle", "You've Got Everything Now" (forse tra le più esemplificative e riassuntive della cifra stilistica della band), "Suffer Little Children" o anche della più movimentata "Miserable Lie", che nella seconda metà imbocca un'accelerazione dal sapore quasi rockabilly, condita da vocalizzi in stridulo falsetto.

La band si trova ormai al centro di un successo che cresce di giorno in giorno, ma Morrissey e Marr, tra un impegno e l'altro, prima di iniziare le sessioni di registrazione per il nuovo attesissimo album, decidono di realizzare un vecchio sogno, proponendo una collaborazione a Sandie Shaw, raffinata interprete londinese che aveva conosciuto un apprezzabile successo nella prima metà degli anni Sessanta e che da anni aveva ormai imboccato la china di un progressivo declino commerciale. Il progetto, dopo un iniziale rifiuto della cantante, si concretizza in un singolo contenente le cover di "Hand In Glove", "I Don't Owe You Anything" (l'ultima traccia di The Smiths) e "Jeane" (edita precedentemente come lato B di "This Charming Man" e non inclusa nell'album). Il singolo entra nella Top 30, attirando di nuovo i riflettori sulla quasi dimenticata cantante, la quale ricambia il favore condividendo occasionalmente il palco con gli Smiths (compresa una buffa apparizione all'ormai abituale Top Of The Pops).

Single è bello

È proprio in questo periodo che gli Smiths rilasciano, sotto forma di singoli, alcuni dei loro più famosi capolavori. In particolare, in maggio arriva negli scaffali il singolo "Heaven Knows I'm Miserable Now", che ottiene un ottimo piazzamento, seguito a ruota ad agosto da "William, It Was Really Nothing" che può vantare come B-side due pezzi destinati a marchiare a fuoco l'epopea smithsiana: "How Soon Is Now?" (talmente bella da guadagnarsi una ripubblicazione come singolo autonomo il febbraio dell'anno seguente) e "Please, Please, Please, Let Me Get What I Want" (tra le più conosciute composizioni degli Smiths).
La qualità delle composizioni (degli instant classic) è talmente elevata che nel novembre 1984 esse confluiscono in un'atipica raccolta antologica che accorpa al proprio interno, oltre alle canzoni menzionate, versioni alternative di pezzi già apparsi su singolo o nel primo album, riproposti in chiave live nell'ambito delle sessioni radiofoniche che il gruppo aveva registrato nel 1983, insieme ad alcuni pezzi in parte inediti risalenti al primissimo periodo della band come "These Things Take Time" o la discussa "This Night Has Opened My Eyes".
La raccolta, Hatful Of Hollow, del tutto a sorpresa entra nella Top Ten e incrementa ulteriormente la popolarità degli Smiths, venendo ancor oggi considerata da molti uno dei pezzi di maggior pregio del catalogo smithsiano (band che proprio nei singoli riversava molto del suo materiale più succulento) e inaugurando un serie di antologie dalla natura composita (spesso anche caotica) che nel corso del tempo darà ulteriori frutti (si pensi soprattutto a The World Won't Listen e Louder Than Bombs, entrambe del 1987).

Nel frattempo il gruppo porta a termine i lavori per il secondo album, che esce con il titolo Meat Is Murder nel febbraio 1985 e regala agli Smiths il primo posto in classifica. La critica manifesta un apprezzamento abbastanza uniforme e il gruppo sembra ormai aver raggiunto una consacrazione nazionale definitiva.
Il lavoro si segnala soprattutto per una maggiore varietà dei formati sonori adottati, con scarti stilistici abbastanza accentuati tra un pezzo e l'altro (a fronte di una "voce" sempre più consolidata e facilmente riconoscibile), e per uno sguardo più ampio dei testi di Morrissey, che allarga il proprio spettro indagatore (già a partire del titolo, professione incruenta di un rigoroso vegetarianesimo, ma interpretabile anche in altre luci più sottili) a una dimensione più sociale e meno solipsistica, a tratti quasi politica.
Il gruppo saggia allora le possibili traiettorie di sviluppo della propria musica, partendo dalla denuncia dei metodi di insegnamento scolastico contenuta in "The Headmaster Ritual", una pop-song compatta e cantabile, al solito avvolta negli intarsi eleganti della chitarra schiumosa e mulinante di Marr, con un Morrissey che si diverte a spezzare la propria voce in un gioco di rifrazioni stranianti nel ritornello. Ma c'è anche il rock fragoroso e cadenzato (che sfiora quasi, consapevolmente, l'hard) di "What She Said", con un basso che sfriziona baldanzoso e una vulcanica batteria alla Who. "That Joke Isn't Funny Anymore" (uno dei vertici indiscussi del lavoro, che fa il paio con "Well I Wonder") risponde con un country-soul soffuso di sfuggenti brume psichedeliche.
Il potenziale della band è in grado di prodursi sia in numeri rock'n'roll anni Cinquanta (una vecchia fascinazione del Moz, evidente nel suo look peraltro) come "Nowhere Fast", sia in citazioni funk-wave dotate di ottimo groove e verve compositiva, come "Barbarism Begins At Home", altra rabbiosa invettiva indirizzata alla violenze familiari. Qua e là, nei testi, si possono leggere riferimenti velati a un malessere che spesso sfocia in un vago desiderio di suicidio, cosa che scatena le inviperite polemiche della stampa (con la quale Morrissey intratterrà un rapporto sempre più astioso e tormentato). Quello che colpisce è, ad ogni modo, la notevole voracità della band, la sua voglia di giocare con linguaggi diversi, imbrattandosi le mani con i colori vividamente naif del fine bozzetto folkabilly di "Rusholme Ruffians" per finire poi a sperimentare i suoni concreti e le manipolazioni rumoristiche di un divertissement capricciosamente colto come l'eponima "Meat Is Murder", ai limiti dell'atonalità, prima di germogliare in un disegno melodico di particolare drammaticità.
Se un limite può essere trovato all'album esso risiede forse in una vena troppo dispersiva e nella mancanza di uno stabile baricentro formale. Ma, da un'altra prospettiva, proprio la discontinuità delle ispirazioni può rivelarsi il maggiore punto di forza. Di fatto gli Smiths imbastiscono un piccolo manuale tascabile di storia della musica pop, una galleria di raffinate miniature e un quaderno di esercizi ortografici dal quale la loro scrittura esce senza dubbio rafforzata e sicura delle proprie capacità.

La band intraprende una tournée, prima in Europa e di seguito negli States, ma i problemi non mancano. Ci sono rimostranze da parte di Rourke e Joyce relative alla ripartizione interna dei compensi (sulla cui entità nasce una piccola diatriba anche con la Rough Trade, fomentata forse dall'interessamento sempre più scoperto di grosse major che fiutano l'affare), due manager vengono licenziati nel giro di pochi mesi e la band decide di gestirsi in maniera autonoma. 

Sua Maestà al patibolo

The SmithsNonostante questo, il gruppo riesce a registrare il suo album migliore, The Queen Is Dead, sotto la supervisione di Stephen Street (futuro decano del britpop con i Blur) che già aveva preso parte alle sessioni di Meat Is Murder. L'album arriva nei negozi nel giugno 1986, scalando rapidamente le classifiche di vendita, anche grazie agli splendidi singoli che gli fanno da traino, in particolare la bellissima e struggente "The Boy With The Thorn In His Side", "Bigmouth Strikes Again","Panic" (famosissima la sua fatwa ai danni del popolo delle discoteche, destinata ad alimentare il solito vespaio di polemiche mediatiche) e "Ask", queste ultime due date alle stampe qualche mese dopo la pubblicazione dell'album e non incluse nella sua tracklist (verranno recuperate, con relative B-side, insieme ad altri singoli sparsi, nella raccolta The World Won't Listen del 1987).

