"Tutta la mia rabbia, la mia amarezza, la mia tristezza del tempo sono contenute in questo disco. La dipendenza, il vuoto, la nera disperazione, le relazioni burrascose, le droghe e l'allontanamento dal business discografico: tutto si riversava in quelle incisioni. Ai miei occhi l'album descrive un artista che urla a squarciagola, sperduto, offeso, che alza il dito medio contro chiunque e qualsiasi cosa. È un cabaret deforme della mia vita qual era stata fino ad allora. È un Grand Guignol".Non è sempre facile gestire la fama quando arriva all'improvviso. O almeno, non lo fu per nulla per l'allora ventiseienne Marc Almond, catapultato da un momento all'altro nel firmamento da una parte all'altra dell'Oceano grazie a una cover northern-soul ("Tainted Love", con oltre dieci milioni di copie vendute e un record di quarantatré settimane di permanenza in classifica negli Stati Uniti) che inizialmente sembrava giusto l'ultima chance della Phonogram dopo un singolo, "Memorabilia", che funzionò piuttosto bene nei dancefloor ma male tra il grande pubblico. Mentre i dischi con i Soft Cell scalavano le chart, i demoni interiori del fragile artista di Southport lo spingevano a sperimentare con tutte le droghe possibili, dall'ecstasy agli acidi fino all'eroina - protagonista, quest'ultima, di molte sessioni di registrazione del doppio album "Torment and Toreros", il secondo registrato con l'eccentrico collettivo dei Mambas.
(Marc Almond, "Tainted Life")
Il dandy ambiguo con base a Soho a questo punto della sua vita e della sua carriera vuole essere tanto una popstar quanto un artista credibile agli occhi del pubblico colto e alternativo, esplorare nuovi territori, comporre con nuovi compagni di viaggio e rimescolare le carte anche sul terreno delle cover. Ecco che Marc and the Mambas diventa la concretizzazione della doppia vita del cantante, partendo da quello stesso istituto d'arte a Leeds in cui conobbe il sodale Dave Ball e in cui già scrisse gli embrioni di brani come "Fun City" - inizialmente destinato solo ai fan, poi reinciso con i Soft Cell per una b-side - e "Twilights and Lowlifes" per arrivare alle tinte gotiche e spagnoleggianti di un disco definito spesso un vero e proprio guazzabuglio, da una critica mai troppo benevola e da Marc in persona.
I Mambas nascono come un supergruppo tanto dinamico quanto amorfo, con collaboratori che entrano ed escono dopo aver dato il proprio contributo alle registrazioni: in prima fila insieme ad Almond c'è Matt Johnson dei The The, altro nome di punto della scuderia della Some Bizarre di Stevo Pearce, senza dimenticare il violoncellista Martin McCarrack (in seguito accanto a Siouxsie and the Banshees, Therapy? e This Mortal Coil), la pianista e tastierista Annie Hogan che co-firma alcune delle migliori pagine del lavoro e i contributi alle percussioni di Peter Ashworth (The The) e del genio folle di James Thirlwell, noto ai più come Foetus ma qui accreditato con lo pseudonimo Frank Want. A completare il pazzo ensemble ci sono Billy McGee al basso - una presenza costante nella vita artistica di Almond fino ad "Enchanted" - e il duo di violiniste Anne Stephenson e Gini Hewes che finiranno di lì a poco a lavorare con Siouxsie e, oltre dieci anni più tardi, con i Manic Street Preachers nei loro album più commercialmente fortunati.
