I Cure sono un terzetto di diciottenni provenienti da Crawley, Sussex che tenta di sfondare nella scena musicale britannica del 1977 attraverso la più classica formula rock: chitarra (Robert Smith), basso (Michael Dempsey), batteria (Lol Tolhurst). Siamo in piena epoca punk (in estate i Sex Pistols hanno sconvolto l'Inghilterra con l'inno "Anarchy In The Uk") e la musica dei Cure risente di questa influenza, contaminandola però con un gusto per la melodia pop tipicamente britannico e producendo una serie di canzoni vivaci, brevi, di facile presa.
L'esordio sarà quindi piuttosto distante dalle sonorità d'atmosfera per cui il terzetto diverrà famoso, persino più acerbo dell'Ep "An Ideal For Living" che nel 1978 annuncia l'arrivo sulla scena dei Joy Division. Eppure non mancano i segni di quanto sta per venire: "Killing An Arab", il primo singolo edito, è un brano scarno e tirato come vuole la tradizione punk, ma costruisce un clima di mistero attraverso linee melodiche di sapore esotico e una voce spettrale e angosciata, che canta un episodio ripreso dal romanzo esistenzialista di Albert Camus "Lo straniero". Il lato B del 45 giri, uscito nell'inverno del '78 e poi ristampato nel '79 dalla Fiction, è "10:15 Saturday Night", un brano che rappresenta il vero manifesto musicale dei Cure, con un senso di claustrofobia creato dall'iterazione ossessiva delle stesse figure di basso e chitarra e poi stemperato in un crescendo liberatorio sul ritornello.
Robert Smith si pone da subito come figura carismatica, in grado di marchiare col suo peculiare stile chitarristico (parco di note, ma di grande effetto) e vocale (appassionato e querulo al tempo) l'intera produzione della band.
Nel '79 esce un altro brano simbolo della band, quella "Boys Don't Cry" che rivela al mondo il supremo talento di Smith nel costruire accattivanti melodie pop, ma anche il carattere nostalgico della sua indole, rivolto contemporaneamente all'età dell'innocenza della musica rock, gli anni Sessanta, e, in chiave esistenziale, a una infanzia perduta, destinata a venir rievocata con rimpianto. Questi elementi saranno ricorrenti nella produzione della band, e finiranno per decretarne il successo nel corso degli anni Ottanta.
L'album d'esordio Three Imaginary Boys ripropone la formula pop-rock dei primi singoli (che, secondo una tradizione tipicamente britannica, non vengono inclusi) con minor estro, ma consegna almeno altre due perle come "Fire In Cairo", mirabile esempio dello stile cristallino di Smith, e la title track, prima di tante ballate malinconiche della band, immancabilmente destinate a culminare con un assolo lancinante del leader.
L'album ha uno strano destino: quasi rinnegato da Smith, che lo considera una sorta di falsa partenza ma non mancherà mai di riproporne ampi stralci dal vivo, verrà citato dai Massive Attack su "Mezzanine" del 1998 (con un campionamento di "10:15") e da numerose altre band negli anni Duemila: i fan dei Bloc Party all'ascolto di questo disco potrebbero provare un senso di familiarità.
Come closer and see
See into the trees
Find the girl
If you can
("A Forest")
Con Seventeen Seconds del 1980 le atmosfere si incupiscono, i ritmi rallentano, le sparse note di chitarra echeggiano in uno spazio vuoto, nel quale emerge a tratti la voce di Smith, come un lamento ultraterreno. E' il disco che consegna alla storia i Cure più noti, nonché la canzone che più di tutte li rappresenta.
Forte di un testo sinistro ("Come closer and see/ See into the trees/ Find the girl/ If you can"), "A Forest" è un irresistibile saliscendi di basso e chitarra che si perdono, dopo circa sei minuti di trip, nell'intrico di un assolo che si attorciglia su se stesso fino a spegnersi sulle note cadenzate di un basso simile al battito di un cuore pulsante. Il cambiamento è frutto dell'ingresso di Simon Gallup (da allora in poi una colonna portante della band e un vero e proprio alter ego di Smith) alle quattro corde ma anche dell'incontro con le atmosfere glaciali di dischi come "Unknown Pleasures" dei Joy Division e "The Scream" di Siouxsie and the Banshees, oltre che dell'effetto devastante provocato da una serata di spalla ai Wire, al termine della quale Smith, scioccato dal confronto improbo, ha deciso di irrobustire il suono dei Cure.
