Nell'ormai lontano 1989, al crepuscolo di un decennio musicale dalle mille luci e dalle mille ombre e al primo albeggiare di una nuova era colma di inquietudini e contraddizioni, compariva sugli scaffali dei negozi di dischi una copertina strana e affascinante che, attraverso la multipla esposizione di macabri e oscuri fiori (del male, verrebbe da dire, citando in maniera un po' gratuita ma forse calzante l'amaro spleen delle poesie di Baudelaire) su uno sfondo verde cupo, come di acque torbide e gelate, lasciava filtrare il sorriso sardonico e lo sguardo intenso di uno dei personaggi più carismatici della musica pop e rock. Uno sguardo che aveva attraversato l'intero decennio appena trascorso, allargando le pupille nelle penombre del post-punk degli esordi di "Three Imaginary Boys", scrutando nell'oscuro abisso gotico di "Seventeen Seconds", "Faith" e "Pornography", cercando squarci di luce con "Japanese Whispers" e "The Top" e foggiandosi infine nella maschera grottesca, ma ironica e persino a tratti giocosa, dell'inquietante incrocio tra un malinconico Pierrot e un sarcastico Joker degli album della "svolta pop" di "The Head On The Door" e "Kiss Me Kiss Me Kiss Me".
Nel 1989 The Cure non era più il gruppo oscuro per (relativamente) pochi eletti dei primi tre o quattro album, era ormai una band famosa, che riempiva gli stadi, che in Italia aveva partecipato da ospite ad alcune trasmissioni televisive di successo e che poteva contare su un pubblico ampio e trasversale, che spaziava dall'appassionato di rock al fruitore del più generico pop, dal giovane gotico in lugubri gramaglie al più trendy e disimpegnato degli ascoltatori, conquistato alla causa grazie alle irresistibili melodie di singoli di successo come "In Between Days" o "Just Like Heaven".
Per la band di Robert Smith era giunto il momento di tirare una linea, dire la parola "fine", chiudere un'epoca e porre le basi per una nuova partenza, fondendo l'oscurità degli esordi con la maggiore fruibilità della fase successiva. Ricostruire, insomma, non prima di aver distrutto, anzi disintegrato, il passato. Il titolo del nuovo lavoro dei Cure, quindi, chiariva già da solo gli scopi e gli intenti di un'opera che sarebbe entrata nella storia del rock come l'album forse più controverso della discografia del gruppo: amatissimo da milioni di anime sensibili per lo struggente romanticismo del quale era intriso, snobbato perché considerato troppo pomposo e "commerciale" da moltissimi altri, tra i quali non pochi fan della prima ora. Non posso che ammettere candidamente di far parte della prima categoria: "Disintegration" è un'opera sontuosa e affascinante, malinconica e autunnale (ma paradossalmente pubblicata in piena primavera!), intensamente disperata e disperatamente intensa... è stato amore al primo ascolto, uno di quelli che durano tutta la vita.
In effetti non è facile parlare di ciò che si ama profondamente: si rischia di essere stucchevoli, retorici o, molto più semplicemente, di non riuscire a trovare le parole adatte a rendere una passione così totale e, nello stesso tempo, a conservare quel pizzico di obiettività necessaria a scrivere un commento minimamente attendibile. Ci proverò partendo dal principio, dal primo irrinunciabile atto d'amore nei confronti di un disco: poggiare per l'ennesima volta il vinile sul piatto, o più prosaicamente il cd nel lettore, alzare il volume (come del resto viene raccomandato nelle note di copertina), e lasciare che i brividi mi travolgano, oggi come allora.
"Disintegration" è un classico "concept album", uno di quei lavori le cui canzoni sono inscindibilmente legate le une alle altre a formare un'opera unica che, per essere compresa e apprezzata, va necessariamente fruita per intero. Il disco non è una semplice raccolta di musica pop, è un percorso catartico, un lavacro purificatore, una tormentata discesa nei propri personali gironi infernali, alla ricerca della luce che, forse, arriverà solo alla fine del viaggio. Un disco perfetto da ascoltare nei pomeriggi di autunno, quando la luce lentamente scompare, avvolta da nubi oscure, e la pioggia comincia a rigare i vetri delle finestre.