Come molti sanno, il disco doveva originariamente intitolarsi "Margaret On The Guillotine" (ennesima stoccata con stile mordace alla Lady di Ferro), a testimonianza di un'insofferenza sempre più tragica e inevitabile nei confronti di un Paese decaduto sia dal punto di vista morale che da quello politico. Ma sarebbe riduttivo interpretare il titolo e l'opera nel suo insieme in una chiave esclusivamente (anti)britannica, la crisi cui gli Smiths fanno riferimento è, in un certo senso, molto più generale e allude al crollo progressivo e ineluttabile di tutte le grandi e illusorie narrazioni sociali (la patria, l'impero, il partito, la rivoluzione sessuale, Dio, la stessa musica) che avevano imbastito la retorica collettiva dei grandi movimenti libertari dei decenni precedenti, schiacciandone poi le tuonanti promesse contro la dura e fredda parete di una esistenza sempre più scissa e drammaticamente consegnata alla sua solitudine.

Musicalmente il disco non si discosta poi molto dalla restante produzione smithsiana (caratterizzata, come visto, da una generale omogeneità, anche qualitativa). L'album entra di fatto nella storia del rock britannico più degli altri per il suo riuscire in un certo modo a sintetizzare quella che è a conti fatti la "cifra" degli Smiths, attraverso un'agile selezione di dieci composizioni abbastanza caratterizzate e stilisticamente ben "staccate" le une dalle altre. È ad ogni modo qui che si ritrovano alcuni dei frutti più riusciti e convincenti del binomio Morrissey-Marr. Da questo punto di vista la seconda metà del lavoro rasenta la più vibrante perfezione: se "Cemetery Gates" rimane impigliata tra le pieghe di un country-rock dal sapore fifties, incorniciato da vivaci sbuffi di basso, "Bigmouth Strikes Again" ha un passo ancora più spedito e tambureggiante che fa da perfetto apripista ai fasti senza tempo di "The Boy With The Thorn In His Side", costruita attorno a una melodia indimenticabile sulla quale la voce di Morrissey (ai suoi apici interpretativi) si lascia danzare.
L'arma più affilata degli Smiths sembra quasi essere la loro stessa fragilità, come dimostrato dalla tripletta di pezzi finali: se "Vicar In A Tutu" è un malizioso folkabilly che va ad aggiungersi a una collezione ormai piuttosto nutrita di pezzi dall'impianto simile, "There Is A Light That Never Goes Out" potrebbe non finire davvero mai, incastonata com'è in una melodia elegante e asciutta, in bilico tra la tradizione degli chansonnier francesi e la levità sognante di un sonetto elisabettiano. Con "Some Girls Are Bigger Than Others" si ritrova una via personale alla new wave e le guizzanti intuizioni di Marr alla chitarra intrecciano una mantello di note iridescenti e mobilissime.
Anche i pezzi della prima metà dell'album contengono ad ogni modo motivi di interesse: "The Queen Is Dead" ripresenta il lato più avventuroso e musicalmente sperimentale della band, attraverso una composizione di oltre sei minuti, caratterizzata da diversi scarti e cambi di scenario, soprattutto nella seconda metà. "Frankly, Mr. Shankly" è un divertito stomp passatista, che sembra quasi fare il verso a Sinatra, mentre "I Know It's Over" è un altro pezzo importante, intriso di malinconia soul vellutata di ascendenza Motown, che si fa avanti con passo ferito e titubante per poi aprirsi in un movimento più corale. "Never Had No One Over" da un certo punto gli fa quasi eco, attraverso una struttura per certi versi molto simile.

Il clamoroso successo del disco è accompagnato dalle inevitabili polemiche sulle sortite anti-monarchiche di Morrissey che in un'intervista va giù pesante: "Disprezzo la famiglia reale. L'ho sempre disprezzata. E' un nonsense fiabesco, l'idea stessa della loro esistenza in giorni come questi, durante i quali la gente muore quotidianamente perché non ha abbastanza denaro per pagarsi il riscaldamento, secondo me è immorale".
Il lato politico degli Smiths si manifesta anche con la partecipazione al movimento di "rock socialista" Red Wedge.

Durante la corposa tournée mondiale che promuove il disco, tuttavia, le frizioni interne si acuiscono (soprattutto per le eccessive responsabilità gestionali che Marr, nelle veci di manager di fortuna, si vede costretto ad affrontare). Il successo commerciale, comunque, non scema, anche grazie alle ottime vendite con cui vengono accolti i nuovi singoli "Shoplifters Of The World Unite" e "Sheila Take A Bow", tutti pubblicati a distanza ravvicinata nel 1987 (verranno poi recuperati, secondo una consuetudine ormai consolidata, in un'antologia per il mercato americano, Louder Than Bombs, edita nello stesso anno).

Frattanto iniziano i preparativi del quarto album, sempre con Stephen Street nella vesti di co-produttore. Strangeways, Here We Come giunge nei negozi di dischi nel settembre 1987, posizionandosi ai vertici della top ten come i suoi predecessori e ottenendo un discreto successo anche in America.
Il quarto album degli Smiths si caratterizza per un scrittura estremamente raffinata, molto aperta e capace di ammantarsi di arrangiamenti piuttosto forbiti e labirinticamente stratificati, in alcuni frangenti quasi barocchi. L'abilità del gruppo nello scagliare zampate pop di gran classe resta pressoché inalterata, come testimoniano composizioni felicissime del livello di "Girlfriend In A Coma", "Stop Me If You Think You've Heard This One Before", "Unhappy Birthday" o la conclusiva "I Won't Share You" che si collocano tutte nel filone maestro della band, arricchendolo però di preziosismi strumentali e strutture dall'esito meno prevedibile.
L'umore complessivo ha un taglio a tratti quasi teatrale, in bilico tra il vaudeville e il music-hall, con l'ispessirsi di trame e interventi fiatistici (si ascolti, ad esempio, la ballabile "I Started Something I Couldn't Finish") o di atmosfere dal piglio più etereo e rarefatto, come nella notevolissima "Death Of A Disco Dancer", che si raggomitola in un nido di spossatezza decadente, sublimata poi in una coda che assume le fattezze di una jam sinistra e balbettante.
La stessa volontà di smarcarsi dall'immediatezza melodica che aveva contraddistinto la prima parte della produzione smithsiana, la si può ritrovare nel pathos drammaturgico di "Last Night I Dreamt Somebody Loved Me", nel suo lasciarsi trasportare da un vento di archi melanconici che hanno un sapore "finale" e la magniloquenza drammatica di un glorioso kolossal cinematografico mai esistito o, ancora, di un impossibile addio. L'impressione è quella di trovarsi di fronte a un lavoro "di transizione", molto teso e instabile nel suo complesso, capace di coniugare al proprio interno un riepilogo di quanto realizzato in precedenza dalla band (alla luce però di una nuova consapevolezza retrospettiva) insieme a una serie di nuove significative indicazioni su possibili percorsi di evoluzione stilistica che purtroppo la formazione di Manchester non avrà modo di portare a compimento.

I dissapori all'interno della band si fanno infatti piuttosto stridenti, anche in merito ai possibili sviluppi musicali del progetto, e Johnny Marr, poco prima di iniziare la promozione di Strangeways, Here We Come, se ne va a Los Angeles per un periodo di pausa. I giornali, Nme in testa, danno molta risonanza alla cosa e i rumori circa un prossimo scioglimento si fanno ogni giorno più insistenti. Dopo una serie di infruttuosi tentativi alla ricerca di un eventuale sostituto alla chitarra, nel settembre 1987 Morrissey ufficializza in un comunicato stampa l'effettivo scioglimento degli Smiths (non privo di futuri strascichi legali in merito alle royalties da spartire).