Si riscontra a tratti quindi una maggiore pienezza del suono, data dai primi, semplici, interventi di synth ("In Your House") e da una chitarra effettata con ampio uso del flanger, rutilante nella vivace "Play For Today", affilata nella lunga ipnosi di "At Night" (che nel testo riprende un breve scritto di Kafka), solenne nella title track.
E' la band di Ian Curtis a esercitare la maggior influenza su Faith, il terzo Lp dei Cure, ormai decisi a confrontarsi con brani lunghi, dallo sviluppo lento e solenne e caratterizzati dal suono delle tastiere e del basso a sei corde (o chitarra baritono), che spesso affiancano o sostituiscono la chitarra. Nel singolo "Primary" due bassi si rincorrono a perdifiato, con andamento lineare ed energico, come impone la migliore scuola new wave, mentre nella title track i due strumenti dialogano in una pacata dissertazione destinata a rompersi sul finale in uno stillicidio disperato commentato dalla voce: "There's nothing left but faith", non rimangono idee o valori cui aggrapparsi, se non una speranza irrazionale.
Sono però i brani dominati dalle tastiere a stabilire il tono dell'album: "All Cats Are Grey" e "The Funeral Party" sono due abissi contemplativi, dove vengono abbandonate anche le tipiche convenzioni compositive, è difficile distinguere un ritornello, e nella prima la voce entra in campo dopo una lunga introduzione, per poi lasciare subito spazio a una funerea coda. La voce costruisce delle vere e proprie litanie, orazioni disperate sul tema della perdita dell'innocenza e sulla consapevolezza della morte, in una sorta di liturgia pagana che crea, una volta per tutte, il mito dei Cure più gotici.
Un breve ritorno al formato 45 giri porta il brano "Charlotte Sometimes", ballabile e romantico, dove Smith sembra identificarsi, non per l'ultima volta, con un ideale femminile dolce e sognante, unica ancora di salvezza di fronte alla sincera angoscia che pare attanagliarlo.
Doesn't matter if we all die
("One Hundred Years")
Eppure rimane un perverso gusto per la melodia che rende irresistibili questi brani ossessivi e dolorosi, e renderà grande il più compiuto album successivo, ovvero Pornography. Qui le ritmiche del basso e della batteria vengono in primo piano con un effetto quasi tribale, mentre la chitarra inanella una serie di riff tra i più incisivi e memorabili partoriti da Smith.
"One Hundred Years", avviata da un verso raggelante ("Doesn't matter if we all die") e propulsa da una martellante drum machine, costruisce un crescendo da thriller attraverso un affastellarsi di riff claustrofobici poi scompaginati da un break convulso, "The Figurehead" replica lo schema in chiave solenne e lirica, con il climax che cade sul verso-chiave ("I can't never say no/ to anyone but you"), "Siamese Twins" avanza trascinata da un riff circolare, lento e inesorabile, fino all'urlo finale "is it always like this ?" ("sarà sempre così?"). La title track abbandona addirittura le abituali, pulite, forme rock dello Smith chitarrista, per abbandonarsi a un incubo ambient che sembra parimenti figlio di "Atrocity Exhibition" dei Joy Division e di "Empty Spaces" dei Pink Floyd (siamo di fronte al "The Wall" della new wave?).
Sono però i testi e le declamazioni di Smith a rendere tutti i brani degli autentici inni di una crisi che è condivisa dal cantante coi ragazzi del suo pubblico, disorientati dal vuoto di prospettive e dal conformismo degli anni Ottanta, cui reagiscono trasformando i Cure in un autentico fenomeno di culto, pronto a dilagare dall'Inghilterra al resto d'Europa. In Pornography il tema della caduta da uno stato di innocenza primigenio viene portato alle estreme conseguenze, consegnando la visione di un mondo fatto di degradazione e corruzione, dove l'esperienza, il tempo, il sesso, sono soltanto i viatici di una morte mai così contigua alla vita stessa. Il ritornello di "Hanging Garden" col suo "fall, fall out of the sky" porta questa tematica alla magniloquenza, citando addirittura il "Paradise Lost" (e l'episodio della caduta di Lucifero) di Milton, e proponendo il cantante come un vero e proprio angelo caduto del rock.
Sono brani destinati a durare, non stupisca quindi il sentire "All Cats Are Grey" in chiusura della pellicola ultra-cool di Sofia Coppola "Marie Antoinette", del 2006.
