Sex Pistols

Never Mind The Bollocks... Here's The Sex Pistols

1977 (Virgin)
punk

Se qualcuno volesse sapere che cos'è il punk, ci sono alcuni dischi che dovrebbe assolutamente ascoltare e "Never Mind The Bollocks... Here's The Sex Pistols" dovrebbe essere il cima alla lista. Il merito principale dei Sex Pistols con il loro unico vero Lp è stato, infatti, quello di fotografare perfettamente un'epoca, quella del "punk 1977", di rappresentare con grande lucidità (incredibile per un gruppo di ragazzi di strada messi insieme da un manager furbo e arrivista) un momento preciso del rock e diventarne il fulcro, il momento in cui è stato definitivamente abbattuto quello che ormai era diventato un colosso d'argilla per ricostruire al suo posto il nulla o il tutto a seconda dei punti di vista. "Never Mind The Bollocks", anche con la sua lunga e avventurosa genesi, ha reso evidente e innegabile che nulla sarebbe più stato lo stesso. Questo disco può essere contestato perché suonato in modo elementare, perché schifosamente nichilista e incosciente, oppure viceversa perché rappresenta anche (ma non solo) l'aspetto commerciale di un movimento che voleva essere anti-tutto per eccellenza, ma comunque non può essere ignorato. Non si può negare che abbia definitivamente portato tutto ciò che il punk voleva dire e fare a un punto di non ritorno. Chi odia "Never Mind The Bollocks" fa il suo gioco esattamente come chi lo ama: non c'è via di scampo, da questo disco bisogna passarci per forza.

I Sex Pistols fecero tutto, compreso farsi manovrare da McLaren, con l'incoscienza dei vent'anni, con la furia cieca di chi non aveva niente da perdere, proprio come i giovani della Gran Bretagna in crisi nera, economica e morale, della seconda metà degli anni 70. I canoni rock consolidatisi a partire dalla fine degli anni 60 non avevano più niente da dire a chi si trovava disoccupato, senza prospettive, senza un soldo, senza una guida e dunque anche senza più miti illusori. Era il 1976, musicalmente c'era stata una calcificazione di stilemi precipitata in brevissimo tempo: nel progressive, ormai salvo rare eccezioni in una fase d'agonia, fatta di masturbazioni strumentali e drammatica carenza di idee, sempre le stesse e ripetute all'infinito, nell'hard-rock, ormai pomposo, nel folk-rock arrivato alla vecchiaia, nella psichedelia ormai anch'essa integrata, nel pop ormai depotenziato in colonna sonora del sabato sera fighetto. Le raffinatezze strumentali e liriche suonavano tanto vuote e irritanti per quella gioventù allo sbando come uno spruzzo d'acido negli occhi, e quindi cosa fare? L'abbattimento degli idoli, o meglio il loro totale rifiuto, il non-riconoscersi in essi in quanto ormai troppo sideralmente lontani, era quanto di più naturale potesse esservi. Però cosa mettere al loro posto? La risposta fu il nulla, il puro e semplice rifiuto, disgusto, schifo e vomito per tutto ciò che i "grandi", ossia gli ex-giovani ormai imborghesiti (esattamente come coloro che un tempo avevano contestato) ascoltavano e veneravano. La perfetta colonna sonora di quel disgusto erano le nuove sonorità che venivano da oltreoceano: distorte, squadrate e veloci, dirette come un pugno quanto le altre erano ormai vuote e sfiancate.

Rifiuto e disgusto, dunque, il punk era tutto questo e in una situazione simile lo sbocco naturale non poteva essere che questo. Gli hippy del "flower power" avevano clamorosamente fallito nel tentare di cambiare il sistema, non restava che abbatterlo, almeno in parole e musica. Chi poteva offrire una prospettiva di ribellione immediata sia pur velleitaria a chi si trovava a vivere in quartieri devastati dall'abbandono e dalla disoccupazione? Le rockstar che si rigiravano nei miliardi proponendo virtuosismi strumentali che nessuno di quei ragazzi avrebbe potuto riprodurre, se non con secoli di studio, e raccontavano di folletti e mondi di fantasia? Certamente no, l'urgenza di gridare la realtà e abbattere quello stato di cose era terribilmente immediata. Quindi il punk fece quello che c'era da fare: rifiutare tutto il passato recente, tornare all'elementarità del ritmo, degli accordi e dello "sfogo" del rock and roll. Qualcosa che chiunque con il minimo del minimo di capacità potesse usare per urlare la propria rabbia.
"Never Mind the Bollocks" riassume in sé l'essenza di quello "sfogo": fondamentalmente fine a se stesso, insensato ma vivo e vibrante. Un grido infantile e anarchico frutto della presa di coscienza per l'assenza di prospettive, che si coglie nelle sue parole d'ordine: Nessun futuro! Nessun sentimento! Anarchia!
La stessa voce di Johnny Rotten è isterica, bambinesca e canzonatoria, una vera caricatura. I potenti riff chitarristici sono elementari per il disgusto di chi invece ammirava le ricercatezze strumentali, la batteria è sbattuta più che suonata, il basso è puramente ritmico.