L'album, prodotto dallo stesso Robert Smith in collaborazione con David M. Allen (già al lavoro con band di straculto degli anni 80 come Sisters Of Mercy e Chameleons, ma anche con la nostrana Gianna Nannini), viene inciso negli Outside Studios del Berkshire e pubblicato dalla Fiction Records.
Ormai i "tre ragazzi immaginari" degli esordi sono diventati un quintetto: la line-up della band, infatti, è molto simile a quella già sperimentata in "The Head On The Door" e "Kiss Me Kiss Me Kiss Me", con Robert Smith alla chitarra e voce, il fido Simon Gallup al basso, Porl Thompson alla chitarra, Boris Williams alla batteria e la new entry Roger O'Donnell che, di fatto, viene chiamato a sostituire alle tastiere il socio fondatore della band Lol Tolhurst, citato nei credits dell'album, ma all'uscita del disco ormai fuori dai Cure.
"Disintegration" si apre con "Plainsong", che già dalle prime note è una dichiarazione d'intenti: grandiosa, magniloquente, disperata, a cominciare dall'indimenticabile intro strumentale, due minuti e quaranta di psichedelia dal sapore quasi orchestrale, dall'andamento suadente e ricco di raffinati effetti sonori, che lasciano progressivamente spazio alla voce indolente di Robert Smith e a un testo dalle tetre e romantiche coloriture gotiche, che raccontano di Eros, di Thanatos e del terribile e magnifico stordimento che ciascuno di noi prova di fronte alla persona amata, al suo sorriso che, come un lampo, squarcia le tenebre e ci destabilizza, facendoci sentire come se ci trovassimo in bilico sull'orlo del mondo: "'I think it's dark and it looks like rain'/ You said/ 'And the wind is blowing like it's the end of the world'/ You said/ 'And it's so cold/ It's like the cold if you were dead'/ And then you smiled/ For a second/.../ Sometimes you make me feel/ Like I'm living at the edge of the world/ .../ 'It's just the way I smile'/ You said". "Plainsong" è solo l'inizio del viaggio e già intuisci che sarà doloroso, ma necessario.
Il cammino prosegue con "Pictures Of You", una delle canzoni (mi sbilancio, lasciatemelo fare) più belle della musica pop di tutti i tempi. Malinconica, struggente, nostalgica, sette minuti e ventotto secondi di pura estasi per un brano miracolosamente in bilico tra coretti quasi easy listening, atmosfere gotiche e chitarre psichedeliche: se "Plainsong" era l'enunciazione del dolore, "Pictures Of You" è la malinconia del ricordo, lo struggimento di un amore perduto o mai nato, la nostalgia per una personale età dell'oro che, forse, non c'è mai stata: "Remembering you/ Standing quiet in the rain/ As I ran to your heart to be near/ And we kissed as the sky fell in/ Holding you close/ How I always held close in your fear/.../ If only I'd thought of the right words/ I could have held on to your heart/ If only I'd thought of the right words/ I wouldn't be breaking apart/ All my pictures of you".
Un tappeto di percussioni, su una muraglia di tastiere alternate a chitarre dal sapore lisergico, introduce alla terza traccia dell'album, intitolata "Closedown" e che, sebbene più ritmata e apparentemente meno pensosa, presenta un testo scarno che ancora una volta racconta di un disperato bisogno d'amore: "I'm running out of time/ .../ If only I could fill/ My heart with love".
"Lovesong", ostinata e forse velleitaria rivendicazione del proprio desiderio di amare, è la classica canzone pop "perfetta", tre minuti e trenta secondi che fin dal primo ascolto s'imprimono indelebilmente nella memoria, riscaldando il cuore di qualsiasi animo sensibile con un testo apparentemente banale ma che, nella propria semplicità, coglie in maniera precisa la totalizzante essenza dell'amore: "Whenever I'm alone with you/ You make me feel like I am home again/ Whenever I'm alone with you/ You make me feel like I am whole again/.../ However far away/ I will always love you".