Nel 1983 Smith gioca una mossa da trasformista degna del suo idolo David Bowie: da un lato si unisce ai Banshees come chitarrista (partecipando al live "Nocturne" e all'Lp "Hyaena"), dall'altro bombarda le radio con una raffica di singoli pop ("Let's Go To Bed", "The Walk", "The Lovecats"), volti a sfatare l'immagine cupa della band e a proiettarla verso il successo commerciale. A questo ultimo obiettivo tendono soprattutto i videoclip di Tim Pope, che trasformano Smith in un'icona del pop anni Ottanta: ciuffi di capelli corvini sparati all'indietro, eyeliner sugli occhi, rossetto sulle labbra per una sorta di clown triste, consapevole tanto della futilità estrema delle cose del mondo quanto della possibilità di spassarsela finché si può. E', dopo Ziggy Stardust, una delle immagini più forti del rock degli ultimi trent'anni, tanto da venir ripresa quasi in toto dal geniale regista americano Tim Burton per il film "Edward Mani di Forbice" del 1990.
Say goodbye on a night like this
If it's the last thing we ever do
You never looked as lost as this
Sometimes it doesn't even look like you
("A Night Like This")
Questo Smith edonista porta al successo dischi come The Top del 1984 e The Head On The Door dell'85, sospesi tra pop, psichedelia nostalgica dei Sessanta e reminescenze new wave, trainati da singoli di facile presa. "Inbetween Days" sorprende per il suo avvicinare la lezione dei New Order più melodici a un pop-rock di stampo "Boys Don't Cry", allontanandoli dalla dance, "Close To Me" vede Smith recitare su un basso gommoso e ballabile, memore degli Xtc, mentre "The Caterpillar" è una ballad accompagnata da coretti e vocalizzi al tempo infantili e sinistri, tra i sogni acustici di Syd Barrett e la "Solsbury Hill" di Peter Gabriel.
Si tratta di pop di qualità, che troverà repliche negli anni successivi ("Just Like Heaven" sarà una sorella romantica di "Inbetween Days", cui aggiungerà un sognante riff di chitarra) e che allontana le accuse di cinismo aleggianti sui due bizzarri singoli dell'83, ovvero il jazz da cartoni animati di "The Lovecats", e il pastiche di Japan e "Blue Monday" di "The Walk".
Nei dischi di metà anni Ottanta si rompono gli schemi precedenti attraverso l'inserzione di sonorità esotiche (si vedano il flamenco di "The Blood", le sonorità arabeggianti di "Wailing Wall", la nipponica "Kyoto Song") seguendo l'esempio dei Banshees da "A Kiss In The Dreamhouse" in poi, si pratica l'adozione di modalità più decisamente rock (una "Shake Dog Shake" odorosa di Psychedelic Furs, una "Push" memore della gilmouriana "Run Like Hell"), si sperimentano melodie e ritmi smaccatamente solari (nei singoli, ma anche nell'assolo di soul sghembo che impreziosisce "A Night Like This").
Se The Head On The Door punta alla perfezione pop e raggiunge il successo (complice il video di "Close To Me" coi Cure rinchiusi in un armadio che precipita da una scogliera), The Top è un disco malato, di transizione, arricchito però da citazioni testuali e musicali fuori dai canoni. "The Birdmad Girl" riecheggia i versi della poesia "Love In The Asylum" di Dylan Thomas, trattando il tema della follia in modo toccante, mentre "Bananafishbones" richiama contemporaneamente, con balzo postmoderno, il Salinger dei "Nove racconti" ("A perfect day for bananafishbones") e il David Bowie di "It's No Game", spendendosi sul binomio fama-suicidio, cui Smith pare aver deciso di non aderire.
Con Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me del 1987 si alza la posta in gioco, complice l'ingresso nella band dell'ottimo chitarrista Paul Thompson (poi con Page e Plant): si spazia tra vortici convulsi di chitarre psichedeliche ("The Kiss"), raga ("The Snakepit"), atmosfere orientali (l'ottima "If Only Tonight We Could Sleep", recentemente rifatta dai Deftones), ma anche deliranti escursioni funky ("Hot, Hot, Hot"), rhythm and blues ("Why Can't I Be You"), disco ("Icing Sugar").
