Suede

Suede

Una resurrezione glam

Tra i pionieri dell'epopea britpop, i londinesi Suede hanno il merito di aver recuperato approccio e fascinazioni del glam-rock quando quest'ultimo era ormai fuorilegge. Esercitando un'influenza non trascurabile su una nuova generazione di band e gettando le basi per la decisiva maturazione del pop-rock contemporaneo "made in Uk". Ascesa, caduta e resurrezione di Brett Anderson e soci

di Francesco Giordani

Premessa

 

Britpop sì. Britpop no. A più di quindici anni dalla rapida esplosione (e dall'altrettanto rapida implosione) di quello che si può considerare l'ultimo grande fenomeno musicale di massa legato in qualche modo al "rock", il dilemma continua a riproporsi tragicamente irrisolto. È legittimo o storicamente giustificato concedere il diritto di cittadinanza al britpop in un ipotetico pantheon dei generi musicali storicizzati accanto a beat, country, folk, psichedelia, hard-rock, glam, punk, grunge etc.? Fu solo riciclaggio e revival di abusati luoghi comuni? Si trattò di un fenomeno musicale autentico, dotato di sue specifiche movenze stilistiche e di nuovi contenuti sociali, capace di imporre un proprio lessico e una propria sintassi originale, ampliando così le possibilità espressive del linguaggio rock? Oppure avevano ragione tutti quegli scettici che all'epoca lo considerarono (e ancora lo considerano) una colossale macchinazione mediatica finalizzata a rilanciare la moribonda musica britannica in ambito internazionale, dopo anni di egemonia americana incontrastata?
Probabilmente non si perverrà mai a un accordo, resta tuttavia difficilmente contestabile l'incidenza che i gruppi britpop hanno, in negativo o in positivo, esercitato su tutta la produzione rock successiva (tanto popolare e melodica quanto più indipendente e, quel che più conta, non solo europea). Molte sono le band che andrebbero attentamente riconsiderate alla luce di uno sguardo più sereno e meno diffidente, anche e soprattutto per capire in modo più compiuto le ragioni estetiche di tanti gruppi, anche importanti, dell'ultima generazione, che sono cresciuti e si sono formati all'ombra del piccolo "mito" di quel minuscolo segmento della storia musicale inglese.

 

Ed è forse giunto finalmente il momento di rivalutare appieno il peso e l'importanza di uno degli astri più fulgidi e appartati di quell'effimero firmamento: i Suede. Un gruppo rilevante, che dimostra in modo inequivocabile come il britpop fosse un fenomeno molto più frastagliato e divergente dal punto di vista formale di quanto si possa oggi ritenere. È infatti abitudine ormai consolidata da parte di certa critica associare il britpop ai Beatles e schiacciare così tutti i gruppi del movimento sotto quell'ingombrante (e piuttosto generico) paradigma estetico. Ebbene, la novità dei Suede risiede anche nel fatto che la loro esperienza si situa all'interno di un orizzonte stilistico e culturale molto più complesso, che trova il proprio baricentro formale in un recupero e in una decisa riattualizzazione del glam e del magistero di uno degli indiscussi protagonisti della musica pop inglese: David Bowie. Dal Duca Bianco i Suede fanno derivare un approccio intellettuale e dandistico, la fondamentale importanza attribuita all'immagine, intesa come componente attiva e decisiva della propria musica e del suo spettacolo, e un certo gusto barocco e teatrale nell'intonazione e negli arrangiamenti.
Questo il punto di partenza dei Suede arricchito poi da numerose altre influenze non meno determinanti: la tenera e struggente melanconia dei T. Rex di Marc Bolan, rivisitata attraverso un impianto retorico e scenografico che forse ricorda i primi Queen; l'estro melodico febbricitante dei Cure, abilmente mescolato alle tinte fosche di un malessere metropolitano in bilico tra decadentismo francese e Velvet Underground, unita però a suggestive fascinazioni new romantic. Senza poi dimenticare l'indispensabile contributo offerto dagli Smiths di Steven Morrissey, dai quali i Suede mutuano una scrittura disinibita e aguzza, capace talvolta di graffiare e dare scandalo facendo dono di sé e della propria fragile nudità, provocatoriamente esibita e raccontata.

Gli esordi e l'immediato successo

 

La storia dei Suede comincia a Londra alla fine degli anni Ottanta per iniziativa del cantante Brett Anderson, all'epoca studente di architettura, e del bassista Mat Osman. Il progetto acquista consistenza quando ad essi si aggiungono l'allora studente di storia Bernard Butler (contattato tramite un annuncio sull'Nme), abile chitarrista nonché violinista e pianista, e la seconda chitarra Justine Frischmann (compagna di Brett e futura fondatrice delle Elastica). Completa l'organico il batterista Simon Gilbert che si aggrega soltanto nell'estate del 1991. Prendono così vita i Suave and Elegant.
Il gruppo non ha tuttavia nemmeno il tempo di registrare un pezzo che subito Justine Frischmann abbandona la band (forse per screzi con Butler), ma prima suggerisce un nuovo nome per il progetto: Suede (ispirato al Morrissey di "Suedehead"). I Suede avviano così un'intensa attività concertistica premiata da un sorprendente successo di pubblico che porta il gruppo sulla copertina del Melody Maker come "The Best New Band in Britain" senza aver inciso ancora nulla.

Il debutto discografico arriva nel maggio 1992 con il singolo "The Drowners", seguito nel settembre dello stesso anno da "Metal Mickey", entrambi prodotti e distribuiti dalla neonata Nude Records, fondata da Saul Gapern, per la quale i Suede hanno nel frattempo firmato un contratto di esclusiva. L'album vero e proprio, intitolato semplicemente Suede, arriva però soltanto nell'aprile del 1993, preceduto a febbraio dal singolo "Animal Nitrate", e schizza immediatamente ai vertici delle classifiche anglosassoni come non accadeva a un gruppo rock inglese da moltissimo tempo: i Suede vengono contesi a suon di copertine dalle principali riviste britanniche come nuova icona della trasgressione giovanile, la loro musica calamita l'attenzione e l'entusiasmo di un pubblico sempre più vasto e febbrile, la retorica mai sopita dell'imperialismo britannico ha finalmente trovato i suoi nuovi eroi nazionali.
Siamo, come detto, agli inizi del 1993 e può benissimo essere considerata questa la data di inizio ufficiale del fenomeno britpop.