Per i fan è un trauma senza precedenti. Non per Morrissey, che è già al lavoro con Stephen Street su un'ipotesi di carriera solista che si concretizzerà, con grande successo, all'inizio dell'anno successivo. Nel 1988 uscirà anche un live postumo degli Smiths, Rank, a testimonianza di un concerto del 1986, mentre l'antologia doppia dei loro singoli The Smiths Best, I & II (1992) condenserà il meglio della loro produzione.
Meno brillante sarà la carriera di Johnny Marr, che rimbalzerà negli anni a venire attraverso una pluralità disordinata di progetti, musicalmente molto variegati, dagli Electronic (insieme a Bernard Sumner dei concittadini New Order) con cui pubblicherà tre album dal 1991 al 1999, ai fallimentari Healers, passando per decine di collaborazioni nelle vesti di coautore di singoli brani, arrangiatore o semplice turnista, fino al recente exploit al fianco degli indierocker Modest Mouse (con i quali per la prima volta ha raggiunto il numero 1 delle classifiche americane!), per giungere al suo ingresso nei giovani Cribs.

Il famoso playboy internazionale

MorrisseyL'indomito "Moz", dunque, inizia una "seconda vita" da solista che lo vedrà sempre al centro dell'attenzione dei media, abilissimo stratega di se stesso, seppur piuttosto lontano dai traguardi raggiunti con gli Smiths.
Uno scatto del fotografo olandese Anton Corbijn lo immortala nella copertina del suo primo album da solo, Viva Hate (1988). "Viva l'odio", ovvero il nichilismo sublimato in uno slogan pop o forse un'amara conclusione sull'epilogo dell'esperienza Smiths. Ma è un ricordo ancora troppo fresco e difficile da dimenticare. E così il disco conserva in buona parte l'imprinting della gloriosa ditta di Manchester: le cantilene lamentose e caustiche di Morrissey, le melodie appiccicose e una chitarra che, messa in mano a Vini Reilly (Durutti Column), suona sempre limpida e tintinnante, seppur orfana del magico tocco dell'era-Marr. Domina un mood intimista, che tuttavia non rinuncia alle consuete stilettate su costumi e personaggi della società britannica. La scrittura di Morrissey si fa meno astratta e più narrativa, nutrendosi spesso di spunti autobiografici.
Il primo singolo estratto, "Suedehead" (da un racconto dello scrittore-cult degli skinhead, Richard Allen), parrebbe a tutti gli effetti un nuovo pezzo degli Smiths, con il suo bruciante riff iniziale e la sua andatura effervescente: lo spingerà al successo anche il videoclip, tutto dedicato all'idolo James Dean. L'altra hit è "Everyday Is Like Sunday": basso pulsante e refrain epico, disteso su archi, vibrafono e riff di chitarre, a incorniciare un desolante quadretto di provincia. Anche "Alsatian Cousin", sospinta dal basso e da chitarre taglienti, si mantiene tutto sommato fedele alla linea.
A scatenare le prime polemiche politiche, invece, saranno proprio due tra i brani più fiacchi della raccolta: "Bengali In Platforms", che si attirerà accuse di razzismo per alcuni riferimenti ambigui agli immigrati, e la lamentosa invettiva di "Margaret On The Guillotine" - outtake di The Queen Is Dead in cui Lady Thatcher finisce al patibolo, con tanto di colpo di lama finale - che costerà a Morrissey una visita a casa con perquisizione da parte della polizia.
Se "Dial-a-clichè" non pare all'altezza del talento da crooner del Nostro, la sinfonia di "Angel, Down We Go Together", sorta di "c'eravamo tanto amati" sull'addio degli Smiths con contorno di violini e violoncelli, e il lungo monologo di "Late Night, Maudlin Street", sul trauma dell'abbandono della casa natia, lasciano intravedere qualche ambizione in più sul piano compositivo.
Pur tra qualche incertezza, insomma, Morrissey la sfanga con un album d'esordio tutto sommato dignitoso prosecutore dell'epopea Smiths.

Nel triennio successivo, concentrandosi soprattutto sui singoli - che in fondo erano sempre stati la specialità di casa Smiths - Morrissey arriva a comporre alcuni dei brani migliori del suo repertorio solista, destinati a confluire sul suo secondo full length, Bona Drag (1990), dove riappaiono anche "Everyday Is Like Sunday" e "Suedehead".
C'è anche l'inaspettato ritorno di Johnny Marr a impreziosire con la sua chitarra "Interesting Drug", con Kirsty MacCall al controcanto. Ma a svettare è il sublime incedere pop di "The Last Of The Famous International Playboys", dove il Nostro spinge sul tasto della parodia, immaginando una corrispondenza di un fan con due dei più famigerati criminali d'Inghilterra, Reggie e Ronny Kray. A sorpresa, quest'ultimo dal carcere esprimerà apprezzamento, pur sottolineando che "il testo nella sua interezza manca di qualcosa". Fulminante la replica di Morrissey: "La mia solita fortuna. Non riesco a liberarmi dei critici!".
Su "Hairdresser On Fire" torna il gusto per fastosi arrangiamenti orchestrali, mentre il tremolio della chitarra di "Disappointed" riesce a riportare alla mente per qualche istante l'epica "How Soon Is Now?".
Completano il quadro quattro episodi a loro modo "eccentrici": lo ska bislacco di "Ouija Board, Ouija Board”, il pop in slang "criminale" di "Piccadilly Palare" (in tandem con Suggs dei Madness), l'intermezzo quasi "gotico" di "November Spawned A Monster" (con i vocalizzi della canadese Mary Margaret O' Hara) e il gospel melodrammatico di "Yes, I Am Blind".
Collezionando singoli e B-side con cura certosina, il Morrissey di Bona Drag sembra aver trovato una via feconda al suo songwriting solista. 

Nel successivo Kill Uncle (1991), tuttavia, l'irrequieto dandy non resiste alla tentazione (fatale, in questo caso) di cambiare ancora: via, allora, Stephen Street, rimpiazzato in cabina di regia da Clive Langer e Alan Winstanley, mentre a Vini Reilly subentra Mark E. Nevin (ex-Fairground Attraction). Ne scaturisce un disco confuso e raffazzonato, con pochi momenti davvero memorabili e un'ombra di tedio sempre dietro l'angolo. Il gigione egocentrico dei lavori precedenti scivola nell'auto-parodia, facendosi petulante interprete di canzoncine jangle-pop scialbe e convenzionali. Alle corde di Nevin mancano gli hook del caso e anche nei momenti più gradevoli - l'upbeat di "Sing Your Life," le ballate di "Driving Your Girlfriend Home" (quasi un sequel di "There Is A Light That Never Goes Out") e "There's A Place in Hell For Me And My Friends", guarnita da un bell'accompagnamento al piano - Morrissey non riesce a graffiare. Prigioniero di un'indolenza sentimentale e di un'autoindulgenza che ora sconfina davvero nella maniera, l'ex dispensatore di ritornelli-killer si rifugia in motivetti blandi e scipiti ("Asian Rut", "King Leer").

Mentre la sua Manchester si trasforma in "Madchester" riaccendendo le luci su una nuova, variopinta scena musicale, il divo Moz prosegue testardamente sulla sua strada. Troppo testardamente, secondo alcuni critici britannici, che già ne celebrano il de profundis, sentenziando che, senza Marr, non sarà mai più in grado di ripetere il miracolo degli Smiths.