Nella sua spericolata varietà di doppio album, figlio non troppo degenere del disco bianco dei Beatles del '68, l'album si rivela un vero e proprio apice della carriera dei Cure, corredato dal successo dell'elegiaca "Just Like Heaven", tanto trasversale da piacere perfino ai Dinosaur Jr, che la rileggono l'anno dopo in versione hard-rock. Questo è anche l'album erotico dei Cure, dove il sesso viene in parte liberato dalle pulsioni di morte che lo opprimevano in Pornography (pur sopravvissute a livello di citazione letteraria, si vedano gli accenti baudelairiani di "The Kiss") e ricondotto a una più calda sensualità.
I'll never dream of you again
("Disintegration")
Con una ennesima mossa a sorpresa, Smith torna però a immergersi nelle atmosfere romantiche e drammatiche dei primi Ottanta, pur conservando l'esperienza melodica maturata nel frattempo, e nel 1989 consegna il capolavoro Disintegration.
L'album vede il successo di singoli quali "Lullaby" (che sta a Robert Smith come "Ashes To Ashes" a David Bowie), "Lovesong", "Pictures Of You", ma si fa apprezzare soprattutto per il corpus delle restanti canzoni costituito da brani che, pur essendo delle ballate piuttosto lineari, stupiscono per il carattere roboante e maestoso degli arrangiamenti, dove le ossessioni ritmiche di Pornography rinascono in chiave elegiaca e fatalista, scandendo lo svolgersi dei rimpianti per il tempo che passa, l'innocenza ormai lontana, i sogni sempre più irraggiungibili.
A punteggiare le consuete declamazioni sono le partiture orchestrali ricreate dal tastierista O'Donnell (che si produce in una struggente figura pianistica su "Homesick") e i riff minimali eseguiti sul basso a sei corde, strumento a cui Smith riesce a conferire una sonorità e un valore del tutto originali, utilizzandolo spesso nei brani più autobiografici. "Pictures Of You, in particolare, costruisce un autentico monologo interiore sul rimpianto e la nostalgia dell'amore, lasciandolo fluire su un ipnotico riff, liberandolo dalle pastoie della scrittura, per un flusso di coscienza che si innalza e si abbassa insieme alla melodia, secondo il succedersi delle felicità rimembrate e degli amari ritorni alla ragione ("se solo avessi trovato le parole giuste/ per aggrapparmi al tuo cuore").
Sono memorabili anche la fanfara iniziale di "Plainsong", una "Last Dance" pervasa da liquide chitarre, il pathos di una "Same Deep Water As You", dove la voce sembra rotta dal pianto e l'assolo scala vette di lirismo, il tour de force vocale di "Disintegration", l'abbandono finale di una "Untitled" che, su una singhiozzante fisarmonica, sembra spedire cantante e spettatori, spossati, al riposo di un sonno senza sogni ("I'll never dream of you again").
A fissarsi nella memoria collettiva è però il videoclip di "Lullaby", ennesimo capolavoro di Tim Pope. Il brano, sorta di filastrocca aracnofobica declamata da Smith (sull'esempio delle tradizionali nursery rhymes che genitori inglesi un po' sadici raccontavano ai bambini) con l'accompagnamento di chitarre vagamente funky e di archi sintetici tendenti al valzer, in onirico equilibrio, viene trasposta visivamente in un incubo gotico omaggiante il film d'esordio di David Lynch "Eraserhead" (1977), dove il protagonista sogna di sprofondare nel letto, come inghiottito da una bocca gigantesca. Considerando l'acconciatura verticale sfoggiata dal protagonista del film, e ancora oggi dallo stesso regista, ci si chiede se l'anticipatore dello stile "dark" non sia stato proprio l'autore di "Twin Peaks" e "Mulholland Drive"...
La parte maggiore della carriera dei Cure si chiude con Wish del 1992, album gradevole ma interessante soprattutto per la naturalezza con cui si accosta alle sonorità del movimento shoegazer allora in auge. Ecco dunque l'attacco tosto di "Open", il delirio wah-wah di "Cut", i miasmi di "End", l'epos oceanico di "From The Edge Of The Deep Green Sea", con la melodia che monta e si distende come un'onda di marea, sospinta dalla spuma delle chitarre effettate.
E' un disco energico (anche nei brani più pop, si veda la demenziale e adorabile "Doing The Unstuck"), che sacrifica il vecchio intimismo al bisogno di sonorità in grado di reggere lo spazio degli stadi americani dove ormai la band, all'apice del successo, si trova a suonare abitualmente. Per un gruppo come i Cure, ingiustamente isolato dalla critica nelle ristrette pastoie della categoria gothic, è interessante notare l'appartenenza piena alla evoluzione della musica popolare britannica, come figli di Beatles, Pink Floyd, David Bowie, e come influenza (non unica, ovviamente) per gruppi come Slowdive, Cranes, Mogwai.
