Non è certo cosa di tutti i giorni, intervistare i 65daysofstatic. Tanto che quando arriva, come un fulmine a ciel sereno, la proposta di questa breve chiacchierata - concessa solo a un'altra testata oltre alla nostra - non vi è alcuna esitazione nell'accettare subito. Forse la più misteriosa ed ermetica fra le band che negli ultimi anni hanno portato alta in cielo la bandiera del cosiddetto post-rock, il quartetto proveniente da Sheffield è stato protagonista nei dodici anni della sua avventura di un percorso in perenne mutazione, partita con la destrutturazione annunciata del math-rock per mezzo dell'idm made in Sheffield - non a caso città d'origine del gruppo - e giunta a una miscela dall'alto tasso emotivo nell'ultimo gioiello "Wild Light". Proprio in occasione della data milanese programmata nel tour promozionale di quest'ultimo, a presentarsi con sorprendente buon umore sono John Shrewsbury e Paul Wolinski, i due polistrumentisti e fondatori impegnati principalmente nei ruoli di chitarrista e tastierista, che rappresentano di fatto i perni centrali della formazione. Prontissimi a difendersi dal tentativo, riuscito almeno parzialmente, di far calare loro la "maschera" che da sempre li caratterizza.
Sin dai primi anni della vostra carriera, avete sempre mantenuto una sorta di segreto sulla vostra storia e concesso pochissime interviste, quasi a volervi circondare di un alone di mistero. Come mai?
Joe Shrewsbury: Penso che la vera ragione sia piuttosto noiosa da raccontare... Inventarci una storia ora sarebbe decisamente più divertente, non trovi?
(ride)Paul Wolinski: Sì, senza dubbio!
(ride) Ma quel che c'è di più noioso ancora sono le rockstar. Quelle che invece amano urlare ai quattro venti gli affari loro! Io credo che sia molto più interessante e stimolante trovarsi, chiudersi in studio, scrivere e suonare musica piuttosto che concedere tempo ed energie a cose che non le meritano. Non intendo le interviste, ma le interviste in cui dobbiamo parlare di noi. E in generale speriamo e crediamo che il pubblico sappia abbastanza sulla nostra musica da spendere il suo tempo ad ascoltarla piuttosto che a chiedersi chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo!
“Wild Light” arriva in coincidenza del vostro dodicesimo anno di carriera. Possiamo inquadrarlo come una cartina di tornasole dei discorsi musicali che avete affrontato sino ad oggi?PW: Sì, in parte, ma credo ci sia anche qualcosa di nuovo rispetto al passato.
JS: Per assurdo, credo che la cosa più simile al passato sia stata la voglia di rinnovarci! Abbiamo cercato di ritrovare quella scintilla che avevamo a inizio carriera, quello spirito, quell'entusiasmo che ci portava a cercare di non suonare mai troppo simili anche tra un brano e l'altro...
PW: ...e ovviamente non ce l'abbiamo fatta
(ride) o meglio, sì, ma in maniera diversa. Perché comunque non possiamo pretendere oggi di dimenticare quel che è stato il nostro passato, di azzerarlo, di tornare a quando eravamo giovani se oggi siamo cresciuti. Quindi sì, un minimo di sguardo al passato c'è stato e ci sarà sempre, ma devo dire che quando abbiamo finito le registrazioni del disco e siamo partiti con questo tour siamo stati da subito molto soddisfatti di quello che eravamo riusciti ad ottenere. Abbiamo ricreato l'entusiasmo e ritrovato un'alchimia pari solo a quelli dei primissimi tempi, anche se con connotati diversi.
JS: Sì, e credo anche che noi, come qualsiasi altra band, si abbia sempre avuto l'intento di fare le cose ogni disco in maniera migliore. La novità maggiore in “Wild Light” è stata l'aver trovato una nuova maniera, più "corale" e organica, di scrivere i brani: credo che cercare di rinnovare il linguaggio con cui si lavora insieme sia la ricetta migliore per evolvere anche la propria musica. Un po' come quando suoni sempre lo stesso pezzo al pianoforte, ti stufi e anche se non ne sei in grado inizi a cercare di eseguire qualcosa di diverso, o quando con la chitarra inizi a provare a scrivere quella sequenza che sai ormai suonare a menadito.
A mio parere è anche il vostro album più emotivo e spontaneo. Verrebbe quasi da dire “selvaggio”, riprendendo il titolo...
JS: Senza dubbio. Ci abbiamo lavorato per un sacco di tempo e credo questo si senta, sicuramente non è un disco che abbiamo tirato su in poco tempo, quindi c'è dentro effettivamente una parte molto grande di noi, e la componente emotiva non è mai stata così decisiva quanto in questo disco. In ogni caso siamo da sempre più bravi a usare la musica piuttosto che le parole per raccontare qualcosa di noi, da fatti personali a opinioni. Preferiamo suonare piuttosto che parlare o scrivere, e sicuramente saremmo più chiari e bravi se anziché parlare con te, ti stessimo suonando qualcosa qui, ora. Di sicuro nel corso degli anni ci siamo creati un pubblico che sentiamo di dover soddisfare, di non dover deludere, senza al tempo stesso cambiare quel che siamo per qualcuno o qualcosa: ci interessa principalmente che chi ci segue continui a venire ai concerti e a divertirsi.
In definitiva, che cosa lega disco e brani ai rispettivi titoli?