"Torment and Toreros" richiama sin dal titolo e dalla copertina a cura della visual-artist e musicista Val Denham la cultura spagnola, quella delle poesie di Federico García Lorca, dei dipinti di Salvador Dalì e delle canzoni sentimentali di Carmen Amaya (che qualche anno dopo sarà citata in "The Room Below", dall'album "Mother Fist and Her Five Daughters"), così come quella del flamenco, dell'assenzio da bere allo storico bar Marsella di Barcellona e del crudele fascino della corrida. Suggestioni che non nascono da uno studio approfondito della materia, ma che conferiscono decisi connotati europei al goth targato Mambas - il tutto rievocando tradizioni in un momento storico in cui la Spagna post-franchista guarda avanti col piede sempre sull'acceleratore, con l'esplosione di un sottobosco artistico in cui si inserisce un disegnatore come Nazario (un cui disegno finisce su una copertina di un live di Lou Reed e la cui striscia "Anarcoma", con protagonista un supereroe transessuale, diventa oggetto di una b-side di Almond del 1987) e di nuovi fenomeni (allora synth-)pop come i Mecano, più di altri considerati portabandiera della movida madrilena degli anni Ottanta.
C'è la Spagna rievocata da Jacques Brel nella sarcastica e profetica "Les toros" (che qui diviene, in inglese, "The Bulls") così come nel finale, assurdo ed eccitante, affidato a "Beat Out That Rhythm On a Drum" - una rielaborazione di una canzone gitana della Carmen di Bizet a cura di Oscar Hammerstein II per il musical di Broadway "Carmen Jones" del 1943. Ma non solo lì risiede il cuore viandante del gruppo: uno tra gli episodi più intensi è una cover di "Vision" di Peter Hammill, la voce dei Van Der Graaf Generator che registrò il brano per "Fool's Mate", all'interno di un medley che comprende anche "Gloomy Sunday", ed è tanto inglese quanto con i piedi ben saldi sul presente il singolo "Torment", firmato da Almond insieme a Robert Smith dei Cure e Steve Severin dei Banshees (i due nel 1983 sono attivi anche nel side-project The Glove). Impossibile non riconoscere lo zampino di Foetus nella caotica "A Million Manias", al tempo stesso camp e sinistra (una colonna sonora perfetta per un cartone animato horror, una versione attualizzata della Skeleton Dance disneyana di parecchi decenni addietro) e non notare il talento compositivo della Hogan in "Black Heart", singolo di lancio del doppio Lp. Non è forse la hit su cui la Phonogram nutriva speranze, ma funziona bene in radio: i pochi singoli estratti regalano ai fan delle outtake di ottimo livello, come "Your Aura" e "You Never See Me On a Sunday", presenti all'interno della ristampa giapponese Universal del 2004.
Marc Almond nel 1982 e nel 1983 è un fiume in piena. Ha mille idee per dischi diversi tra loro, e il fatto che gli uffici della Some Bizarre siano proprio sopra il Trident Studio in cui David Bowie aveva registrato i suoi primi dischi e John Lennon aveva inciso "Imagine" lo portano a metterle spesso su nastro. Ma se a detta del cantante stesso "Untitled" del 1982 è un'opera fuori fuoco, con molte pecche (Paul Buckmaster ha curato l'arrangiamento degli archi in "Big Louise", cover di Scott Walker, ma i musicisti perdevano la pazienza in studio per colpa della traccia vocale registrata senza metronomo) e canzoni che vanno avanti troppo a lungo senza un ritornello o un degno hook, "Torment and Toreros" è un concept assai meno sfilacciato, in cui si ritrovano ironia, tentativi di esorcismo dei demoni del passato e della rabbia che emerge anche nelle liti durante le relazioni amorose e la consueta attenzione verso temi come la perdita dell'innocenza (nella toccante "First Time" in primo luogo).
"The Untouchable One", cantata con la gola secca come effetto dell'assunzione di anfetamine, anticipa Marilyn Manson di una decina d'anni abbondante, mentre "My Little Book of Sorrows" fa già vedere chiaramente le inclinazioni teatrali dei dischi incisi con i Willing Sinners tra il 1984 e il 1987. A tenere il tutto sotto controllo è il giovane Flood, che dà tutto se stesso nelle session che si svolgono di notte e si accontenta di dormire poche ore sul divano in studio durante le pause: ancora non è l'affermato produttore degli U2, di Nick Cave, dei Depeche Mode, degli Erasure e di PJ Harvey, e più di qualcuno non si mostra particolarmente felice del risultato finale. Per esempio Steven Severin, che si prenderà la libertà di dire ciò che pensa a quattr'occhi al nostro durante una festa dedicata ai Banshees. "Sei troppo un bersaglio per gli stronzi", gli dice. "Dovresti prenderti una pausa, pensare a te stesso". Ma Marc è categorico, e per mantenere la passione delle sue performance vocali intatta decide che in ogni caso dovrà essere buona la prima; in più, fatta eccezione per le percussioni di Foetus e Ashworth, il grosso del lavoro lo fa una drum machine per evitare un suono "troppo rock".