Spenti i fuochi (fatui) dell'ultimo successo "Friday I'm In Love", rimane una band che non sa come porre fine alla propria storia. Ecco quindi i recenti album di inediti sempre dignitosi (nonostante la delusione dei fan più accaniti) ma pleonastici, incapaci di aggiungere qualcosa di nuovo ai consueti stilemi se non una patina di travagliata maturità, tra le stranianti esuberanze di Wild Mood Swings (1996, il titolo più debole del catalogo), le malinconie di Bloodflowers (2000) e i fragori non sempre giustificati di The Cure, che presenta uno Smith affiliato al produttore del primo album dei Korn, Ross Robinson, e sorprendentemente vivace verso la soglia dei cinquant'anni. Sono dischi divisi tra la tentazione di osare e il bisogno di conferme e rassicurazioni.
Ecco dunque l'apprezzabile uso di calde sonorità acustiche su Wild Mood Swings (dotato di un quartetto d'archi e di una sezione fiati che fa illividire i vecchi fan), esaltante sull'epica "Want" e sulle intime "Jupiter's Crash" e "Treasure", ma ridondante nella pletora di insipide pop-song inserite allo scopo di circuire radio del tutto dimentiche e perse dietro alle gesta dei fratelli Gallagher (siamo in pieno uragano britpop).
Il singolo "Wrong Number", francamente mediocre, offre il destro a un aneddoto: nel 1997 finalmente Robert Smith incontra David Bowie, suo idolo fin da quando, adolescente, era stato folgorato da "Ziggy Stardust", e festeggia i cinquant'anni del Duca Bianco con un duetto sul palco del Madison Square Garden. Ne risulta una versione di "Quicksand" da lacrime, successivamente però Smith si lamenta di non aver potuto scegliere il pezzo da cantare (non gli hanno lasciato fare "Young Americans") e, invaghitosi delle sonorità elettroniche dell'ultimo album di Bowie, "Earthling", gli ruba temporaneamente Mark Plati e Reeves Gabrels per crearne una sua interpretazione: il brano realizzato è però poco entusiasmante.
Su Bloodflowers (propagandato come un ritorno ai climi di Disintegration) è invece apprezzabile la scelta di accantonare le tentazioni commerciali concentrandosi su ballate delicate e liriche come "Out Of This World" e "Last Day Of Summer", ma i dieci minuti caotici di "Watching Me Fall", con uno Smith urlante e sopra le righe, si rivelano una debacle, non mitigata dal tentativo (dichiarato dal cantante) di omaggiare i Mogwai di "Young Team". Il singolo "Cut Here" del 2001 è invece un peana per Billie Mc Kenzie, cantante degli Associates (compagni dei Cure alla Fiction Records), morto suicida nel 1997.
Il Greatest Hits che contiene il brano è una antologia abbastanza deludente, che non riesce a superare l'ottima raccolta Standing On The Beach, uscita nel 1986, comprendente tutti i singoli storici della band.
Svanito il clima festaiolo degli anni Novanta, poco propizio alle inquietudini per i britannici, il fosco clima del Duemila sembra favorire un ritorno alle introspezioni nervose della vecchia onda. E' il plauso delle nuove generazioni di musicisti, nonché il generale clima di revival della new wave, a stimolare dunque il ritorno del 2004, che vede i Cure in tour con Mogwai, Interpol, The Rapture.
Sull'album The Cure colpiscono l'energia fisica delle esecuzioni e la ritrovata verve vocale, più delle singole canzoni, che sferrano frastornanti bordate rock in casi come "Lost", "Labyrinth", "The Promise", per poi far rimpiangere i vecchi sdilinquimenti acustici nei due minuti di "Going Nowhere". "Lost" è un crescendo isterico che cita un vecchio brano improvvisato, "Forever", con cui i Cure solevano chiudere i concerti negli anni Ottanta, cambiandolo ogni sera.