Il ragno nell’arsenale

MorrisseyE' un periodo tormentato, contrassegnato da liti con manager, discografici e compagni d'avventura. Un periodo che però, a sorpresa, culmina nel colpo d'ala di Your Arsenal (1992). Il titolo è un amalgama di giochi di parole: il chiaro "Your Arse", il riferimento alla squadra inglese dell'Arsenal (vedi "We'll Let You Know") e "il tuo arsenale", inteso come dotazione sessuale di un fantomatico interlocutore, un possibile riferimento alla critica musicale inglese.
Prodotto da Mick Ronson, già Ragno di Marte alla corte di Ziggy Stardust-Bowie, l'album vira inevitabilmente verso luccicanti tinte glam, grazie anche al robusto tandem di chitarristi, formato da Alain Whyte (co-autore anche di buona parte delle tracce) e Boz Boorer (già nella band rockabilly Polecats). Riff e distorsori alzano il volume. Il suono si fa più sporco. E lo stesso canto di Morrissey cambia pelle, trasformandosi dal crooning lamentoso dei primi dischi a uno strumento duttile e possente. Deposti i panni dello stanco poseur solipsista, Morrissey rinasce rocker, con una grinta inusitata, capace di scatenare assalti all'arma bianca ("You're Gonna Need Someone On Your Side", "Glamorous Glue") e di forgiare vignette irresistibili (il singolo "You're The One For Me, Fatty", con un testo deliziosamente beffardo, la sogghignante e molto smithsiana "We Hate It When Our Friends Become Successful") ma senza rinunciare alle aperture melodiche che lo hanno reso celebre (la suadente novelty di "The National Front Disco", la malinconica "We'll Let You Know", con limpide tessiture acustiche e cori da stadio a precedere l'accelerazione finale, dove si scorge anche una marcetta irlandese).
Il rockabilly al vetriolo di "Certain People I Know", il crooning di "I Know It's Gonna Happen Someday" (con una citazione involontaria da "Rock'n'Roll Suicide" di Bowie, che poi, curiosamente, ne farà a sua volta una cover) e la cavalcata chitarristica di "Tomorrow", strozzata nei rintocchi finali del piano, completano un album che rilancerà considerevolmente le quotazioni dell'ex-leader degli Smiths: il successivo tour, infatti, spopolerà su entrambe le rive dell'Oceano, con clamorosi sold-out

Eppure, pochi mesi dopo, la stella di Morrissey rischia di venire irrimediabilmente offuscata. Aprendo il concerto dei Madness al Finsbury Park di Londra, davanti a un pubblico composto in parte da skinhead, l'ex-leader degli Smiths compare sul palco avvolto nella bandiera britannica. La stampa, facendo due più due con alcune sue improvvide esternazioni, lo accusa apertamente di ammiccare alla destra del National Front, e pezzi come "The National Front Disco" o "Bengali In Platforms" vengono "riletti" alla luce del suo presunto nazionalismo. Anche la strofa contenuta in "We'll Let You Know" ("We are the last truly British people/ you'll ever know") alimenta le accuse di xenofobia, anche se in realtà a parlare a parlare nel brano è uno dei famigerati hooligan. Nei loro confronti, comunque, Morrissey si mostra contraddittorio, da un lato ne sottolinea la vigliaccheria ("assaliremo chiunque non sia in grado di difendersi da solo"), dall'altro ne celebra la fierezza, quasi fossero gli alfieri di un'Inghilterra perduta, l'ultimo baluardo contro l'americanizzazione: "Comprendo il livello di patriottismo, il livello di frustrazione e quello di esultanza - arriverà a dire in una intervista - Comprendo la loro aggressività e perché debba essere liberata... Finché non ci sono morti, la cosa mi diverte". Un flirt volutamente ambiguo con quell'"immaginario criminale" che ricorrerà ancora nel suo canzoniere, popolato di tanti "piccoli bastardi", figli della strada e di quella suburbia britannica di cui si è ormai eletto cantore.

I fasti del tour di Your Arsenal saranno comunque immortalati nel live Beethoven Was Deaf (1993).

Un anno dopo Morrissey torna in testa alle classifiche con il nuovo album, Vauxhall And I (1994). Il titolo - da alcuni collegato al film inglese "Withnail And I" - fa invece riferimento a una persona conosciuta dal Nostro a Vauxhall, sobborgo di Londra. E' un breviario pop intriso di una mestizia forse legata alle recenti scomparse di amici cari a Morrissey (Tim Broad, Mick Ronson e il manager Nigel Thomas). Boorer e Whyte firmano buona parte delle musiche, mentre dietro la consolle siede ora un guru internazionale come Steve Lillywhite.
A trascinare il disco al successo è soprattutto il singolo "The More You Ignore Me, The Closer I Get", gustoso pop-rock semiserio che scalerà le chart sui due lati dell'Atlantico. Ma il mood generale, come si diceva, è più pensoso, ripiegato in un guitar-pop tenue e sommesso. Le chitarre, smussate le spigolosità rockabilly, ripiegano per lo più su soffici arpeggi, sui quali Morrissey poggia le sue calde interpretazioni, che volteggiano su trame sognanti ("Lifeguard Sleeping, Girl Drowning", con una bella melodia di clarinetto) o strizzano l'occhio ad atmosfere da pop sixties ("Used To Be A Sweet Boy", nuovo commosso amarcord sull'infanzia felice, e "The Lazy Sunbathers", sarcastico j’accuse contro l'individualismo sfrenato).
L'ennesimo melodramma singhiozzato sulla sua incapacità di amare/essere amato ("I Am Hated For Loving") può disturbare, ma resta intatta la classe del consumato performer, capace di cesellare una ballata orchestrale "classica" come "Now My Heart Is Full", colma di solitudine e desolazione (con citazioni dal romanzo "Brighton Rock" di Graham Greene), di mettere in scena il chorus pomposo di "Hold On to Your Friends" e di inventarsi un epilogo quasi "noisy" come "Speedway", un'altra invettiva contro i suoi nemici della carta stampata ("All those Lies! Written Lies! Twisted Lies"), con un rumore di trapano alla fine dell'intro e un drumming che si impenna in un crescendo tumultuoso, fino a troncarsi nel finale. Degno di nota anche il testo di "Why Don't You Find Out For Yourself?" che contiene una sorta di avvertimento alle aspiranti popstar: "Some men here, they have a special interest in your career/ they wanna help you to grow and then/ they'll syphon all your dough".

Vauxhall And I troverà un testimonial d'eccezione nell'allievo Thom Yorke, che lo ricorderà come l'album di riferimento per i Radiohead durante le registrazioni di "The Bends" (1995).

Nello stesso anno, Morrissey corona quello che forse era un suo piccolo sogno nel cassetto, collaborando con il suo idolo di sempre, Siouxsie Sioux: nasce così il magico duetto di "Interlude" (cover di un brano della cantante soul Timi Yuro) sulle note di una ballata struggente e romantica, tutta giocata sul contrasto tra il salmodiare arioso del nostro e la cupezza straniante della sua tenebrosissima partner. Una collaborazione fortunata, ma altrettanto burrascosa: i due litigano in studio e le loro strade si divaricano subito. "Siouxsie è troppo aggressiva", chioserà Morrissey.

Autoproclamatosi "figlio ed erede di niente in particolare", il dandy mancuniano è ormai il portavoce di (almeno) una generazione, l'istrionica maschera di un britannicità tutta amarezze e humor, eccentricità e contraddizioni. I figliocci putativi del nascente britpop tributano sentiti omaggi. Lui, però, non raccoglie, quasi consapevole di essere l'ultimo esemplare di una genia in via di estinzione.