In realtà, il disco non è poi così innovativo sotto il profilo della sua offerta musicale (gli stessi Suede comporranno negli anni a seguire pagine di pregnanza notevolmente superiore) e deve probabilmente gran parte del proprio successo all'aura di maledettismo compiaciuto e disinvoltura sessuale che il gruppo seppe all'epoca costruire e coltivare attorno alla propria immagine pubblica (a partire dalla copertina censurata, che ritraeva il bacio di due donne). Tuttavia occorre anche aggiungere che il disco segue una direzione molto più introspettiva di quanto i singoli da esso estratti lascino intendere. Se infatti suonano oggi un po' invecchiate le chitarre frantumate e recalcitranti di "Animal Nitrate", con la loro ubriacante giostrina di glam sovraccarico guidata dallo squittio inebetito di Anderson, "So Young" (forse il capolavoro dell'album e quarto e ultimo singolo estrapolato) ha una cadenza precisa e una coordinazione strutturale innegabile, con una bellissima dilatazione prospettica nel ritornello e la chitarra di Butler (co-compositore di tutti i brani dell'album) che insegue i ricami vocali di Anderson nel finale. Anche le linee aggrovigliate di chitarra di "The Drowners" si sbriciolano in un ritornello svenevole e cantilenante, che ha perso oggi gran parte del suo smalto, mentre rimane inalterato il fascino etereo e carezzevole della ballata "Sleeping Pills", forse troppo simile alla sua capostipite "Life on Mars?", sfiorata da arpeggi gentili di chitarra e da stuporose risonanze orchestrali.
Allo stesso modo, in alternativa agli orgasmi chitarristici e al ritornello meccanico di "Metal Mickey", il disco sa offrire due composizioni assolutamente equilibrate come "Pantomime Horse" (tiepido acquerello esistenziale impreziosito da un assolo enfatico di chitarra che spezza e divarica in due la canzone) e soprattutto "She's Not Dead": Anderson esplora e assapora tutte le regioni espressive della propria voce ferita, mentre Butler intaglia un flusso bisbigliante di note che non fa mai mancare al compagno la terra sotto i piedi. Il pezzo si segnala anche per l'eccellente capacità con cui la penna di Anderson riesce a tratteggiare splendide e complesse figure femminili, dalla gestualità spesso irrisolta e sofferente (e il canzoniere dei Suede è anche e soprattutto una ricchissima galleria di toccanti presenze femminili).
Il resto del disco non aggiunge molto e la musica in "Moving" e "Breakdown" appare piuttosto sfiatata e claudicante, mentre nella stucchevolezza di "The Next Life" non riesce a essere risolutiva o struggente come vorrebbe. Alla fine, però, la baldanza spensierata di "Animal Lover" - con quel taglio wave saltellante molto alla Roxy Music - fa bene il suo pur modesto lavoro e il cerchio a suo modo si chiude.
Sebbene il Bowie di "Ziggy Stardust" e il Lou Reed di "Trasformer" appaiono modelli ortografici fin troppo espliciti, il disco, al di là di lustrini e trucchi di scena in vario modo assortiti, ha una sua precisa orecchiabilità e i Suede lasciano intravedere un potenziale pop ancora non del tutto messo a fuoco e piuttosto acerbo, ma comunque notevole, unito a una non comune capacità di raccontare certe adolescenze cresciute tra mille dubbi e difficoltà alla fine del decennio thatcheriano.

Bernard se ne va. Dog Man Star: fiasco inesorabile o capolavoro incompreso?

I Suede cavalcano l'onda del successo (l'album vince il Mercury Music Prize) e vanno in tour negli Stati Uniti (dove per ragioni di copyright sono costretti ad adottare il nome London Suede), in compagnia dei Cranberries. Per il San Valentino del 1994 esce il singolo "Stay Togheter", dedicato al padre di Butler, scomparso pochi mesi prima: un levigato e morbido soul in falsetto che richiama alla mente gli Style Council, gravato forse da un eccessivo leziosismo melodico che alla lunga tende ad annoiare.
Intanto iniziano le registrazioni del nuovo attesissimo album, Dog Man Star, che arriva nei negozi nell'ottobre 1994, preceduto in settembre dal singolo "We Are The Pigs". Ma la vera notizia è un'altra: a causa di dissapori e incompatibilità caratteriali con Anderson, Butler nel luglio dello stesso anno abbandona i Suede e intraprende una carriera solistica. La cosa non sarà priva di conseguenze e ripercussioni per la futura evoluzione della band. A sostituire Butler viene chiamato l'allora diciassettenne Richard Oakes. Il disco tuttavia non riscuote grandi consensi e la stella dei Suede sembra ormai definitivamente oscurata da nuovi prepotenti fenomeni musicali come Blur e Oasis, che nel frattempo macinano centinaia di migliaia di copie vendute e battono record su record.

Questo disco (che deve il proprio titolo al film "Dog Star Man" di Stan Brakhage) considerato retrospettivamente, a distanza di più di dieci anni dalla sua pubblicazione, appare ben diverso da quel miserabile polpettone sinfonico autocompiaciuto di cui qualche malelingua parlò con sdegno all'epoca. Pur pagando dazio a una certa inguaribile aspirazione alla monumentalità, Dog Man Star è un'opera molto variegata nelle sue intuizioni ed è pervasa da un umore decadente che pesca a piene mani nel torbido immaginario dark-wave con una lungimiranza e un anticipo sulle successive tendenze musicali di almeno due lustri. Certo, qua e là affiorano momenti gratuitamente formalistici e un gusto a volte eccessivo per l'ornamentale, ma quasi tutte le canzoni sono attraversate da una luce piacevolmente estenuata e polverosa, a tratti persino spettrale, che in qualche maniera prefigura l'imminente fine di tutte le utopie generazionali legate al grande sogno britpop.