A stupire sono le sonorità, di una asprezza degna dei Nine Inch Nails. "Labyrinth" rispolvera le vecchie ritmiche tambureggianti e costruisce il suo incessante crescendo su un riff orientale, con la voce di Smith dapprima effettata e poi liberata nella sua furia sopra gli strumenti. "The Promise" riesce nel tentativo prima fallito di costruire un brano lungo (dieci minuti) e fluido, appoggiandosi però alla citazione della vecchia "The Kiss", nella sua tempesta wah-wah. L'arrangiamento elettronico di "Anniversary" è forse la cosa più interessante, in quanto estranea ai furori di Ross Robinson, e perché indica una strada che Smith avrebbe potuto seguire in modo convincente, a patto di scegliere i collaboratori giusti.
In generale, l'album sembra oscillare tra la capacità di riproporre le vecchie idee in un contesto più attuale e il rischio di scadere in un patetico mescolarsi alle giovani generazioni di emo-kid.
Il lato atmosferico e meno convenzionale dei Cure emerge anche nella pantagruelica compilation Join The Dots. B Sides And Rarities 1978-2001 (The Fiction Years), cofanetto quadruplo edito nel 2004, che dimostra la qualità di molti brani scartati dalla band nel corso della sua lunga storia, tra i quali la romantica "Twilight Garden", espunta da Wish per motivi incomprensibili.
Nella messe di ristampe degli ultimi anni si segnala inoltre "Blue Sunshine" dei Glove, bizzarro progetto messo in piedi da Smith e Steve Severin dei Siouxsie and the Banshees nel 1983 e omaggiante la psichedelia anni Sessanta (il "Guanto" è un personaggio del film "Yellow Submarine" dei Beatles). Per ragioni contrattuali, Smith canta solamente su due brani, mentre gli altri sono affidati a una totale sconosciuta, però l'album è un vero e proprio apocrifo dei Cure e merita un ascolto, inoltre la riedizione presenta tutti i brani ricantati dall'instancabile uomo nel 2005.
Se per quasi tutti i rocker sembra valere, come per i rivoluzionari, il motto per cui si nasce incendiari e si muore pompieri, i Cure sono protagonisti di un percorso singolare: partiti con una formula scarna, misurata all'esasperazione, quasi penitenziale, si sono trasformati solo in tarda età in ciò che non erano mai stati da giovani, ovvero una rock band compiaciuta d'esser tale.
In 4:13 Dream, del 2008, ripropongono la foga dell'episodio precedente e si premurano di aggiungervi in sovrappiù un chitarrista con delle idee (il redivivo Paul Thompson, uscito dalla band ai tempi di Wish) e una manciata di buone canzoni: l'atmosferica ouverture di "Underneath The Stars" (una "Plainsong" per il nuovo millennio?), il crescendo sinistro di "The Scream", la sfuriata isterica di "It's Over", il pop obliquo di "Sleep When I'm Dead" e "Freakshow", su cui Thompson si produce in sfrenati effetti wah wah.
Purtroppo parte del disco è appannaggio di un pop-rock piuttosto blando e innocuo, anche se non si registrano episodi orribili come in The Cure, grazie anche agli asciutti arrangiamenti, incentrati sulla chitarra, che limitano tastiere e sonorità kitsch. La chitarra di Thompson riesce in ogni caso a conferire al sound una autenticità rock che nei tre episodi precedenti mancava quasi del tutto, e questo vale anche per gli episodi più leggeri e delicati, senza bisogno quindi che ogni brano si trasformi necessariamente in un assalto all'arma bianca, allo scopo di dimostrarci che i Cure ci sono ancora e lottano insieme a noi.
Nel 2010 i Cure celebrano i vent'anni di uno dei loro classici, con una faraonica ristampa: Distintegration Deluxe Edition.
Dopo oltre 40 anni di carriera è difficile dire cosa spinga ancora Robert Smith a scrivere canzoni e soprattutto a calcare ossessivamente i palchi dei concerti live, quasi che i Cure contendano agli U2 il titolo di "Rolling Stones della new wave". Certo, mentre la tradizione delle malinconie inglesi continuava oltre di lui (trionfando coi Radiohead), il cantante dei Cure è riuscito a crearsi un mondo a parte tanto inquietante quanto consolatorio, a cui un certo tipo di pubblico sembra continuare a far ritorno per ristoro e conforto. Per capire le ragioni del mito bisogna però necessariamente rivolgersi all'indietro, a come Smith e compagni apparivano nel video-concerto "The Cure In Orange" del 1986, registrato in Provenza, nel Theatre Antique d'Orange: degli estrosi visionari, persi al labile confine tra i sogni e gli incubi, tra la solitudine e l'amore, tra il peccato e l'innocenza.