Un ring infinito

Dopo una raccolta di successi (World Of Morrissey, 1995) seguita al cambio di etichetta (dalla Parlophone alla Rca), Morrissey volta ancora pagina con Southpaw Grammar ("Il codice dei mancini", da uno slang pugilistico con possibile doppio senso sull'ambiguità del termine mancino/diverso/gay). Un album ridondante, in cui alcuni hanno intravisto persino venature prog. In ogni caso, un suono decisamente meno diretto e accattivante del solito. Anche per questo, probabilmente, l'album fallirà del tutto in America, vanificando così l'abbrivio regalato dal predecessore.
Con Lillywhite alla produzione e i fidi Whyte e Boorer ad accompagnarlo, Morrissey pensa in grande: negli undici minuti della pomposa "The Teachers Are Afraid Of The Pupils" (la sua canzone più lunga di sempre!) tenta di riscrivere "The Headmaster Ritual" dal punto di vista degli insegnanti; i campionamenti di archi di Boorer includono persino un estratto in loop della Quinta sinfonia di Shostakovich, presto sfigurato dal fragore delle chitarre. Forse un azzardo, ma comunque da apprezzare.
L'altro wall of sound à-la Spector della title track azzarda con i riff psichedelici in un crescente clima di alienazione. Ma è un esercizio di stile piuttosto sterile. Nel tentativo di imprimere una svolta ambiziosa al suo songwriting, il menestrello di Manchester rischia di smarrire la calda semplicità della sua scrittura. Ecco che allora brani più concisi come "Reader Meet Author" e "Dangenham Dave", pur senza brillare, riportano il suo sound su territori a lui più congeniali, mentre le fiammate rock di "The Operation" (con un inedito assolo di batteria iniziale a cura di Spencer Cobrin), "The Boy Racer" e "Best Friend On The Payroll" riescono quantomeno ad alzare la tensione di un disco decisamente troppo prolisso e pretenzioso, dove anche i testi, persi tra rimandi boxistici, culto di sé e istantanee di gioventù allo sbando, non ritrovano la consueta sagacia, finendo col risultare pedanti.

Il notevole coinvolgimento della band nella ricerca di un suono più "corposo" sembra tuttavia preludere a interessanti sviluppi live. E ad accrescere l'attesa giunge la proposta del suo nume David Bowie, che vuole Morrissey come supporter per il suo nuovo "Outside Tour". Ma l'esperienza dura solo dieci date: indispettito dallo scarso supporto promozionale (il suo nome non compare sulle locandine) e dai tiepidi riscontri presso il pubblico del Duca Bianco, Morrissey saluta e se ne va.

E' un periodo di profonda depressione, acuita dai guai legali e dalle continue liti con la stampa. Una causa con Mike Joyce per una royalty degli Smiths lo mette ko, costringendolo a sborsare insieme a Johnny Marr 1.200.000 sterline. La stampa continua a farlo infuriare e nel suo mirino finisce anche l'autore di una "biografia non autorizzata" ("Morrissey & Marr, The Severed Alliance"), l'odiato Johnny Rogan, cui lancerà continui strali e persino auspici di morte!
Così Morrissey arriva a compiere un gesto impensabile per colui che era divenuto il paladino della purezza britannica e dell'antiamericanismo: trasferirsi a Los Angeles, in California.

Nel 1996 il nuovo cambio di casa discografica: ma il sodalizio con la Island durerà solo un anno, il tempo di consumare il flop di Maladjusted. Un disco in cui Morrissey si ripresenta nei panni più sobri di chansonnier pop che meglio gli si addicono. Il ritornello catchy del singolo "Alma Matters" sa effettivamente di realignment. Ma non è solo un ritorno al passato, come testimoniano la paranoica e distorta title track in apertura, le staffilate rock di "Papa Jack" o gli archi pungenti di "Ambitious Outsiders", episodi che forse chiariscono meglio che cosa Southpaw Grammar voleva essere e non è stato.
"Sorrow Will Come In The End" è addirittura uno spoken word su tela classicheggiante, che scaglia dardi avvelenati contro Mike Joyce e il giudice che l'ha condannato, mentre la sardonica "Satan Rejected My Soul" imbastisce l'ennesimo soliloquio all'insegna di un'autocommiserazione che nella ballata anni 50 di "Trouble Loves Me" torna più cupa e seriosa.
Nel complesso, però, è un album che non lascia il segno e che, alla fine di un decennio tormentato, ci consegna un Morrissey stanco, provato dal suo malessere e dal suo stesso, irrefrenabile egocentrismo. Un narcisissimo bastian contrario, che continua a vivere nel mito di se stesso, col rischio di perdere contatto con la realtà (non solo musicale) che lo circonda. 

Le nuove prede del 2000

MorrisseyQuando tutti lo immaginano ormai avviato sul viale del tramonto, consegnato solo all'immancabile trafila di "best of" nostalgici, ecco il clamoroso ritorno del 2004 con You Are The Quarry, che rilancia le quotazioni dell'"ultima popstar" d'Inghilterra, traghettandone il sound nel nuovo millennio.
Morrissey è ancora capace di emozionare con morbide melodie disegnate dalla sua calda voce rassicurante che domina in tutte le dodici tracce, grazie anche a un'essenziale e precisa sezione ritmica, sulla quale trovano riscontro delicate trame di chitarra e tastiere, alternate a distorsioni sature e a un moderato uso di loop e synth. Per nulla scontati i testi delle canzoni: la dialettica di Morrissey è molto incisiva, semplice, diretta e intrisa di ironia. Eloquente in questi termini "America Is Not The World", dove il modello americano all'insegna di libertà e pari opportunità viene messo in discussione, così come Oliver Cromwell e i regnanti inglesi in "Irish Blood English Heart", il singolo power-pop.
In "I'm Not Sorry", Morrissey non rinnega nulla di ciò che ha detto o fatto in passato, mentre in "The World Is Full Of Crashing Bores" (uno dei vertici dell'album) tira in ballo l'opportunismo e la mediocrità che dilagano nel mondo, un tema rivolto in modo specifico ai suoi detrattori in "How Can Anybody Possibly Know How I Feel?". C'è spazio anche per la sensualità di "Let Me Kiss You" e per la commovente introspezione di "Come Back To Camden" (altro pezzo forte della raccolta), mentre stanno nell'irresistibile crescendo di "I Have Forgiven Jesus" alcuni tra i versi migliori dell'album, rivolti direttamente a Gesù Cristo ed esaltati da un'interpretazione magistrale. La travolgente "First Of The Gang To Die", infine, sfodera un refrain da ko immediato, degno dei tempi d'oro degli Smiths.
L'album riesce comunque a centrare l'obiettivo di riportare Morrissey al centro della ribalta pop internazionale dopo quasi sette anni di parziale oblio, grazie anche a un'accurata opera di restyling del suo sound. Il suo nome torna a circolare, anche presso un'ampia fetta di pubblico che, come nel caso dei più giovani spettatori di Mtv, non lo conosceva affatto.

L'anno successivo Morrissey decide di suggellare la ritrovata verve (mai persa nella dimensione live) con un album dal vivo registrato alla Earls Court di Londra, grazie alla preziosa collaborazione di una band che finalmente rende giustizia al passato del cantautore inglese, il quale non sarà più idolatrato come un semidio, ma torna a ricoprire un ruolo di assoluto rispetto nel panorama rock internazionale. Ma in Live At Earls Court non c’è soltanto nostalgia, c’è anche tanto spessore, tanta grinta e tutto il carisma di un personaggio che ha influenzato metà della discografia inglese degli anni 90 e 2000. Le danze vengono splendidamente aperte da “How Soon Is Now?”, ma già la seconda traccia (“First Of The Gang To Die”) ci porta dentro You Are The Querry, rappresentato anche da “I Like You”, “Let Me Kiss You”, “I Have Forgiven Jesus”, “The World Is Full Of Crashing Bores”, “Irish Blood English Heart” e la struggente “You Know I Couldn’t Last”, che anticipa la memorabile conclusiva “Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me”. Le versioni sono molto simili a quelle proposte dalla versione in studio, ma la carica live dona quello slancio in più che giustifica l’operazione, mostrando una band credibile e convincente, oltre che perfettamente a proprio agio nonostante l’ingombrante ruolo di spalla del grande Moz. C’è spazio anche per un outtake di lusso, “Munich Air Disaster 1958”, una delle b-side dell’ultimo album, unita alla citazione di “Subway Train” dei New York Dolls. Non mancano emozionanti ripescaggi dal repertorio Smiths, fra i quali spiccano “Shoplifters Of The World Unite” e “There Is A Light That Never Goes Out”, due all time classic; “Bigmouth Strikes Again” appare invece un pochino al di sotto delle proprie tuttora elevatissime potenzialità. Mancano i primi classici del Moz solista: qui non troverete “Suedehead”, non troverete “Everyday Is Like Sunday” e nemmeno “The Last Of The Famous International Payboys”, come se l’autore si riconoscesse meglio nella sua vita precedente ed in quella attuale decidendo di saltare quasi a piè pari il limbo che c’è stato nel mezzo. Piuttosto preferisce coverizzare la Patti Smith di “Redondo Beach”, scelta anche come singolo portante.