I Suede imbastiscono così la loro personale cerimonia di congedo dalla gioventù, con un disco che somiglia a un tavolo disfatto e ingombro di rovine dopo una folle festa durata il tempo di un'illusione. Si parte con la litania robotica "Introducing The Band", che sciorina i titoli di testa del kolossal apocalittico a venire nel suo salmodiante linguaggio psichedelico per approdare a "We Are The Pigs", versione riveduta e filologicamente corretta di "So Young", ultimo avamposto del vecchio suono Suede nelle lande desolate di Dog Man Star. "Heroine" prosegue il discorso su binari di pop-rock lacerato e malconcio, ma comunque inappuntabile, tra Echo And The Bunnymen e Psychedelic Furs (più volte citati anche in altri luoghi del disco). Ma a colpire è soprattutto la perfetta costruzione drammaturgica, ai limiti dello shakespeariano, di "The Wild Ones" e "New Generation" (rispettivamente secondo e terzo singolo estratto), con Anderson di fronte al grande tribunale della coscienza che affonda la voce nelle proprie tragedie esistenziali con precisione inesorabile e un'incontinenza emotiva ai limiti della parodia, tuttavia sempre perfettamente credibile. Credibilità che scema sensibilmente dinanzi agli urletti isterici e al clangore ingiustificato di "This Hollywood Life".
Ma per dimenticare tutto sono sufficienti le fragranze elegiache di "The Power", perfetta ballata memore degli Smiths più composti e ispirati, scapigliata da un brezza tiepida di pop ritemprante. Nello stesso solco, ma lungo un versante più tormentoso, l'altrettanto orecchiabile "Daddy's Speeding", munita tra l'altro di una coda finale densa di riverberi e rifrazioni.
La parte conclusiva del disco è anche la più ambiziosa e sperimentale, e ha contribuito in modo decisivo nel decretarne l'infausto destino presso certa critica troppo frettolosa. "The 2 Of Us" insegue le movenze maestose della grande ballata voce-pianoforte all'ombra protettiva di Burt Bacharach, ma si lascia sopraffare da un afflato operistico e ufficiale troppo ostinatamente stuzzicato. Meglio, allora, il piccolo intarsio di falsetti storditi e merlettati della madrigalesca "Black Or Blue", che si avventura tra visoni rurali di un'Inghilterra vittoriana e i cieli di Constable e apre poi la strada a "The Asphalt World", dalla struttura più corale, che si lascia invece scivolare su morbide curve di chitarra elettrica e hammond e a suo modo fissa i primi canoni di un suono classicamente "Suede", prima di smentire tutto all'insegna della più vezzosa incoerenza con una coda progressive spiazzante, per non dire incongrua.
Chiudela partita "Still Life": la prima soffia polvere di stelle negli occhi, avvalendosi di un sfarzosa orchestra di ben quaranta elementi, ma riposa su un canovaccio fin troppo prevedibile nella sua magniloquenza cinematografica.

Non molto distante, nel frattempo, Bernard Butler (il quale, lo ricordiamo, ha attivamente partecipato alla scrittura di Dog Man Star) continua ad approfondire le proprie esplorazioni nelle partiture chitarristiche di Johnny Marr e ha tutto il tempo di incidere un disco di soul-rock tra Rod Stewart e JJ Cale, in compagnia del cantante David McAlmont ("The Sound of McAlmont and Butler", 1995) non particolarmente memorabile. Dopo una serie di collaborazioni con Pretenders, Bryan Ferry, Paul Weller, Angelo Badalamenti e Neneh Cherry tra gli altri, seguono altri due dischi dall'impronta più cantautoriale targati Creation: "People Move On" (1998) e "Friends And Lovers" (1999). Entrambi i lavori si segnalano per un stile piuttosto lineare e composto a partire dal quale Butler rielabora con gusto e sensibilità (e molta accademia) quelli che sono i suoi principali riferimenti: Elvis Costello, Burt Bacharach, Simon & Garfunkel, ma anche Faces, Eagles e JJ Cale, raggiungendo esiti il più delle volte scialbi o tiepidamente prevedibili, per altro penalizzati da un'interpretazione vocale non certo ineccepibile. Ma canzoni pop orecchiabili e ben bilanciate come "Stay" o "Not Alone" (i primi due fortunati singoli estratti da "People Move On") si riascoltano sempre con estremo piacere.
Da ricordare una partecipazione di Bernard Butler alla colona sonora del film glam-rock "Velvet Goldmine" di Todd Haynes nel collettivo Venus in Furs, in compagnia di Thom Yorke e John Greenwood dei Radiohead.
Butler inaugurerà, dopo queste esperienze, una fruttuosa carriera nelle vesti di produttore, densa di successi (Veils, Libertines...).


Coming Up e l'apogeo del britpop


Il gruppo, dato ormai da molti per spacciato, ritorna in studio e avvia le registrazioni del terzo album, Coming Up, che verrà pubblicato nel settembre 1996, anticipato a luglio dal singolo "Trash". È questo il disco di maggior successo dei Suede, che riporta la band ai vertici delle classifiche di vendita inglesi in un momento particolarmente proficuo per la musica rock britannica, durante il quale anche gruppi minori come Bluetones o Ocean Color Scene ottengono riscontri sorprendenti.
Il britpop è ormai pienamente esploso e seguito con estremo interesse anche nel resto d'Europa e Coming Up va a completare una ideale costellazione discografica di questo movimento musicale, accanto a "Different Class" dei Pulp, "(What's The Story) Morning Glory"? degli Oasis, "Parklife" dei Blur, "K" dei Kula Shaker, "Everything Must Go" dei Manic Street Preachers e "I Should Coco" dei Supergrass.