Promesso fin dal 2019 e finalmente annunciato, con tanto di conto alla rovescia sapientemente orchestrato sul web, il 1° novembre 2024 giunge finalmente a noi Songs Of A Lost World, l’attesissimo album del ritorno dei Cure dopo 16 anni. Una buona notizia in ogni caso, per quanti in questi anni hanno mantenuto intatta la passione per la band di Robert Smith, magari grazie ai suoi torrenziali e sempre appaganti rituali live. E proprio dal vivo, durante la tournée mondiale Shows of a Lost World, ha preso vita questo nuovo lavoro, quattordicesimo in studio. Cinque brani su otto ("Alone", "A Fragile Thing", "And Nothing Is Forever", "I Can Never Say Goodbye" ed "Endsong") hanno infatti avuto una genesi live e sono stati successivamente rielaborati in sala di registrazione - quasi sempre uscendone migliorati, va riconosciuto.
Ma sebbene l’effetto-sorpresa fosse mitigato da quella precoce esposizione sul palco, quando i fan hanno potuto premere il fatidico tasto “play” su “Alone” – primo singolo svelato il 26 settembre assieme all’annuncio ufficiale dell’album – l’emozione è stata incontenibile. Forse per via di quella smisurata intro strumentale di 3 minuti e 20 – assurda e totalmente fuori moda al tempo di Spotify e delle playlist usa e getta – forse per quegli intrecci di chitarre riverberate e synth, forse per quel grido liberatorio di Smith (“This is the end of every song that we sing”) a far iniziare finalmente il brano, ma per una volta il senso di déjà-vu si è tramutato in un tuffo al cuore. Oscura, epica, orchestrale, “Alone” è solo un miraggio di nuova grande canzone dei Cure, però ha assolto pienamente al ruolo di apripista, perché ha saputo ridestare un’emozione collettiva con sincerità, a cuore aperto. Ed è forse proprio questo il tratto caratteristico che più si apprezza in un disco che ha soprattutto in Disintegration il suo riferimento principale, tanto che si potrebbe definirlo un suo sequel o una raccolta di outtake, a seconda di come la si pensi sugli otto brani in scaletta. Il concept di fondo è una riflessione sullo spaesamento del vivere in un mondo di alienazione e solitudine, che finisce col tramutarsi in una sorta di rito catartico, un esorcismo emotivo sulla fine. A 65 anni, con un pesante fardello di lutti alle spalle (la perdita dei genitori e del fratello Richard), Smith ha mutato il suo sguardo: “Le mie canzoni hanno sempre avuto questo elemento, la paura della mortalità - ha spiegato - È sempre stato così, fin da quando ero giovane. Ma quando si invecchia, diventa più reale”. “I Can Never Say Goodbye”, dedicata all’amato fratello Richard, prende l’abbrivio su un’altra lunga intro (2 minuti) col rumore di un temporale a preludere a delicati rintocchi di piano, raccontando l’ultima sera insieme. Non meno dolente – e sicuramente più potente rispetto alla versione live - la ninnananna di “And Nothing Is Forever”, cullata da piano, archi e poi chitarre in crescendo.
La peculiarità musicale del disco sta soprattutto nel recupero della densità sonora dei Cure fine anni 80-inizio 90, di quelle trame granulose e dissonanti che alimentavano la grandiosità strumentale di brani tesi e solenni al contempo: “Drone:NoDrone” e “Warsong” si addentrano in quelle nebulose di feedback, riverberi e distorsioni, pur senza mai ritrovare l’intensità dei loro naturali predecessori. La prima racconta lo spiacevole incontro ravvicinato di Smith con un drone volante, avvistato sopra il suo giardino, condensando tutta la rabbia per quell’intrusione in un vortice di chitarre elettriche abrasive e basso distorto su cui si erge la voce irata di Smith. La seconda parte con un organo a pompa che pare quasi replicare l’attacco di “Untitled” prima dell’irruzione di chitarre in feedback, batteria ed effetti sonori stranianti, a mimare i conflitti e le rappacificazioni cicliche che Smith dice aver avuto con una persona.
Mancano, invece, quegli episodi pop più leggeri e sbarazzini che, da “Why Can’t I Be You” a “Lullaby” e “Friday I’m In Love”, spezzavano per un attimo la densità della cappa sonora anche nei loro dischi più atmosferici. Vi si avvicina in qualche modo il secondo singolo, “A Fragile Thing”, più conciso e accattivante, con intro abbreviata e linee di chitarra tintinnanti ad assecondare il mood romantico, condensato nel canto sospeso di Smith; mentre “All I Ever Am” si fa valere per l’andatura incalzante dettata da batteria e synth.