Nel 2006, ecco Ringleader Of The Tormentors, registrato a Roma, con un mostro sacro come Tony Visconti in cabina di regia, desideroso di pronto riscatto dopo l’inenarrabile flop di "Reality", il suo ultimo lavoro con David Bowie. L'ispirazione del nostro prende forma in canzoni complesse come l'acida e cupissima arringa iniziale, "I Will See You In Far Off Places" e la lunga "Life Is A Pigsty", una delle pagine più riuscite e coraggiose della sua carriera solista.
Le canzoni si segnalano, tutte, per la loro perfezione formale. "Dear God Please Help Me", al cui arrangiamento ha contribuito Ennio Morricone, eccede forse in sentimentalismo, ma anche nei momenti meno convincenti (ad esempio l'immancabile ballatona à-la Elvis "I'll Never Be Anybody's Hero Now") a salvare la baracca c'è sempre quella voce, calda e profonda, in grado di emozionare come poche altre.
Peccato che se da un lato Morrissey si mostra ispiratissimo nel costruire il ritornello killer (appunto!) di "You Have Killed Me", splendida, perfetta pop-song saggiamente scelta come singolo apripista, dall'altro canzoni come "The Father Who Must Be Killed" o la conclusiva "At Last I Am Born", per quanto la forma sia, come detto, impeccabile e pure i contenuti non manchino, non riescono a catturare come dovrebbero.
Funzionano meglio brani più diretti e meno ambiziosi come "On The Streets I Ran" e "The Youngest Was The Most Loved", che d'altra parte non fanno che ricalcare il singolo, con solo un po' di brillantezza in meno. E sia il brano più pop, "In The Future When All Is Well", che quello più atmosferico "To Me You Are A Work Of Art", sanno fin troppo di maniera.

Giunto alla soglia dei cinquant'anni (li compirà il 22 maggio), Morrissey sforna il nono album di studio della sua ormai ventennale carriera solista. Years Of Refusal (2009) è rimasto in un cassetto per oltre un anno, con l'eccezione di due canzoni - la classica "That's How People Grow Up" e la ruvida "All You Need Is Me" - uscite sia come singoli che nel "Greatest Hits" del 2008. Il frutto di tale laboriosa gestazione è un album grintoso e diretto, che, pur privo dei picchi raggiunti nei due precedenti lavori, non ha cadute di tono.
Se il primo singolo estratto, "I'm Throwing My Arms Around Paris", è un classico numero à-la Morrissey, in questo caso impreziosito dalla soave tromba di Mark Isham (che suona i fiati anche in altri due brani), il trittico iniziale con la fulminante "Something Is Squeezing My Skull", "Mama Lay Softly On The Riverbed" e "Black Cloud" (sottolineata dalla chitarra di Jeff Beck) è composto da pezzi rock che non sfigurerebbero in alcuno dei lavori di artisti con la metà degli anni del nostro.
L'esuberanza e l'impronta chitarristica, che si ritrovano anche nel già menzionato singolo "All You Need Is Me" e nello straordinario inno al solipsismo "I'm Ok By Myself" sono dovute al fatto che tutte le musiche dell'album sono state composte dai chitarristi della band che da anni lo accompagna (con la recente introduzione di Jesse Tobias). Ma è la ritrovata freschezza di Morrissey a fare da catalizzatore. E non è un caso che il climax si raggiunga nella seconda parte della scaletta, con brani passionali come "It's Not Your Birthday Anymore", che esordisce come una dolce ballata, ma presto si trasforma in uno dei brani più duri dell'intera carriera di Morrissey, e, su tutti, "You Were Good In Your Time", unica vera ballad dell'album e suo vertice emotivo, che racconta del declino di un artista di successo e della fine di una carriera, tema caro a Morrissey sin dai tempi degli Smiths ("Rubber Ring" e "Paint A Vulgar Picture").

Nello stesso anno esce anche Swords, un'antologia di b-sides dei singoli incisi negli ultimi sei anni, selezionati da Morrissey in persona. Due le ospiti d'onore: Kristeen Young impreziosisce "Sweetie Pie", il brano più sinistro del disco, mentre Chrissie Hynde dei Pretenders ha partecipato alla registrazione di "Shame Is The Name", una fotografia senza fronzoli di una generazione che si butta via sballandosi.
Più di una canzone è stata presentata dal vivo in passato: "Don't Make Fun Of Daddy's Voice" è inclusa pure nell'ottimo Dvd "Who Put The M In Manchester?" mentre "Ganglord" (una feroce invettiva contro lo "stato di polizia" a Los Angeles) è stata eseguita per la prima volta in Scozia, a Greenock, nel 2006. "It's Hard To Walk Tall When You're Small", che si rivela un brano al vetriolo contro l'ex-compagno di band Mike Joyce, era finora disponibile su supporto digitale solo negli Usa e "My Dearest Love", in origine il retro di "All You Need Is Me", compare su cdper la prima volta.
Anche stavolta alcuni testi di Morrissey hanno più chiavi di lettura: è il caso delle "Never-Played Symphonies" che possono essere tanto le canzoni scritte e lasciate nel cassetto quanto le persone che Morrissey non ha mai potuto avere, ma anche dell'ambiguo ritratto di "Christian Dior". L'immagine del "Teenage Dad On His Estate" è tenera e allo stesso tempo rappresenta un dito medio alzato contro chi è in grado solo di giudicare; la cronaca dei "Children In Pieces" irlandesi maltrattati nelle scuole è, al contrario, particolarmente cruenta.
Il live a Varsavia dell'edizione deluxe, seppur breve, è energico quanto basta e ci mostra il cantante in buona forma. 

Dopo cinque anni di silenzio discografico, Morrissey mette a tacere per un attimo tutte le polemiche su alcune sue dichiarazioni sul matrimonio tra William e Kate (colpevole secondo il musicista di aver offuscato sui media  la notizia sulla morte di Polystyrene) e sul massacro di animali per soddisfare i carnivori assassini (paragonando i non vegetariani a pedofili o filonazisti) pubblicando World Peace Is None Of Your Business, l’album che annuncia l’ingresso di Morrissey tra i grandi vecchi.
L’agghiacciante attualità della title track non deve far pensare che Morrissey abbia per la prima volta scelto un discorso politico più diretto, storie e immagini sono metafore della sopraffazione del potere: il suicidio della giovane studentessa incapace di soddisfare le attese dei genitori in “Staircase At The University”, il fascino ambiguo del crimine in “Mountjoy”, il sarcastico affondo contro la mascolinità in “I’m Not A Man”, la brutalità dell’uomo contro gli animali in “The Bullfighter Dies”, lo sfruttamento del lavoro nella opprimente “Kick The Bride Down The Aisle”, il rapporto conflittuale tra padre e figlio in “Istanbul” e la malinconica chiosa finale di “Oboe Concerto” mettono in atto una delle rappresentazioni più vivide dell’artista, l’individuo e la sua dignità diventano il fulcro di una visione politica molto più elevata della contrapposizione ideologica.
Ancor più interessante questa volta  è la veste sonora che incornicia il tutto, Morrissey lascia spazi più ampi ai suoi musicisti ed esplora variegate fonti di contaminazioni che vanno dal tex mex ai paesi arabi, anche se tra i landscape noise misto a flamenco di “Neal Cassady Drops Dead” e le trombe mariachi di “Kiss Me A Lot” (un titolo che volontariamente traduce il classico “Besame Mucho”)  si nascondono le tentazioni più hard-rock della sua carriera.
Per la prima volta il musicista gioca con il suo passato, affonda le mani nel britpop in “Staircase At The University” consegnando il riff a un malinconico oboe, e ci regala un prezioso gioiellino acustico (“Mountjoy”) che si incastra istantaneamente nella lista dei suoi classici, ma è il continuo e vorticoso cambio di registro e di lirismo etnico (ritmi latini, fisarmoniche in stile francese, atmosfere spagnole) di “Earth Is The Loneliest Planet” il manifesto più esplicito dello stile attuale del Moz, un groove dove tutti gli elementi pop della sua carriera diventano il tessuto dove dar spazio a melodie più mature e coese di un tempo.
Il decimo capitolo solista non è un semplice affair discografico ma una testimonanzia vivida e potente di uno dei più lucidi autori del nostro tempo, non avete mai ascoltato un Morrissey così raffinato e intenso dai tempi di “Everyday Is Like Sunday” come nella malinconica “Kick The Bride Down The Aisle” o romantico e sereno come nella conclusiva “Oboe Concerto”, ed è difficile restare indifferenti alle leggere tentazioni prog della lunga “I’m Not A Man” o all’energico incedere delle chitarre di “Istanbul” (quasi una novella “How Soon Is Now”), o al noir da crooner della magica e quasi macabra “Smiler With Knife” (non la troverei fuori luogo in un album di Scott Walker), World Peace Is None Of Your Business ripropone la centralità culturale di Morrissey ponendolo definitivamente tra i grandi poeti del malessere del secondo millennio.