Brett Anderson, nelle cui mani riposano ormai le redini creative del progetto Suede, imprime al suono del gruppo una decisa sterzata verso assolati territori pop, avvalendosi della decisiva collaborazione del nuovo arrivato Neil Codling alle tastiere. Il disco appare così come una devastante e inarrestabile macchina fabbrica-singoli (verrà spolpato fino all'inverosimile con la bellezza di ben cinque singoli estratti in una progressiva approssimazione alla canzone pop definitiva) e mantiene ancora oggi perfettamente intatta la propria verve compositiva e il proprio fluente e ammaliante eloquio pop. Una sorta di puntigliosa e dettagliata esercitazione poetica sul concetto di leggerezza, che con una serie impressionante di funambolici numeri di composizione è in grado di stendere al suolo anche l'ascoltatore più refrattario. Le danze vengono aperte da "Trash", che lascia subito intendere come la pomposità degli arrangiamenti dei passati lavori sia stata ormai asciugata e del tutto riassorbita in favore di una piacevole passeggiata all'aria aperta lungo i consolidati sentieri della tradizionale scansione strofa-strofa-ritornello. Sensazione subito confermata dalla successiva "Filmstar" (quinto singolo estratto), che dopo un inizio annaspante e convulsivo, si distende in un ritornello plastico e panoramico, molto ben scandito. Arriva poi il primo vero e proprio capolavoro con "Lazy" (quarto singolo), canzone edificata su una linea melodica a dir poco minuscola eppure capace di sollevare a mezz'aria senza il minimo sforzo folle oceaniche di spettatori adoranti.
I toni si smorzano con le cadenze velate di "By The Sea", che si rimette sulla tracce della tanto agognata ballata pianistica, foderata però da eccessive imbottiture orchestrali e da un gusto troppo scoperto e a tratti maniacale per il melodramma in salsa Bowie.
La situazione si requilibra nel dettato secco di "She", in cui Anderson soffoca la propria ossessione erotica di maschio senz'amore, lasciandosi torturare la mente da una nuova arcigna figura femminile che avanza su cocci taglienti di new wave ancora calda. Arriva così "Beautiful Ones", forse la canzone più famosa dei Suede e secondo singolo estrapolato, notevole soprattutto per la voce di Anderson, che si insegue imprendibile lungo i crinali armoniosi disegnati dalla chitarra felpata di Richard Oakes, in un gioco perfettamente simmetrico di saliscendi vocali, LaLaLa odorosi e dilettevoli aritmie. Con "Starcrazy", irrompono gli anni Ottanta più laccati, luccicanti e mondani (e il pensiero ritorna a Bryan Ferry) che preludono alla successiva "Picnic By The Motorway", che pure denota una certa apprezzabile maestria nel far gocciolare sottili e pungenti frammenti in falsetto su un soliloquio strozzato di chitarra, prima dell'improvvisa schiarita finale in perfetto stile Suede.
Il disco si placa poi nei colori pastello della cartolina power-pop di "The Chemistry Between Us" e nell'umore serale di "Saturday Night" (terzo singolo), ennesima perla di un disco ispirato, maturo e, quel che più conta, completamente riuscito. La canzone ha un passo lento e rilassato e schiude a poco a poco i titoli di coda di una stagione irripetibile della musica inglese, attardandosi sui gesti di una donna accarezzata con estremo garbo melodico e un acutissimo senso di desolazione per il tempo che se ne va.

Intanto nell'ottobre 1997 viene compilata e immessa nel mercato una doppia antologia intitolata Sci-fi Lullabies, accolta entusiasticamente da critica e pubblico, che tenta di mettere un po' d'ordine nel folto sottobosco delle b-sidesdei Suede (ventotto le tracce selezionate, vero e proprio oggetto del desiderio per i sempre più numerosi fans), tra rarità e spigolature varie, per la gioia di tutti i completisti. Il disco ripesca materiale proveniente dall'ormai lontano sodalizio Anderson-Butler che tanti considerevoli frutti aveva saputo regalare, coprendo tutto il primo arco della folta produzione della band (tra le perle si segnalano "My Insatiable One", "Killing Of A Flashboy", "My Dark Star", "Feel", "Europe Is Our Playground"), mantenendo ancora oggi un suo preciso valore collezionistico. 

Seguono a questo disco due anni di silenzio e sostanziale inattività, se si eccettua la registrazione nel '98 del brano "Poor Little Rich Girl", per un album tributo dedicato a Neil Coward, "20th Century Blues".

Head Music e il ritorno all'insegna dell'elettronica

Nel maggio 1999 si affaccia nei negozi il quarto lavoro in studio dei Suede, Head Music, sul quale grava la pesantissima responsabilità di dare un seguito dignitoso e ben argomentato a quanto la band aveva saputo mostrare in termini di scrittura e ispirazione nel precedente Coming Up. L'album è preceduto in aprile dal singolo "Elettricity" e subito appare chiara la svolta "elettronica" della band. Questo album (accompagnato da una campagna promozionale di dimensioni colossali, con ben 91 Virgin Megastore che esibiscono fieramente il logo Virgin Head Music e da una radio pirata, Head Music 107.1 Fm, che trasmette esclusivamente tracce del disco!) rappresenta l'ultimo reale (per quanto non del tutto riuscito) colpo di coda creativo degli Suede ed è una delle loro opere più solide e complesse dal punto di vista sonoro.