Anche con la Phonogram, che si ritrova un doppio album tra le mani con a malapena un 45 giri da lanciare, ci sono frizioni continue - anche perché Almond insiste a volerlo mettere in commercio al prezzo di un singolo Lp rinunciando, se necessario, a una parte delle royalty. Registrando senza sosta, Marc riesce per qualche settimana a mettere la sordina ai propri problemi, che però riaffiorano inevitabilmente e con prepotenza la settimana in cui esce "Torment and Toreros". L'artista è infatti perennemente isterico e infastidito, vede ogni critica al disco come un attacco personale e arriva a presentarsi vestito di pelle nera e con una frusta in mano nella redazione del Record Mirror, lasciando tutti ad assistere alla scena a bocca aperta. "Patetico, scrivi ancora qualcosa su di me e ti uccido", urlerà diretto a Jim Reid della redazione, reo di aver definito le sue canzoni "noiose" in una recensione che neppure era particolarmente negativa. A un altro giornalista, che definiva in un suo pezzo i fan di Almond come "un pubblico di esibizionisti effeminati e mezze cartucce", arriva invece un cartoccio con del fegato crudo (e prontamente la risposta al cantante è una banana, o meglio, un omaggio a quel "babbuino" del suo consulente creativo). L'artista è a pezzi, si sente accerchiato e ne ha abbastanza al punto tale da fargli annunciare alla stampa il proprio prematuro ritiro dalle scene e dal mondo della musica.
Dopo "This Last Night In Sodom", l'album del 1984 dei Soft Cell, non ci sarebbe stata infatti più alcuna sua canzone. Neanche a dirlo, la promessa non sarà mantenuta e dopo aver sbollito la rabbia (passano tre giorni, non di più) il nostro è di nuovo combattivo e annuncia il suo ritorno lanciando rose di seta nera ai fan dalle finestre della Some Bizarre. "Torment and Toreros" è un disco-chiave per la carriera di Marc Almond, tanto quanto "Non Stop Erotic Cabaret". Meno conosciuto, senza dubbio più ostico e complicato da decifrare, rivela particolari nuovi ad ogni ascolto e nonostante le sue imperfezioni e certe ingenuità, la produzione ha mantenuto fascino e freschezza. Antony Hegarty, uno tra i più devoti seguaci del cantante inglese, gli ha chiesto nel 2012 di rieseguire il doppio album per intero dal vivo e altri due fan neanche troppo insospettabili, come Brett Anderson e Bernard Butler, hanno ammesso che "Dog Man Star" dei Suede è stato in parte ispirato da questo strano magnum opus dei Mambas.
Forse non è un caso che subito dopo aver ricantato l'intero "Torment" dal vivo il buon McCarrick sia tornato in sala d'incisione con Marc per il singolo "Burn Bright" del 2013, prodotto da Tony Visconti, e che sia tra i musicisti di "The Velvet Trail" del 2015: un segno che forse Almond ha finalmente fatto pace col suo passato, dopo i giudizi fin troppo spietati espressi all'interno dell'autobiografia "Tainted Life" (così come quello nei confronti dell'interessante e altrettanto imperfetto "periodo francese" di "Jacques" e "Absinthe"). È sempre più raro trovare un artista mainstream che si mette in gioco con un progetto tanto lontano dalle aspettative di qualunque discografico e qualsiasi fan. Ma in fondo già nel 1981 si sapeva che Almond non era un cantante come tutti gli altri.
(29/03/2015)