A tre settimane di distanza della pubblicazione dell'album, Morrissey annuncia di aver concluso il suo rapporto con la Harvest, a causa del rifiuto dell'etichetta di realizzare un video per la canzone "World Peace Is None Of Your Business".
Nel frattempo il musicista non smette di far parlare di se, prima rivelando che da più di un anno e mezzo si sta sottoponendo ad operazioni e cure, essendo malato di tumore, poi pubblicando il suo primo romanzo "List Of The Lost" per la Penguin, casa editrice che aveva già precedentemente diffuso la sua autobiografia.
L'uscita del film "England Is Mine" (2017), che ripercorre la vita del giovane Patrick e la sua carriera con gli Smiths, non viene ufficialmente autorizzata dal musicista, mentre le cronache nostrane registrano un vivace botta e risposta con la Polizia italiana in seguito ad un controllo effettuato dagli agenti mentre percorreva via del corso a Roma a tutta velocità e contromano.
Dopo aver annullato la tournée italiana, Morrissey annuncia l'uscita di un nuovo album per il 2017, anticipato dal singolo "Spent The Day In Bed".

Il progetto è il più ambizioso, controverso e confuso del musicista inglese, un challenger da luna park che lascia storditi e stupiti ad ogni giro d’ascolto, soprattutto per le preminenti argomentazioni politiche.
Dopo il divorzio con Alain Whyte, la sua scrittura si è ancor più appesantita e imbolsita, quasi come se l’autore volesse trasferire in musica la confusione politica e sociale che è infine il cardine creativo di Low In High School (2017).
Non stupisca l’apparente tono reazionario di alcune esternazioni, stiamo parlando di colui che senza timore ha urlato il suo odio per la Thatcher nella canzone “Margaret On The Guillotine”. Il sostegno politico per la candidata anti-islam Anne Marie Waters e le esternazioni positive nei confronti di Marine Le Pen e Nigel Farage hanno creato senza alcun dubbio molta avversione tra la critica inglese, mentre il recente incidente diplomatico con la polizia italiana ha suscitato polemiche e accuse di arroganza e presunzione, che non hanno giovato alla sua immagine presso il pubblico nostrano.
Ma quando le note di “My Love, I’d Do Anything For You” riempiono il vuoto che fa seguito ai succitati pensieri, tutte le argomentazioni ideologiche si fanno amabilmente accantonare, l’esuberanza del possente glam-hard-rock-sinfonic (azzardo un paragone con Meat Loaf) non lascia dubbi, Low In High School è un album  indisponente e ambiguo, ogni brano offre una doppia chiave di lettura: una piacevole e una disturbante. Al di là delle feroci critiche inglesi (quella di The Quietus include cento volte la parola fucking), questo è l’album più ricco di potenziali singoli da classifica, a partire dalla deliziosa “Jacky’s Only Happy When She’s Up On The Stage” che si avvale di un assolo di tromba, oltreché del testo più ironico e riuscito.
L’altro singolo che ha anticipato l’album, “Spent The Day In Bed”, non solo è una delle canzoni più melodicamente affabile degli ultimi anni, ma nel contesto dell’album suona ancor più incisiva, graziata dalla stessa leggerezza di “I Wish You Lonely”, un altro brano che aveva anticipato l’altra peculiarità timbrica dell’album, ovvero quel delizioso suono di tastiere stile Roxy Music, che insieme all’uso più intenso dell’orchestra e dei fiati sono la vera novità timbrica di questo progetto. 
A questo punto diciamo la verità: quello che è forse più duro da accettare è che anche Steven Patrick Morrissey sia giunto alla soglia della maturità, e sono senza dubbio i suoi 58 anni i veri protagonisti delle acrobazie da crooner della romantica “Home Is A Question Mark” (forse il brano migliore dell’album), e senza dubbio sono la fonte dell’ambiziosa “I Bury The Living”, la quale scivola verso toni gotici da rock-opera leggermente pretenziosi.
Che Low In High School sia un disco bifronte lo si evince anche dalla netta separazione tra le due facciate, infatti con il delicato e notturno duetto tra piano e voce di “In Your Lap” si entra in una dimensione più crepuscolare, quasi notturna e a tratti esotica, con atmosfere che a tratti ricordano alcune cose di Marc Almond era-Marc and The Mambas, come la già citata “In Your Lap” e il tocco di flamenco di “The Girl From Tel-Aviv Who Wouldn’t Kneel”. Ed è proprio da questo tentativo di rigenerazione che nascono alcune interessanti intuizioni liriche dell’ultimo Morrissey, come l’amabile “All The Young People Must Fall In Love”, una ballata acustica alla “Give Peace A Change” che frantuma il tono serioso del disco aprendo le porte all’altra piccola delizia melodica dell’album, ovvero il tango di “When You Open Your Legs”, sottolineato con intelligenza e gusto da orchestra e fiati.
Meno riuscito il pasticcio di synth di “Who Will Protect Us From The Police?” che come nella più intensa “Israel” resta leggermente schiacciata dal peso delle parole.

Oscurato da una produzione a volte sovrabbondante, Low In High School resta comunque uno dei capitoli più difficili da digerire del suo catalogo, ma mai come ora Morrissey sembra  a suo agio nel raccontare le sue perplessità, la band è perfettamente allineata con le esigenze del musicista e a suo modo questo è un album fortemente ispirato, e forse non va sottovalutata la sua capacità di cogliere in anticipo il tormento sociale della working class.
Piaccia o non piaccia, questa strisciante deriva reazionaria va osservata con attenzione e senza inutile sarcasmo, e forse Low In High School contiene più di una chiave d’accesso e di lettura del nostro turbolento presente ideologico.