Il discorso tende a spostarsi, come detto, su binari decisamente più elettronici, mantenendo comunque una forte e decisiva connotazione pop, ormai indissociabile dal suono della band. Il disco appare così massicciamente influenzato da gruppi come Happy Mondays, New Order, il Bowie di "Low" e dintorni, Depeche Mode, Ultravox, Talk Talk e primi Human League, sin da "Electricity", una canzone perfettamente pop costruito sulle contorsioni vocali di Anderson e illuminato a intermittenza da spasimi elettronici destrutturanti. L'album prosegue poi con il raffinatissimo e stiloso divertissement di "Savoir Fair": il pezzo ha un retrogusto piacevolmente artificioso e trasparente, e la voce di Anderson si lascia scivolare stridula e sorniona su superfici geometriche di beat sbavati, che si sovrappongono l'uno all'altro in un continuo gioco di rimandi.
Le due composizioni successive (entrambe uscite come terzo e quarto singolo) segnano un parziale ritorno a posizioni più tradizionalmente brit-rock: "Can't Get Enough" è un dilettevole proclama glam, che col suo burbero ritornello si lascia palpeggiare la muscolatura scolpita con estremo piacere, la seguente "Everything Will Flow" costituisce invece il momento meno credibile di tutto l'album, e le sue zuccherose e arcadiche volute orchestrali la rendono un idillio pastorale ai limiti dello scherzo. Fortunatamente, subito dopo arrivano i quattro episodi più brillanti del disco. Si comincia con "Down", ballata lentissima dal profilo discendente e incrinato, che rinvia al Bowie più intimista e che ci regala una prestazione sopraffina delle doti interpretative di Anderson (qui nei panni di un crooner smaliziato e disilluso tra Scott Walker e Leonard Cohen).
Segue l'arazzo luminoso di "She's In Fashion" (secondo fortunato singolo estratto), che colpisce per il suo freschissimo carnevale di colori e impressioni luminescenti e che si perde in un gioco confuso e sfavillante di piccole schegge ritmiche mai del tutto uguali a se stesse. Ritorna poi il fantasma di Bryan Ferry nell'incedere flessuoso e ancheggiante di "Asbestos", dalle cadenze mollemente rilassate, contornate da effetti e maquillage elettronici tutt'altro che innocui.
Chiude il cerchio l'eponima "Head Music", che riesce nell'intento di montare in modo armonioso e plausibile la voce bamboleggiante di Anderson su un instabile tappeto sintetico di beat sfrigolanti e sostanze campionate: il pezzo ha un progressione angolare e allitterante ed è impreziosito da un ritornello vagamente robotico che si fatica a dimenticare. L'egemonia elettronica viene poi momentaneamente spezzata da "Elephant Man", ennesimo calco bowiano - comunque efficace - per poi riaffiorare con prepotenza in "Hi-Fi", senz'ombra di dubbio il pezzo più ambizioso e sperimentale dell'intera opera, che avanza biascicante e rintronato di riverberi chimici, fino alla visione sgranata del ritornello: la canzone, intinta in umori torbidi e nebulosi, segna una significativa evoluzione del suono dei Suede, tuttavia non troverà ulteriori sviluppi nelle produzioni successive del gruppo, largamente prefigurate invece dalla coda del disco, affidata a tre canzoni che tendono a rifluire in un pop-rock più didascalico. Si va dalle posture neo-romantiche e pensose di "Indian Strings", cantata da Anderson come in bilico su una scogliera, fino al sentimentalismo ricamato di "He's Gone" (ennesimo apprezzabile bozzetto rococò di donna innamorata al balcone), per finire con l'invettiva politica di "Crack In The Union Jack" (bella cadenza, ma furore piuttosto impalpabile).

Il bilancio conclusivo è quello di un disco riuscito solo in parte rispetto agli intenti originari, un lavoro che ha la colpa fondamentale di non essere stato (come invece avrebbe potuto) il momento artisticamente culminante della ormai decennale carriera degli Suede. Un disco che fallisce laddove invece di concludere e consegnare alla storia la vicenda musicale degli Suede, apre al gruppo nuove possibilità espressive che tuttavia non verranno mai esplorate e assecondate in tutta la loro radicalità.

A new morning: cronaca di una morte forse annunciata

Nel settembre 2002 viene dato alle stampe A New Morning, il quinto album dei Suede, preceduto dal singolo apripista "Positivity". A causa dell'ennesima defezione (Codling lascia per problemi di salute) l'organico subisce un ulteriore rimaneggiamento forzato con l'ingresso del tastierista, ex Strangelove, Alex Lee. Il disco passa praticamente inosservato e ormai sono in molti (compresi gli stessi fan) a dubitare che nel panorama pop-rock internazionale possa esistere ancora uno spazio, seppur piccolo, per questo gruppo, mentre in Gran Bretagna formazioni dall'anima acustica e gentile come Starsailor, Travis e Coldplay scalano le classifiche senza troppa fatica e nessuno sembra più ricordarsi chi siano i Suede.
Il disco ci restituisce l'immagine di un gruppo appesantito e precocemente senile che, nonostante i numerosi lifting digitali e i chili di iperproduzione e fondotinta correttivo, non riesce ad arrestare il decadimento inesorabile del proprio suono, in tutte le maniere dissimulato e proprio per questo tanto più evidente. Le corde vocali di Anderson risultano contratte, rugginose e piene di acciacchi e, per quanto si sforzino, non riescono più nemmeno a sfiorare certe altezze, orfane della loro proverbiale elasticità. Anche le composizioni appaiono piuttosto rigide e impacciate, e l'album somiglia nel suo complesso a un ritratto di Dorian Gray che reca sulla propria maschera raggrinzita tutti i segni (lividi, cicatrici, tumefazioni, rughe) di una decade di eccessi.
Ma i Suede sono un animale di stirpe nobile e gloriosa e, prima di tacere forse per sempre, riescono a modulare qualche ultimo esiguo ruggito. "Lost In Tv" è una delle ultime canzoni ancora all'altezza della loro fama, con il suo impasto di chitarre e tastiere ben amalgamate e un toccante ritornello perso in un gioco di cori sovrapposti. Anche "Obsessions" (secondo singolo) ha un taglio aggressivo e persuasivo, che sfoga tutte le sue tensioni in un ritornello altrettanto solido, con bei motivi decorativi di chitarra a intersecarsi sullo sfondo. Tutto il resto è invece abbastanza molliccio e appiccicoso, e tende ad addentrarsi pericolosamente nel versante più degradato e deteriore del concetto di "pop". "Positivity" nasconde la propria pochezza nel brio artificioso di archi fastidiosamente bonari, "Lonely Girls" assume una cadenza moraleggiante e trasognata che la fa somigliare a una parabola o a un'innocua lezione di catechismo, "Street Life" vorrebbe graffiare ma in quanto a idee compositive è offensiva come uno smunto gattino addomesticato. Di fronte al pressappochismo della cantilena "Beautiful Loser", l'ascolto si fa abbastanza frustrante e inizia a serpeggiare il sospetto sempre più giustificato che il gruppo stia vergando il proprio definitivo epitaffio. "Astrogirl" è un lungo viale del tramonto e delle speranze disilluse, ma perlomeno riesce a galleggiare su un melodismo gradevole, per quanto superficiale.
Il tiro si raddrizza ancora un po' nell'incedere calibrato della ballata "Untitled... Morning": anche se ormai lontana e spremuta fino all'osso, la stella dei Suede lascia trasparire i suoi ultimi estenuati bagliori d'oro in un disco che somiglia a una distesa di bigiotteria dismessa. Chiudono il discorso altri episodi fin troppo intrisi di formalismo esasperato e mestiere ("When The Rain Falls", "One Hit To The Body", "You Belong To Me").