Ma Giano è sempre bifronte ed ecco che, paradossalmente, un brano che ha appena raccontato della ferma intenzione di amare per sempre sfuma nel successivo che, al contrario, narra di un addio: "Last Dance", canzone apparentemente dimessa, ma in realtà estremamente suggestiva nelle sue coloriture post-punk che sembrano arrivare dritte dai primi anni 80, è uno dei due brani originariamente esclusi dalla versione in vinile dell'album e presenti solo in quella su cd (l'altro è "Homesick"). Attraverso la metafora dell'ultimo ballo, la canzone narra dello struggente addio a un amore ormai perduto e a una ragazza che ormai si è fatta donna, allontanandosi per sempre: "I'm so glad you came/ I'm so glad you remembered/ To see how we're ending/ Our last dance together/ .../ A woman now standing where once/ There was only a girl".
Si giunge così alla celeberrima "Lullaby", il singolo trainante dell'album ma, probabilmente, anche la canzone meno interessante della raccolta. Il brano, estremamente orecchiabile e sicuramente suggestivo, è una filastrocca horror un po' artificiosa, nonché una rappresentazione di come tutti noi torniamo bambini e spauriti di fronte all'oscurità della notte e ai mostri che vengono negl'incubi a turbare il nostro sonno: "Quietly he laughs and shaking his head/ Creeps closer now/ Closer to the foot of the bed/ And softer than shadow and quicker than flies/ His arms are all around me and his tongue in my eyes/ "Be still, be calm, be quiet now, my precious boy/ Don't struggle like that or I will only love you more/ For it's much too late to get away or turn on the light/ The spiderman is having you for dinner tonight"". "Lullaby" è, per certi versi, un corpo estraneo nel percorso di "Disintegration", una giocosa "Danse Macabre" degna degli spaventi "gentili" del cinema di Tim Burton ma che, con l'epico e magniloquente romanticismo del resto dell'album, sembra abbia davvero ben poco da spartire.
Il viaggio continua con le percussioni martellanti e le indomite chitarre della tiratissima e rabbiosa "Fascination Street" (uno dei singoli della raccolta, assieme a "Pictures Of You", "Lovesong" e "Lullaby"), che, in origine, chiudeva il primo lato della versione in vinile.
Con la seconda parte dell'album le atmosfere si fanno ancora più plumbee e suggestive: "Prayers For Rain" è una preghiera tesa e disperata che nella pioggia cerca la catarsi, il lavacro purificatore che possa riscattare un'esistenza ridotta ai minimi termini da un amore che questa volta viene vissuto come totalizzante negazione di sé: "You fracture me/ Your hands on me/ A touch so plain/ So stale it kills/ You strangle me/ Entangle me/ In hopelessness and/ Prayers for rain/ I deteriorate/ I live in dirt/ And nowhere glows/ But drearily and tired/ The hours all spent/ On killing time again/ All waiting for/ The rain". La canzone è una rete che implacabilmente avvince e avviluppa, sei minuti tra i più indimenticabili di una raccolta sbalorditiva per l'eccezionale intensità che è in grado di produrre.
E la pioggia finalmente arriva con "The Same Deep Water As You": la canzone è aperta dal cupo rombo di tuoni lontani e continua con il fruscìo della pioggia tanto attesa. E' forse il brano più struggente dell'intero disco, Robert Smith sembra intonare, quasi al rallentatore, un canto funebre dall'andatura solenne e dolente che racconta in prima persona una storia di separazione e di perdita ("Kiss me good-bye"), la difficoltà di condividere un sentimento ("Can't you see I try?/ Swimming the same deep water as you is hard") e, per l'ennesima volta, l'ostinata rivendicazione del proprio diritto e del proprio desiderio di amare ("I will kiss you, I will kiss you/ I will kiss you forever on nights like this/ I will kiss you, I will kiss you/ And we shall be together"). "The Same Deep Water As You" è uno dei massimi capolavori dell'album, oltre nove minuti di sognante e indimenticabile flusso sonoro nel quale è affascinante e allo stesso tempo spaventoso perdersi.