L’epica liturgia conclusiva di “Endsong” funge da naturale contraltare all’incipit di “Alone”, con cui condivide lo spleen desolato (“It’s all gone, it’s all gone”) e la palma di vertice della raccolta. Scritta dal leader dei Cure nel 2019, pensando ai suoi 60 anni e al cinquantenario dello sbarco dell’uomo sulla Luna, è la chiusura perfetta del cerchio e del disco (che inizialmente si doveva intitolare “Live From The Moon”), con uno Smith sconsolato che si chiede dove sia andato a finire quel bambino che guardava la luna, riflettendo su come il mondo abbia ormai smarrito quello slancio progressista e ottimista verso il futuro. Dieci minuti e trenta dominati da un beat circolare e da strati di tastiere, su cui si stagliano gli intrecci alla sei corde, con il cantante che attende ben sei minuti prima di entrare in scena, affidando poi a una lunga coda di chitarra elettrica il congedo finale.
È un disco onesto, sentito, coerente, Songs Of A Lost World. Probabilmente il migliore dai tempi di Bloodflowers, anche se non così ispirato come alcuni di noi sognavano e come alcune testate lo stanno raccontando. Ma forse era anche eccessivo pretenderlo, dopo tutti questi anni. Piace l’idea di vedere nuove generazioni accostarsi all’universo di Robert Smith e compagni, di veder rifiorire uno storico marchio wave che ha saputo costantemente rinnovarsi, dai fasti dark all’era pop. Anche se, in fondo, permane la nostalgia per il nostro mondo perduto: quello dei Cure della stagione d’oro, che chissà se e quando tornerà.
Contributi di Claudio Fabretti ("Songs Of A Lost World")
Three Imaginary Boys (Fiction, 1979) | 7 | |
Seventeeen Seconds (Fiction, 1980) | 8,5 | |
Faith (Fiction, 1981) | 8,5 | |
Pornography (Fiction, 1982) | 9 | |
Japanese Whispers (Ep, Sire, 1983) | 6,5 | |
Boys Don't Cry (antologia, Fiction, 1983) | ||
The Top (Fiction, 1984) | 6,5 | |
Concert - The Cure Live (Fiction, 1984) | 7 | |
The Head On The Door (Fiction, 1985) | 7 | |
Standing On A Beach/Staring At The Sea (antologia, Fiction, 1986) | ||
Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me (Fiction, 1987) | 8 | |
The Peel Sessions (Dutch East India, 1987) | 6,5 | |
Disintegration (Fiction, 1989) | 8 | |
Mixed-Up (antologia, Fiction, 1990) | 5 | |
Entreat (live, Fiction, 1991) | 6 | |
Wish (Fiction, 1992) | 7 | |
Show (live, Fiction, 1993) | 6,5 | |
Sideshow (live, Fiction, 1993) | 6 | |
Paris (live, Fiction, 1993) | 6 | |
Wild Mood Swings (Fiction, 1996) | 5 | |
Galore - The Singles 1987-1997 (antologia, Fiction, 1997) | ||
Bloodflowers (Fiction, 2000) | 6,5 | |
Greatest Hits (antologia, Fiction, 2001) | ||
The Cure (Geffen, 2004) | 5 | |
Join The Dots: B-Sides And Rarities 1978-2001 (The Fiction Years) (antologia, Rhino/Universal) | ||
4:13 Dream (Suretone Records/ Geffen, 2008) | 5,5 | |
Disintegration Deluxe Edition (Universal, 2010) | 8 | |
Songs Of A Lost World (Fiction, 2024) | 7 |
Charlotte Sometimes (da Live In Orange) | |
A Forest (da Live In Orange) | |
Faith (da Live In Orange) | |
A Strange Day (da Live In Orange) | |
Other Voices (videoclip da Faith) | |
Siamese Twins (da Trilogy - Live in Berlin, 2002) | |
One Hundred Years (da Trilogy - Live in Berlin, 2002) | |
If Only Tonight We Could Sleep (da Trilogy - Live in Berlin, 2002) | |
Disintegration (da Trilogy - Live in Berlin, 2002) | |
Lullaby (videoclip da Disintegration) |