Nell'ottobre del 2003 la Sony pubblica la raccolta completa di tutti i singoli pubblicati dagli Suede dal 1992 al 2003. Il disco è preceduto a settembre dal singolo "Attitude", che riporta la band nella Top Twenty inglese. Questo album, forse più di ogni altro, è in grado di riconsegnarci la storia di un gruppo capace come pochi di comporre con una spiazzante facilità canzoni dalla presa pressoché immediata e rappresenta senza dubbio una delle migliori testimonianze delle potenzialità espressive e melodiche del pop inglese anni Novanta. Anche se gran parte delle prove più interessanti e significative dei Suede rimangono ovviamente escluse dalla raccolta, il disco costituisce un utilissimo strumento per comprendere l'evoluzione stilistica e formale dei Suede. Impreziosiscono la raccolta due composizioni inedite: la già citata "Attitude", graziosa fantasia in bianco e nero che oscilla pericolante sui suoi altissimi tacchi anni Ottanta e si lascia poi accarezzare nel ritornello da coretti riccamente guarniti, che fanno molto Bee Gees (davvero gustosa) e "Love The Way You Love", dal taglio più grossolano e molleggiante.
Nel dicembre dello stesso anno il gruppo intraprende un tour di addio e annuncia il proprio scioglimento.  

La storia ricomincia dalle Lacrime

Nel 2004 tuttavia, prendendo in contropiede gran parte degli appassionati, Brett Anderson, lasciatosi alle spalle i suoi fastidiosi problemi di tossicodipendenza, si riconcilia con il vecchio compagno e sodale Bernard Butler e fonda con lui i Tears, che pubblicano nel 2005 per la V2 l'album Here Come The Tears. L'album riscuote un discreto successo commerciale, soprattutto in madrepatria e rilancia per un breve periodo, anche se sotto nuove spoglie, il mito dei Suede.
In realtà, fin dal primo ascolto il disco risulta un insieme abbastanza ordinato di appunti e note a pie' di pagina a una storia ormai largamente decisa nei suoi snodi fondamentali. Tutte le canzoni, pur mantenendo un profilo dignitoso e una discreta solidità strutturale e compositiva, testimoniano l'ormai irreversibile autunno creativo di Anderson e Butler e non possono spingersi molto oltre i confini di una vecchia fotografia teneramente accarezzata con un filo di commozione e smarrimento. Canzoni dalla patinata vocazione pop come i singoli "Lovers" e "Refugees" sarebbero anche piacevoli esercizi di calligrafia, se su di essi non gravasse il peso schiacciante di Dog Man Star e Coming Up, continuamente citati ed evocati anche nel resto dell'album. E allora quella che si sta ascoltando è forse un'interminabile ricerca del tempo perduto, che succhia avidamente il piglio teatrale e bowiano di languide caramelle come "Apollo 13" o "Fallen Idol", e si aggrappa ai drappeggi stratificati di Butler in "Beautiful Pain" per non morire del tutto, in un a tratti toccante lavoro della memoria che qualche tuffo al cuore lo sa ancora regalare ("Co-Stars", "Two Creatures"). Un disco al quale non possono essere attribuiti considerevoli meriti artistici, ma che mantiene soprattutto agli occhi (e alle orecchie) di chi ha seguito l'avventura dei Suede un indubbio valore sentimentale. Una sorta di ultimo e romantico addio, nell'amara consapevolezza della legge irreversibile del tempo.

A partire dal 2007, Brett Anderson intraprende poi una carriera solista che, tra alti e bassi, tiene in vita l'intresse dei vecchi appassionati nei confronti delle sue nuove produzioni musicali. A partire dunque dall'opaco disco ominimo del 2007 (nel quale l'autore inglese cerca di esorcizzare i fantasmi della solitudine e dei vecchi fallimenti artistici), Anderson inanella una serie di quattro album, dal piglio via via più introspettivo e disadorno, elaborando in questo modo una poetica personale che si nutre di romanticismo lirico e sobrie orchestrazioni vittoriane, spesso tendenti però alla semplice decorazione estetizzante.
Nel 2010, in coincidenza con l'uscita di una nuova doppia antologia (pensata appositamente per le generazioni di ascoltatori più giovani), i Suede in organico originale (ad eccezione del solo Bernard Butler) tornano ad esibirsi dal vivo in giro per il mondo. L'iniziativa raccoglie un successo trionfale e fa da preambolo alla ristampa (in edizione potenziata, con inediti e bonus-track di ogni tipo) dei cinque album in studio, in attesa di un già annunciato ritorno discografico della band (con materiale inedito) nel 2013.

La Trilogia degli Anni Dieci

Dopo aver composto un numero esagerato di brani, Anderson richiama Ed Buller, ovvero il produttore e grande alchimista del primi tre dischi del complesso. E l'atteso ritorno dei Suede, Bloodsports (2013) è quanto di più lontano si possa immaginare dal cliché del disco buttato lì per giustificare la reunion di una band famosa. Per voce dei suoi stessi membri, il disco sarebbe stato il seguito ideale di Coming Up, qualora i Suede non avessero operato la rinnegata svolta elettronica di Head Music.
Nell’album è presente tutto il repertorio che è lecito attendersi, dai singoli epici che non ammettono repliche (“Barriers” e “It Starts And Ends With You”), ai lentacci strappalacrime (“What Are You Not Telling Me” e “Faultlines”) dai rock anthem da album (“Snowblind”, “Hit Me”) ai tesi crescendo dal sapore psichedelico (“Always”), dai midtempo densi di modernissimo turbamento (“Sabotage”) alle spaziose ballate romantiche e multicolori (“For The Strangers” e “Sometimes I Feel I'll Float Away”) in cui a farla da padrona sono il pathos e la sensualità finalmente ritrovati di Brett, e l’incredibile fantasia di Richard Oakes, che non deterrà l’ostentazione di Bernard Butler, ma che lo batte sulla distanza quanto a creatività.
I Suede sono tornati. Eccome se sono tornati.