Anticipato da un gesto simbolico che ha indispettito ancor di più la critica (un esibizione in televisione con in bella mostra una spilla del partito di estrema destra For Britain), Morrissey saluta l'arrivo dei 60 anni con un album di cover version.
Non sorprende che l’artista abbia affidato a un brano di Roy Orbison (“It’s Over”) il primo estratto del disco, e che ad aprire California Son sia una eccellente versione di un brano di Jobriath “Morning Starship”: due punti di riferimento stilistici ben noti ai fan del musicisti.
La sorpresa più rilevante è invece quella concernente la presenza di molte autrici femminili, una scelta che sembra smentire la ben nota misoginia di Moz. Una rispettosa e piacevole lettura di un brano di Joni Mitchell (“Don't Interrupt The Sorrow”), una potente versione di “Suffer The Little Children” di Buffy Sainte-Marie (il titolo ovviamente a molti ricorderà un brano degli Smiths), riconciliano l’immagine del musicista con la sensibilità femminile, ma è la superba interpretazione di “Some Say I Got Devil” di Melanie a stupire, al punto da sembrare scritta dallo stesso Morrissey in stato di grazia.
Sul versante ideologico e politico l’album offre ulteriori spunti di riflessioni, un brano di Phil Ochs reso gentile e grazioso “Days Of Decisions”, e un’affilata versione di “Only A Pawn In Their Game” di Bob Dylan, mescolano le carte quasi a smentire le recenti prese di posizione politiche. Fa storia a sé la sofferta “Lenny’s Tune” che Tim Hardin dedico a Lenny Bruce.
Una lunga lista di ospiti di rilievo, e la natura pop di canzoni come “Wedding Bell Blues” (un brano di Laura Nyro portato al successo dai 5th Dimension) e “When You Close Your Eyes” di Carly Simon, confondono ancor di più le acque.
Il coro di dissensi critici che si è sollevato non lascia comunque molte speranze (Exclaim

1/10, The Guardian 2/10, Independent 4/10), la redenzione di Morrissey è rimandata a data di destinarsi, mentre dal punto di vista musicale non può essere taciuta la sapiente scelta delle canzoni incluse nel progetto, sottolineando il gusto middle of the road che colloca California Son a metà strada tra "These Foolish Things" di Bryan Ferry e "Reload" di Tom Jones, ma anche "Pin Ups" di David Bowie, con tutti i pregi e difetti che ne conseguono.

A far strada al tredicesimo album di Morrissey, è la tregua politica ed il rinnovato sodalizio con il produttore Joe Chiccarelli, quest'ultimo abile nel sottoporre l'autore ad un continuo tour de force creativo, stimolandone il consolidato stile di scrittura con argomentazioni stilistiche inedite e attuali. Il rinnovamento estetico funziona in parte e il fulgore di I Am Not A Dog On A Chain nasconde qualche crepa.
Non è un caso che “The Secret Of Music” assomigli ad un potenziale brano a quattro mani scritto da Eric Clapton e Phil Collins, o che il riff alla Johnny Marr di “Once I Saw The River Clean” resti avvinghiato ad un suono euro-disco alla Pet Shop Boys, segnali rilevanti di una professionalità che ha preso il posto di quell’imprevedibilità che ancora aleggiava nel pur discontinuo Low In High School.
Ironia della sorte I Am Not A Dog On A Chain è, nonostante tutto, l’album più sorprendente e piacevole per chi da tempo ne aveva abbandonato le peripezie musicali. L’alternanza tra deja-vu e tentazioni di rinnovamento, scandisce i tempi di un disco il cui unico vero difetto risulta essere la piacevole prevedibilità di alcuni brani che, se avessero fatto parte dei primi album solisti di Morrissey noi tutti avremmo gridato al miracolo (“What Kind Of People Live In These Houses?”, “Knockabout World” e la title track).

E’ comunque un Morrissey sopra le righe quello di I Am Not A Dog On A Chain, a volte sull’orlo della mediocrità “Darling, I Hug A Pillow”, ed un istante dopo pronto a sfornare una delle melodie più ambiziose e raffinate del suo repertorio, ovvero quella sontuosa e corale “My Hurling Days Are Done”, che nel concludere le danze lascia un senso di ammirazione misto a insicurezza, una dicotomia che diventa sempre più rilevante nell’evoluzione di un personaggio divisivo e intrigante come pochi.

Ben lungi dall'arrendersi, insomma, l'artista mancuniano si dimostra ancora combattivo, sicuro di sé e sufficientemente ispirato. Sulla cresta dell'onda da un quarto di secolo, con uno zoccolo duro di adoranti seguaci di ogni sesso, età e provenienza socio-geografica, può ancora giocare a definirsi, parafrasando una sua celebre canzone, "the last of the famous international popstars".

Contributi di Massimiliano Severi ("You Are The Quarry"), Claudio Lancia ("Live At Earls Court"), Mauro Roma ("Ringleader Of The Tormentors"), Francesco Amoroso ("Years Of Refusal"), Alessandro Liccardo ("Swords"), Gianfranco Marmoro ("World Peace Is None Of Your Business", "Low In High School", "Californis Son", "I Am Not A Dog On A Chain")

Bibliografia

Daniele Cianfriglia - Morrissey & The Smiths. Gli Ultimi Inglesi (Stampa Alternativa/ Nuovi Equilibri, 2007)

Smiths - Morrissey

Discografia

THE SMITHS

The Smiths (Rough Trade, 1984)

7

Hatful Of Hollow (antologia, Rough Trade, 1984)

Meat Is Murder (Rough Trade, 1985)

6,5

The Queen Is Dead (Rough Trade, 1986)

8

The World Won't Listen (antologia, Rough Trade, 1987)

Louder Than Bombs (antologia, Sire, 1987)

Strangeways, Here We Come (Rough Trade, 1987)

7

Rank (live, Wea, 1988)

The Smiths Best, I & II (antologia, Wea, 1992)

8

Singles (antologia, Wea, 1995)

The Sound Of The Smiths (antologia, Rhino, 2008)

MORRISSEY

Viva Hate (Parlophone, 1988)

6,5

Bona Drag (antologia, EMI, 1990)

7

Kill Uncle (Parlophone, 1991)

5

Your Arsenal (Parlophone, 1992)

7

Vauxhall And I (Parlophone, 1994)

6,5

World Of Morrissey (antologia, Parlophone, 1995)

Southpaw Grammar (RCA, 1995)

5,5

Maladjusted (Island, 1997)

5

Suedehead: The Best Of Morrissey (antologia, EMI, 1997)

My Early Burglary Years (antologia, Reprise, 1998)

You Are The Quarry (Attack Records, 2004)

7

Live At Earls Court (live,Sanctuary, 2005)

6,5

Ringleader Of The Tormentors (Attack Records, 2006)

6,5

Greatest Hits (antologia, Decca, 2008)

Years Of Refusal (Polydor, 2009)

7

Swords (antologia, Polydor, 2009)

7

The Very Best Of Morrissey (antologia, Major Minor, 2011)

World Peace Is None Of Your Business (Harvest/ Virgin, 2014)

7,5

Low In High School (Bmg, 2017)

7

California Son(Bmg, 2019)

6

IAm Not A Dog On A Chain(Bmg, 2020)

6,5

Pietra miliare
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 VIDEO
  
 Smiths
  
Hand In Glove (esibizione a The Tube, 1984)
How Soon Is Now? (videoclip, 1984)
Bigmouth Strikes Again (esibizione alla Bbc, 1986)
The Boy With The Thorn In His Side (esibizione a Top Of The Pops, 1986)
There Is A Light That Never Goes Out (esibizione alla EuroTube, 1986)
Panic (video da The World Won't Listen, 1986)
Ask (video da The World Won't Listen, 1986)
Stop Me If You Think You've Heard This One Before (video da Strangeways, Here We Come, 1987)
  
 Morrissey
  
Everyday Is Like Sunday (videoclip, da Viva Hate, 1988)
Suedehead (videoclip, da Viva Hate, 1988)
The Last Of The Famous International Playboys (videoclip, da Bona Drag, 1990)
You're The One For Me, Fatty (videoclip da Your Arsenal, 1992)
The More You Ignore Me, The Closer I Get (videoclip, da Vauxhall And I, 1994)
Alma Matters (videoclip, da Maladjusted, 1997)
The First Of The Gang To Die (live a Glastonbury, da You Are The Quarry, 2004)
The Youngest Was The Most Loved (videoclip, da Ringleader Of The Tormentors, 2006)
That's How People Grow Up (videoclip, da Years Of Refusal, 2009)