Sì, direte voi, ma non sono mica stati i primi! Vero, non erano i primi e non erano certo gli unici, altri avevano suonato e stavano suonando in maniera elementare, ma con quintali di idee e di cose da dire. Non solo, ma una linea di rock più grezzo e diretto era sempre sopravvissuta più o meno sottotraccia: per citare alcuni più famosi, certi Rolling Stones, gli Stooges, i Kinks. E dunque? Dunque in "Never Mind The Bollocks" c'è il paradigma di tutto ciò, c'è appunto la sintesi di quello che il punk andava non-predicando nel momento della sua massima esplosione, sia musicalmente che a livello di testi: "I am an Antichrist, I am an anarchist/ Don't know what I want but I know how to get it" ("Io sono un Anticristo, Io sono un anarchico/ Non so cosa voglio ma so come ottenerlo").
Ed è già detto tutto Eccola la fotografia. Una capacità di sintesi davvero rara nel dichiarare i propri intenti, che poi erano appunto quelli di tutto il punk in quel 1977 di rivoluzione musicale. Non solo, ma la rivoluzione, come detto, era anche sociale: si aveva davvero paura di questi anarchici incomprensibili e pazzoidi. "Never Mind The Bollocks" già dalle sue prime due parole "I don't" = Io NON, grida il suo rifiuto e lo ripete lungo tutte le sue 12 tracce, si fa così portabandiera di un movimento senza più bandiere. I Sex Pistols sbattono in faccia al mondo il loro no a tutto, il loro essere elementari e volgari, il loro essere "la grande truffa del rock and roll", il loro "non saper suonare" e soprattutto di tutto questo se ne sbattono le palle.

Come accennato, sebbene fosse sostanzialmente pronto fin da molto prima dell'uscita, il disco ebbe una gestazione estremamente travagliata. I Pistols, già strafamosi in Inghilterra, si accasarono alla Emi, che però dopo i primi 45 giri - che pure schizzarono in testa alle vendite - preferì rompere il contratto appena sottoscritto pagando come penale fior di quattrini a vuoto alla band (e al suo manager) piuttosto che avere a che fare con le loro uscite sempre più gratuitamente provocatorie. Lo stesso fece subito dopo la A&M, senza nemmeno far pubblicare loro alcunché. Il gruppo produceva singoli oltraggiosi per le istituzioni britanniche e per tutti i perbenisti, i quali regolarmente devastavano le classifiche a dispetto di tutti i boicottaggi e le censure, nell'anno del giubileo si prendevano gioco della Regina (e rincaravano: "Non è un essere umano"), giravano per il quartiere ebraico di Londra esibendo magliette con la svastica, insultavano in diretta conduttori televisivi, si facevano arrestare e si facevano odiare, e tutto questo era acqua data a fiumi a una gioventù sottoproletaria inglese assetata di qualunque cosa fosse "anti". Erano di fatto ingestibili.
Probabilmente, checché ne dica McLaren, sfuggirono di mano persino al loro creatore, che tentava disperatamente di imbrigliarli di nuovo; non per nulla Rotten gli dedicherà la schifata "Liar" (bugiardo). L'album sembrava non dover mai vedere la luce e invece fu la Virgin a prendersi coraggiosamente in carico quei pazzi e a pubblicare finalmente quella che ormai era poco più di una raccolta dei singoli fulminati e fulminanti che i Pistols avevano sparato fino a quel momento, con qualche "perla" in più come la sarcastica "E.M.I. Unlimited Edition", dedicata a ovviamente all'etichetta che si meritava tutto il loro (e il nostro) disgusto.