A fine 2015 gli Suede tornano ancora una volta annunciando Night Toughts, che sin dalla copertina fa riecheggiare vecchi fantasmi del passato e quella sospensione emotiva e grafica che potremmo paragonare al loro capolavoro assoluto, Dog Man Star. Non è però solo questione visiva: il nuovo album si propone quasi come successore di quell’epopea barocca e glam che fu il loro più sottovaluto e poi giustamente rivalutato lavoro. Se infatti il disco del 1994 si apriva con la turbolenta "Introducing The Band", questa volta tocca ai suggestivi violini di "When You Are Young", con la voce di Anderson che svolazza mentre la batteria mostra un incedere trionfale e il chitarrista Richard Oakes, in sottofondo, disegna traiettorie cupe come i bei tempi che furono. "Outsiders" è invece una novità per i territori suediani, una canzone quasi post-punk, e mentre il bellissimo giro di chitarra si avvicina a tessiture dream-pop, il ritornello è sentitissimo e classico. L’altro singolo, "No Tomorrows", non disdegna il paragone con quest’ultima, e se da una parte è meno spigolosa, dall'altra è forse più diretta.
"Pale Snow" come singolo ha poco senso, ma avvicina il disco alle sonorità degli ultimi pezzi di Bloodsports, quelli più pacati e riflessivi dove le tastiere ricreano un'ambientazione elegante e drammatica allo stesso tempo. "I Don’t Know How To Reach You"è invece il momento in cui Oakes tira fuori gli artigli e stupisce per pulizia di suono, grazie anche a una coda sulla soglia dello shoegaze. "Learning To Be" non va lontano come concetto, ma stavolta è il pianoforte a gestire l’intero brano. Arriva "Like Kids" in punta di piedi e l’umore è quello giusto. Seppure l’attacco di batteria sia fin troppo simile a quello di un inno come "Trash", nel ritornello gli Suede tolgono un altro coniglio dal cilindro, un brano classico e con una melodia contagiosa. Mentre "I Can’t Give Her What She Whant" ha atmosfere simili ad alcuni brani più recenti del loro repertorio ("What Are Not Telling Me?" e "Sometimes I Feel I’ll Float Away"), ma non ha lo stesso candore melodico, così come "The Fur & The Feathers" presenta scheletri quasi da cinema di Tim Burton: Codling alla tastiera e Oakes che morde, prima di un climax finale che torna al mood dei primi due dischi.
Uscito con l’accompagnamento di un mediometraggio diretto da Roger Sargent, Night Toughts è un disco riflessivo, il meno pop nella carriera della band londinese. Tuttavia, gli elementi di spicco e le canzoni non mancano neanche stavolta. "Bloodsports" certamente cercava con coraggio la costruzione di nuovi classici, mentre quest’ultimo è un disco nebbioso, ma allo stesso tempo facilmente riascoltabile, due componenti mai mancate nei dischi dei Suede, che dopo la reunionnon hanno nessuna intenzione di mollare.

C’è un momento particolare che fa immergere dentro The Blue Hour, l’ottava opera in studio dei Suede: alcune settimane prima della pubblicazione (avvenuta il 21 settembre del 2018) abbiamo fatto pressione sul pulsante play dei nostri tablet per scrutare il videoclip di “Life Is Golden”, brano che dimostra quanto Brett Anderson e soci siano ancora in grado di scrivere canzoni di un’intensità inaudita, di emozionare proprio come all’inizio degli anni 90. Poche band si sono preservate in questo modo, con un talento e una capacità di scrittura assolutamente intatti. “Life Is Golden”, quel ritornello, una lama che ti squarta l’anima in due, quelle immagini inquietanti che raccontano Chernobyl abbandonata, un resoconto post-atomico in netto contrasto con la bellezza stordente di musica e parole. Ma l’esperienza d’ascolto di The Blue Hour era partita già con l’afflato sinfonico di “The Invisible”, la voce di Brett Anderson che penetra sin nelle ossa mentre una ragazza si dondola sull’altalena, e con la più abrasiva “Don’t Be Afraid If Nobody Loves You”, con sugli scudi le chitarre di Richard Oakes. A quel punto l’attesa per l’ascolto dell’intero The Blue Hour si è fatta spasmodica, solo in parte sedata da “Flytipping”, oltre sei minuti che condensano gran parte delle anime degli Suede, comprese le vaghe tendenze al noise e la magniloquenza delle strutture. Basterebbero queste quattro tracce per fare di The Blue Hour un disco monumentale, iper emozionante, che lascia increduli, per di più forte di una scrittura che cerca lo svolgimento cinematografico. Ma il resto della scaletta non delude certo le aspettative.
Da un lato c’è il passo melodrammatico dei tempi migliori, inaugurato dai leggiadri arrangiamenti presenti sin dalle prime note dell’iniziale “As One”, dall’altro lato c'è l’amore per quel britpop che facilmente si trasmuta in anthem-rock, sancito sin dalla successiva “Wastelands”. Brividi, brividi a fior di pelle ovunque, nei tremendi crescendo di “Beyond The Outskirts”, negli arpeggi di “Mistress”, nell’evocativa pace di “All The Wild Places”. L’emotività si attesta ai massimi storici, rinforzata dal puntuale lavoro svolto dall’Orchestra Filarmonica di Praga, che trasforma alcune tracce in vere e proprie liturgie, come accade per “Chalk Circles”, sorta di intro per la rotonda “Cold Hands”, uno di quei pezzi che farebbero la fortuna di qualsiasi band emergente d’oltremanica. Brett Anderson deve aver fatto un patto col diavolo: lo osservi e lo trovi ancor più splendente e autorevole rispetto a (sigh!) tanti anni fa, lo ascolti e scopri che la sua voce col passare del tempo si è ancor più arricchita di sfumature. In The Blue Hour la band racconta l’ora del crepuscolo, quando il rosso del tramonto lascia gradualmente spazio al buio della notte. Musica per la quale a vent’anni ognuno di noi avrebbe potuto uccidere, e che ancora oggi continua a lasciare di sasso per la bellezza disarmante. Uno dei dischi più sorprendenti dell’anno e uno dei migliori dell’intera discografia dei Suede. Dai tempi di “Dog Man Star” non realizzavano una raccolta dal taglio così profondamente emozionale. Alla faccia di chi in almeno un paio di circostanze li aveva dati per inesorabilmente spacciati. Canzoni come queste si scrivono soltanto in paradiso.

