Sono passati esattamente vent’anni da quando gli Smiths riempivano di analisi introspettive e di testi sul disagio adolescenziale gli scaffali dei negozi di dischi, amati in maniera folle da chi non riusciva ad identificarsi con l’edonismo reaganiano, la Milano da bere ed il look prima di tutto.
“The Queen Is Dead” resta uno dei manifesti più limpidi del malessere giovanile di quel periodo, malessere che solo il grunge (ma qualche anno dopo) riuscì a descrivere in maniera più cruda e disperata.
Dopo il disgraziato scioglimento sancito nel 1987 dal magnifico epitaffio “Strangeways Here We Come”, Morrissey intraprese una carriera solista che mai lo ha riportato ai livelli smithsiani, fra gli alti e bassi di lavori quasi mai memorabili.
Lo scorso anno “You Are The Quarry” è stato giudicato da molti come il miglior lavoro di Morrissey senza gli storici compagni, un disco compatto e riuscito sia dal punto di vista musicale che lirico, apprezzato sia dai fan di vecchia data che dalle giovani leve.
Morrissey ha così deciso di suggellare la ritrovata verve (mai persa nella dimensione live) con un album dal vivo registrato alla Earls Court di Londra, grazie alla preziosa collaborazione di una band che finalmente rende giustizia al passato del cantautore inglese, il quale non sarà più idolatrato come un semidio, ma torna a ricoprire un ruolo di assoluto rispetto nel panorama rock internazionale.
Uno di quegli artisti dei quali fa piacere sapere che c’è un disco in uscita semplicemente perché non si può rinunciare ad ascoltare la sua voce, come ad esempio accade anche per Chris Cornell o per Billy Corgan, ugole singolari ed uniche.
Ma qui non c’è soltanto nostalgia, c’è anche tanto spessore, tanta grinta e tutto il carisma di un personaggio che ha influenzato metà della discografia inglese degli anni 90 e 2000.
Le danze vengono splendidamente aperte da “How Soon Is Now?”, ma già la seconda traccia (“First Of The Gang To Die”) ci porta dentro “You Are The Querry”, rappresentato anche da “I Like You”, “Let Me Kiss You”, “I Have Forgiven Jesus”, “The World Is Full Of Crashing Bores”, “Irish Blood English Heart” e la struggente “You Know I Couldn’t Last”, che anticipa la memorabile conclusiva “Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me”.
Le versioni sono molto simili a quelle proposte dalla versione in studio, ma la carica live dona quello slancio in più che giustifica l’operazione, mostrando una band credibile e convincente, oltre che perfettamente a proprio agio nonostante l’ingombrante ruolo di spalla del grande Moz.
C’è spazio anche per un outtake di lusso, “Munich Air Disaster 1958”, una delle b-side dell’ultimo album, unita alla citazione di “Subway Train” dei New York Dolls.
Non mancano emozionanti ripescaggi dal repertorio Smiths, fra i quali spiccano “Shoplifters Of The World Unite” e “There Is A Light That Never Goes Out”, due all time classic; “Bigmouth Strikes Again” appare invece un pochino al di sotto delle proprie tuttora elevatissime potenzialità.
Mancano i primi classici del Moz solista: qui non troverete “Suedehead”, non troverete “Everyday Is Like Sunday” e nemmeno “The Last Of The Famous International Payboys”, come se l’autore si riconoscesse meglio nella sua vita precedente ed in quella attuale decidendo di saltare quasi a piè pari il limbo che c’è stato nel mezzo.
Piuttosto preferisce coverizzare la Patti Smith di “Redondo Beach”, ma a questo punto avremmo tutti preferito ascoltare qualcosa in più di suo, reclamando magari per l’assenza di “Come Back To Camden” (uno dei piccoli miracoli di “You Are The Quarry”) o di “I Know It’s Over”.
11/06/2013