Il disco, sebbene forse ripulito troppo in fase di missaggio, dal punto di vista musicale è duro e tagliente, perfettamente prodotto, tanto che sebbene abbia praticamente gli stessi suoni per tutta la sua durata, riesce a essere incredibilmente vivo dall'inizio alla fine. I riff grandiosi e ignoranti si susseguono uno dopo l'altro come schiaffi in una rissa e sembra di avere Rotten davanti che ci spara in faccia la sua risata satanica all'inizio di "Anarchy In The Uk", che ci spernacchia o che, con gli occhi spalancati e l'aria di essere appena uscito da una seduta di elettroshock, gioca a fare il bambino che pesta i piedi. Gli assolo di chitarra sono ridotti al lumicino come si conviene a un disco punk della prima ora, sebbene la chitarra distorta e suonata con semplici accordi sventagli costantemente su tutto; le rullate di batteria sono rabbiose e brevi mitragliate d'avvertimento; il "canto" arrabbiato non ha pietà nemmeno per le regole linguistiche. Comunque non è del tutto vero che i Sex Pistols non sapessero affatto suonare, questa è una leggenda diffusa dai loro nemici della sponda "raffinata" e da Malcom McLaren, nonché derivata dalla sciagurata assunzione di Sid Vicious. Il gruppo è perfettamente compatto e la sezione ritmica sa certamente il fatto suo; Rotten si "incastra" perfettamente nel gioco, la sua voce aspra e storpiata dallo slang e dai difetti di pronuncia è perfetta per la situazione. Certo, paragonato agli arpeggi delicati dei mastodonti rock del tempo tutto ciò sembrava orrendo ma… "We like noise it's our choice/ If's what we wanna do/ We don't care about long hair" ("Ci piace il rumore, è la nostra scelta/ Se è ciò che vogliamo /Ce ne freghiamo dei capelli lunghi").

Ci sono il livore, l'isteria rabbiosa ma anche una magnifica lucidità dei testi nel mettere alla berlina le artritiche vestigia inglesi, ma non solo, senza rispetto per niente e nessuno. A partire dalla ferale marcia militare con cui inizia "Holidays In The Sun", non ci sono momenti di pausa in questa corsa a perdifiato verso il nulla. In mezzo a al delirio di materiale da pogo all'ultimo sangue (titoli divenuti ormai inni come "No Feelings", "God Save The Queen", "Problems", "Anarcky In Uk", "Submission"), i Pistols si permettono anche un accenno di reggae-rock e di chitarra Keith Richards-oriented in "New York", producono cori malati e scordati in "Bodies", si fanno beffe persino della disoccupazione dilagante in "Pretty Vacant": "We're so pretty, oh so pretty!/ Vacant/ But now…/ And we don't care!" ("Siamo così carinamente, oh così carinamente/ Disoccupati/ ma ora.../ Non ce ne importa!") o dell'aborto - prendendo però inaspettatamente posizione contro - nella stessa "Bodies": "Body screaming, fucking bloody mess/ It's not an animal, it's an abortion" ("Corpo urlante, fottuto schifo sanguinolento/ Non è un animale, è un aborto"). Poi, naturalmente, c'è il famoso "No Future", divenuto addirittura sinonimo di "punk". E mucchi di amenità simili. Questo è il disco meno scontato e più antiretorico della storia del rock.

Che cosa è rimasto di "Never Mind The Bollocks" e di tutti i singoli che lo precedettero e lo compongono? Tantissimo, se si pensa che questo disco, certo insieme ad altri e persino meno innovativo di altri, ha fatto definitivamente esplodere il fenomeno punk in tutto il mondo, quindi è stato tra i principali artefici di quella piazza pulita che nel 1977 travolse gli standard universalmente accettati di cosa fosse il rock spalancando così la porta a mille fermenti che di lì a subito diedero vita a quella che fu chiamata new wave, e ancora se pensiamo che è stato forse la principale influenza che ha portato alla nascita dell'hardcore, che a sua volta ha tenuto in vita lo spirito e l'attitudine punk e ha fruttato capolavori altrimenti difficilmente immaginabili. Ma ancora l'oltraggiosità dei Sex Pistols e l'essenzialità di quest'album saranno punti di riferimento importanti per la rinascita del rock farcito di punk a partire dalla seconda metà degli anni 80. La sua influenza si avverte ancora oggi.

Il gruppo oltre a questo disco non produsse praticamente nient'altro, travolto dalle liti, dalla stupida sostituzione dell'ispirato Glen Matlock con il delirante Sid Vicious (che pure qui compare in alcune tracce) e dalla loro stessa incoscienza. Questo disco pertanto è i Sex Pistols. Bruciarono in fretta come le loro canzoni, come lo stesso punk 1977 duro e puro, e anche in questo sono stati esemplari del fenomeno.
Frank Zappa ebbe ad affermare: "I punk dicono: Ok, noi suoniamo distorto e veloce e allora? Ecco, a me piace quel: e allora?". "Never Mind The Bollocks" è appunto un gigantesco: "E allora?".

09/11/2006

Tracklist

  1. Holidays in the Sun
  2. Bodies No Feelings
  3. Liar
  4. Problems
  5. God Save the Queen
  6. Seventeen
  7. Anarchy in the U.K.
  8. Submission
  9. Pretty Vacant
  10. New York
  11. E.M.I.

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