E poi, all’improvviso un’immagine, una fotografia in bianco e nero, posta in coda a una pubblicazione periodica di stampo musicale: un giovane adone ritratto di fronte a uno specchio, dall’aspetto fragile eppure baldanzoso, si accarezza il petto nudo, la camicia aperta, il taglio di capelli fatale; intorno, una camera da letto sfatta, custode chissà di quali segreti. La Gran Bretagna pop del 1992 si scopre bisognosa, quasi ansiosa di novità, di rivelazioni dal sapore misterioso, di glamour, di appartenenza a una cultura autoctona, elegante ma al tempo stesso viscerale, viziosa, drammatica, qualcosa che possa avere un’incidenza nel pensiero comune, nei modi di fare, di dire, di pensare. Hanno bisogno di un risveglio orgoglioso i nuovi figli di Albione, reduci dagli 80 thatcheriani, dall’ormai lontana seconda British Invasion, subito adottata dai cuginastri americani, e quindi repentinamente messa da parte come poco rappresentativa.
Hanno necessità di scovare un appiglio più sicuro dopo le venture/sventure smithsiane e le gesta pasticciate della neo-psichedelica e del Madchester sound. La macchina mediatica londinese non ha mai mancato il classico passaggio risolutivo, ha continuato a operare con zelo per illuminare le varie ribalte, speranzosa che almeno una di queste potesse divenire palcoscenico privilegiato. Peccato che da tempo manchi il bomber, il nome che riesca concretizzare a due passi dalla linea di porta. Eppure si sente un profumo nuovo nell’aria: la crisi sembra essersi assopita, il pallone, primo riscatto sociale insieme alla pop music, è stato riammesso nel circuito europeo, che sia giunta anche l’ora per una riscossa degli spartiti?
L’indiscrezione più grande di quell’estate/autunno si dimostra tale per lo spazio di qualche minuto: si chiama Suede. Uno, due, tre singoli di immediato successo nelle chart d’Oltremanica, la vendetta attesa quasi rabbiosamente nei confronti dell'imperante (ex)indie sound a stelle e strisce, visto come eccessivamente macho, rozzo, sporco. Il tizio di cui sopra si chiama Brett Anderson, si abbottona la camicia, sorride malizioso e non chiede neanche permesso, non ne ha bisogno. Ce li ha tutti ai suoi piedi, si pavoneggia del potere di comandarli a bacchetta. Ha ragione da vendere, ma non si accorge che la fregatura è dietro l’angolo, e non può neanche immaginare che la storia gli mostrerà comunque la gentilezza riservata ai giusti. La strategia è ben congegnata: la gloria, altroché il successo, deve partire da basi indipendenti, deve possedere il sapore dei sobborghi, ma altresì deve alimentare la fantasia del giovane sostenitore. Brett, il cavaliere della liberazione, ha anche uno scudiero, di quelli determinanti, nella migliore tradizione pop-rock, il chitarrista, la spalla, il braccio che si trasforma agevolmente in mente quando il leader è impelagato in qualche servizio fotografico condito di pettegolezzi. Brett e Bernard insieme, la testa di uno appoggiata alla spalla dell’altro, sono fratelli, no sono amanti, sono sex-symbol, ma non dei miseri poster a corredo dei sogni delle ragazzine, questa è roba seria; sono Bowie e Ronson, sono Morrissey e Marr, sono ambiguità, vizio, pericolo, però, diamine, sono pure belli. Come la copertina del debutto sulla lunga distanza: due visi e due bocche che si baciano voluttuosamente, due donne o due uomini?! La primavera del 1993 è appena partita e chi se ne frega se a Londra continua a piovere, ci sono centinaia di persone che fanno la coda per accaparrarsi il nuovo scrigno di gioielli, così la raccontano quelli del Nme, del Melody Maker, l’album più atteso dai tempi di "Never Mind The Bollocks".
Una sensazione di nostalgia che accalappia grandi e piccini, la critica, schiere di colleghi. Melodramma, dandismo, tematiche conturbanti, un senso di sacrificio senza che neanche un ciuffo vada fuori posto. Lo spettro di Ziggy che si fa largo tra le pieghe delle lenzuola, un attimo di sospensione eterea e poi la resurrezione. Gli anni 90 britannici cominciano sul serio da qui, ma sembra di essere tornati indietro di un ventennio, al glam equivoco, all’arte truccata ma tutt’altro che addomesticata ai voleri dell’industria. Brett e Bernard ci credono, Ed Buller li sostiene e organizza per loro un ingranaggio formalmente perfetto, omaggiante quell’epoca aurea senza che per questo possa apparire vuota rivisitazione. Due comprimari, Matt Osman al basso, Simon Gilbert alla batteria, discreti e dall’immagine decente, una base chitarristica che viene fuori cruda, quasi sporca eppure sofisticata, con Butler che ricama e sovraincide, accompagna delicato e punge rabbioso, un muro del suono compatto, epico, con il feedback sempre in primo piano, che suona incontrollabile proprio perché controllatissimo dalle ferree redini dei protagonisti. E poi il pianoforte che sovente fa capolino, i violini che spingono l’intimismo verso il fragore, l’urlo romantico e liberatorio, il sax e i synth che si mescolano tra le carte e rendono più grosso il trasporto strumentale di Bernard. Una prateria di suoni rinchiusa nella cameretta di un Brett tutt’altro che restio nell’aprire il suo diario personale e rendere pubbliche sconcezze, peccati, casini, speranze e disillusioni di un ventenne.
“So Young”, così giovane, ingenuo da non accorgerti che ti stai fregando con le tue stesse mani, magari nascondendoti dietro qualche sostanza bugiarda e bastarda, “Animal Nitrate”, …Angel, don‘t take those sleeping pills, una richiesta o un atto di fede, ballate per piano e voce che si trasformano in un colpo di teatro, esplosioni orchestrali, cori angelici, la sei corde che corre a contrappuntare, a infilzare, a definire uno stato d’animo. Però che scossa in quelle carezze drogate, quei baci proibiti, qualcosa da conservare in questa vita che pare una commedia riuscita male, in cui assomigli a un pupazzo senza capo né coda, un “Pantomine Horse”, dove gli affetti se ne vanno tragicamente e tu non ci vuoi credere, perché “She’s Not Dead”, e allora, magari, ci si rivede in un’altra vita, la prossima.
Ma diamo tempo al tempo, prima c’è da cavalcare la speranza di poterne venire fuori. “Moving” ha l’impeto di un pugno in faccia, strillato dall’ugola e sfregiato dalla chitarra; “The Drowners” si serve di un modello hard-rock alla T.Rex per invocare una mano d’aiuto e non finire risucchiato nelle sabbie mobili; “Metal Mickey” ha il fascino del glitter sugli occhi, del sorriso che ammicca, della ragazza che ti frega sul più bello eppure mica puoi resisterle, perché alla fine sei tu che ti guardi allo specchio, un amante animalesco, insistente, anche ottuso, ma vivo.
Poi arriva il breakdown, il collasso, e il risveglio non è come Brett e Bernard avevano immaginato. Una coppia che si separa proprio sul più bello, nonostante sul biglietto d’auguri di San Valentino ci fosse scritto “Stay Together”. La chiamano illusione, invece era transizione, verso sponde più potabili, decifrabili, artisticamente più accessibili.
Dodici mesi dopo la “rivelazione”, le mura delle città sono tappezzate di enormi manifesti che ritraggono due brutti ceffi, i fratelli Gallagher. Lì fuori Damon Albarn racconta le sue danze a Ibiza, crescono come funghi decine e decine di gruppi. I gruppi del britpop.
31/03/2013