Quando la pioggia finisce, lascia il posto al furore: la title track, "Disintegration", con il suo incedere epico ed incalzante, narra della rabbia impotente che accompagna la letterale disintegrazione di un rapporto d'amore, lo sconvolgimento interiore che la dissoluzione di una coppia inevitabilmente comporta: "But I never said I would stay to the end/ So I leave you with babies and hoping for frequency/ Screaming like this in the hope of the secrecy/ Screaming me over and over and over/ I leave you with photographs/ Pictures of trickery/ Stains on the carpet and/ Stains on the scenery/ Songs about happiness murmured in dreams/ When we both us knew/ How the ending would be". Il canto di Robert Smith si alza fino a diventare un vero e proprio grido di dolore, mentre la "disintegrazione" si compie lasciando letteralmente a pezzi il suo cuore: "Now that I know that I'm breaking to pieces/ I'll pull out my heart/ And I'll feed it to anyone".
Eppure, per il ben noto contrappasso secondo il quale a una crisi corrisponde sempre un'opportunità, anche un evento così traumatico, come la dissoluzione di un amore, sembra contenere una valenza positiva: solo disintegrando la propria vita, facendola a pezzi, letteralmente, si può provare a raccoglierne i frammenti e a ricostruirli. La catarsi passa necessariamente attraverso la distruzione e la ricomposizione e, alla fine, la purificazione si compie, attraverso la struggente e dolcissima malinconia della bella "Homesick" (nostalgia... chi non ne ha mai provata per qualcuno o qualcosa?) e la composta tranquillità (o quantomeno quieta disperazione) di "Untitled", l'ultimo brano del disco, che è quello della definitiva presa di coscienza di una sconfitta ("Never quite said what I wanted to say to you/ Never quite managed the words to explain to you/ Never quite knew how to make them believable/ And now the time has gone/ Another time undone") ma anche quello della pacificazione e, forse, della riconquistata serenità. E' significativo, in tal senso, che "Untitled" sia l'unico brano quasi luminoso dell'album, un raggio di pallido sole che squarcia il grigio delle nubi a regalare una nuova speranza. E non è un caso che la canzone sia "senza titolo", trasformandosi in una sorta di pagina bianca e aperta al futuro, sulla quale ciascuno potrà provare a scrivere una nuova storia.
Si chiude così l'ultimo grande album dei Cure: la band inglese proseguirà il suo cammino, con esiti alterni, fino ai nostri giorni e, nel 2000, Robert Smith spiegherà come il nuovo disco "Bloodflowers" (forse il più convincente degli ultimi vent'anni) fosse la terza parte di una sorta di "trilogia oscura", iniziata nel 1982 con "Pornography" e proseguita nel 1989 con "Disintegration". A ribadire il filo rosso che legherebbe i tre album, nel 2003 uscirà un Dvd live, intitolato non a caso "Trilogy", che metterà in fila le intere scalette dei tre dischi.
Al di là della continuità con lavori precedenti o successivi, "Disintegration" è un'opera senza tempo e luogo, difficilmente incasellabile, che si è guadagnata, fin da subito ma ancora di più con il passare degli anni, un nutrito seguito di appassionati, conquistati dall'epico e malinconico romanticismo che scorre (come pioggia d'autunno?) lungo i solchi dei dodici magnifici brani che la compongono.
Il disco della disintegrazione, della ricomposizione e della purificazione, il disco della pioggia, della struggente nostalgia e del malinconico sorriso, il disco dell'amore perduto, di quello ritrovato e di quello che non ha alcuna intenzione di smettere di amare, il disco della vita per molti di noi.
27/11/2011