Tagliato il traguardo dei trent’anni di attività, e momentaneamente bloccati dalla pandemia, Brett Anderson e soci nel 2020 mettono personalmente le mani su un’ampia retrospettiva (quattro dischi nella versione in Cd, ben sei nell’emissione in vinile) in grado di catturare tutti i momenti ritenuti essenziali nella loro brillante carriera: Beautiful Ones: The Best Of Suede 1992-2018. Nei primi due Cd sfilano quasi tutti i singoli della formazione londinese, in ordine cronologico, compreso “Stay Together”, l’ultimo pubblicato con Bernard Butler alla chitarra e non inserito in alcun album della band. E’ la parte più briosa e popolare della loro storia, ricca sia delle indimenticabili hit che hanno contribuito a formare un’intera generazione (“So Young”, “New Generation”, “Trash”, giusto per citare alcune fra le più note) sia delle apprezzate composizioni più recenti, fra le quali spicca per intensità l’emozionante “Life Is Golden”.
Gli altri due dischetti ospitano invece alcune fra le b-side preferite dal gruppo (con menzione particolare per "Europe Is My Playground”, già inserita nel 1997 nell’imperdibile “Sci-Fi Lullabies”), più numerosi altri brani chiave estratti dai sette album fin qui pubblicati. Beautiful Ones prende il via sulle ali di “The Drowners” il loro debut single, diffuso nel maggio del 1992, e si chiude con la struggente “Flytipping”, l’epilogo del loro disco più recente, “The Blue Hour”. Fra le varie edizioni di questa antologia, in commercio ne esiste una “light” in doppio vinile; per la gioia di fan e collezionisti ne è stata prevista anche una autografata, limitata a soli 750 esemplari.

Dopo il vivido trittico per la Warner, i Suede firmano per la BMG, il primo atto, Autofiction, ha il piglio ed il vigore di un esordio, un vigore anticipato dal primitivo e robusto singolo (“She Still Leads Me On”), un brano che mette ancora una volta al centro della narrazione l’intenso rapporto emotivo di Brett Anderson con la defunta madre.
Accantonate le eleganti orchestrazioni e messi a tacere tutti i potenziali pretesti teorici, la band mette insieme un vivido mosaico, composto da undici brani che trasudano urgenza e fisicità. Brett Anderson ha definito Autofiction l’album punk dei Suede, e ascoltando i riff possenti e quasi hard di “That Boy On The Stage” e le oscure trame della burrascosa “Shadow Self” (una versione speedy dei Cure di “Disintegration”), è difficile non dargli ragione.
Tutto gira nel verso giusto nel nuovo album della band, Simon Gilbert picchia con convinzione e inaspettato rigore (“Black Ice”), e anche quando cambia registro, ma non potenza, per lasciare spazio a graffianti tocchi chitarristici, la tensione resta alta (“Shadow Self”); da par suo Richard Oakes centra uno dei riff più travolgenti a marchio Suede (“15 Again”), e tocca corde emotive punk-rock che sembravano sepolte (l’aspra e tagliente “Personality Disorder”). Nel rimettersi in gioco i Suede non nascondono incertezze e dubbi esistenziali (“The Only Way I Can Love You”), si gettano nella mischia con slancio e sprezzo del pericolo (“Its Always The Quiet Ones”), fino a rasentare i vertici dell’epica post-punk nel ricco ed ambizioso tripudio sonoro di “Turn Off Your Brain And Yell”, tutto questo senza mai restare preda della routine.
Un ultimo ammissibile dubbio è volto alle due ballate presenti in scaletta, ma alla piacevole prevedibilità di “What Am I Without You ?” risponde prontamente la struggente e corrosiva “Drive Myself Home”, un vorticoso flusso emozionale che Anderson interpreta con una consapevolezza ed una vulnerabilità che lascia senza fiato.

 

La band inglese continua a incidere nel solco di un pop colto e viscerale con un set di canzoni destinato a resistere all’usura del tempo.

 

Contributi di Marco Bercella ("Bloodsports"), Matteo Trapasso ("Night Toughts"), Claudio Lancia ("The Blue Hour", "Beautiful Ones: The Best Of Suede 1992-2018""), - Gianfranco Marmoro ("Autofiction")

L'autore desidera dedicare questo articolo a suo padre.

Un ringraziamento particolare a Emanuele Boncio per l'aiuto materiale e l'indispensabile sostegno logistico

Riferimenti bibliografici:

 

M. Melissano: Brit. La nuova scena inglese. Castelvecchi
L. Bonanni: Gli Oasis e il brit pop. Come sentirsi vivi negli anni Novanta. Lo Vecchio
C. Villa: Brit pop. Piccola enciclopedia (1990-1997). Giunti

Suede

Discografia

SUEDE

Suede (Nude, 1993)

8

Dog Man Star (Nude, 1994)

8

Coming Up (Nude, 1996)

7,5

Sci-Fi Lullabies (b-sides e rarità, Nude, 1997)

7

Head Music (Nude, 1999)

6

A New Morning (Nude, 2002)

5

Singles (antologia, Nude, 2003)

The Best Of Suede (antologia, V2, 2010)

Bloodsports (Warner, 2013)

7,5

Night Thoughts(Warner, 2016)

7

The Blue Hour (Warner, 2018)

7,5

Beautiful Ones:The Best Of Suede 1992-2018(antologia, Demon Music, 2020)
Autofiction(BMG, 2022)7,5
THE TEARS

Here Come The Tears (V2, 2005)

6


BRETT ANDERSON

Brett Anderson (V2, 2007)

5,5

Wilderness (B A Songs, 2008)

6

Slow Attack (B A Songs, 2009)

7

Black Rainbows (B A Songs, 2011)

6,5

Pietra miliare
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