JS: Non credo ci siano significati concreti, avrebbero avuto poco senso. Semmai è più qualcosa che si riferisce a situazioni, per esempio a quando entri una stanza, inizi a suonare e il tempo pare accelerare così, dal nulla... Si torna un po' a quando dicevo che abbiamo voluto recuperare la spontaneità e l'entusiasmo che avevamo molti anni fa: quando abbiamo raggiunto almeno in parte questo scopo, è come se una luce fosse trapelata tra le nuvole facendosi sempre più spazio. Ed è una luce selvaggia, come quella quasi accecante di quando hai diciott'anni e riesci a divertirti con tutto o quasi, solo che a trent'anni le cose sono totalmente diverse: ci si rende conto che rispetto al passato si ha un po' tirato i remi in barca e che non si potranno più rimettere in mare come prima. Ma se si cerca di godersi questa fase anziché esserne preoccupati, allora ecco che quella luce può tornare a riaffacciarsi in tutte le cose, dal fare una passeggiata all'andare a fare la spesa, passando ovviamente per il suonare e il salire e scendere dai palchi.
In ogni vostro disco avete sempre cercato di esplorare un mondo nuovo incorporandolo nella vostra musica. In “Wild Light” mi è parso di sentire parecchi suoni vicini a certa elettronica contemporanea, mi viene in mente Vladislav Delay pensando a “Prisms”... Che mondo avete cercato di esplorare stavolta?
JS: Vladislav Delay? Wow, che nome geniale, ma chi è?
(ride) Comunque la domanda è un po' complessa... Posso dirti che di sicuro un mondo nuovo è quello in cui il disco è nato, basti pensare a quanto è cambiato rispetto ai tempi di “
The Fall Of Math”, che registrammo nei pomeriggi lasciati liberi dal lavoro... Ora è tutto diverso, di sicuro non cerchiamo certo di andare a esplorare stili e suoni per la loro etichetta, specie in un disco come questo che è nato nella maniera più spontanea possibile, e in questo è decisamente simile ai primissimi: lo abbiamo realizzato probabilmente senza sapere nemmeno noi dove ci stessimo effettivamente dirigendo, esattamente come, ai tempi, ci siamo limitati a fare quel che sentivamo di voler fare. Un po' come in un viaggio senza meta ma che sai finirà dove deve, come in un film dove ciascuna scena è definita ma il tutto prende forma solo una volta che esse sono unite. Con “Wild Light” è successo un po' lo stesso, alcuni brani sono nati prima di altri ma la
tracklist segue esattamente l'ordine del viaggio con tutte le sue tappe, tanto che ascoltare il disco in
shuffle su un iPod credo ne faccia perdere gran parte del fascino.
Il vostro sound si è evoluto seguendo anche lo sviluppo dei vostri gusti personali?
PW: Credo sinceramente che le due cose si siano sempre più distaccate col tempo. “
We Were Exploding Anyway” è un disco molto elettronico, ma non c'entra assolutamente nulla con la musica che ascoltavamo al tempo, per esempio. Forse sono più le tecniche di produzione e registrazione che si sono evolute seguendo quel che sentivamo e vedevamo...
JS: ...sicuramente, rispetto ai tempi di “The Fall Of Math”! Ma è cambiato anche il ruolo del gusto all'interno della musica, perché ai tempi la fusione tra l'elettronica, i suoni di chitarra e l'impianto rock erano qualcosa di cercato, calcolato, oggi è tutto più naturale, tanto che è diventato difficile anche per chi ascolta distinguere gli strumenti nel flusso, specie in “Wild Light”. Insomma, credo che proprio non sia più possibile mettere in paragone il nostro far musica con il nostro ascoltare musica, sono cose che se potevano avere un legame un tempo, oggi non ce l'hanno più.
Oltre che nella produzione, è cambiato qualcosa anche nel modo in cui usate gli strumenti, o nella strumentazione stessa?
PW: Sicuramente agli inizi la componente elettronica era decisamente più marcata, intesa come strumentazione digitale, che col passare degli anni abbiamo cercato sempre più di estromettere. Oggi usiamo pochissimo, specie dal vivo, software e basi elettroniche, abbiamo cercato di proseguire in un percorso che rendesse la nostra musica sempre più viva, diretta, il meno possibile fredda e artificiale. In “The Fall Of Math” non ho mai suonato il pianoforte, mi occupavo quasi solo dei ritmi generati digitalmente, mentre in “Wild Light” avviene l'esatto contrario!
JS: Credo sia sempre necessario trovare una strada per migliorarsi, non si può certo pensare di fare sei album senza evolvere la propria musica verso il meglio, non avrebbe senso. Si deve sempre cercare nuove strade, nuovi mezzi espressivi, per quanto sia un processo lento e graduale se fatto con la necessaria cura e senza rinnegare quello che si è accumulato in passato.
Prima di “Wild Light” vi siete avventurati anche nel mondo delle colonne sonore, lavorando a “Silent Running”. Che rapporto c'è fra la vostra musica e le immagini?
JS: In quel caso è stato particolarmente interessante perché le immagini c'erano già e abbiamo dovuto “assecondarle”, cosa che non ci era mai capitata. Generalmente c'è sicuramente un legame forte, ma altrettanto soggettivo: ciascuno di noi si costruisce le proprie immagini, come è normale che sia, e credo che questo valga anche per chi ascolta. In definitiva, è stata sicuramente un'esperienza completamente diversa e stimolante, un po' una maniera nuova di mettersi in gioco.
La vostra musica viene spesso fatta ricadere sotto la definizione di post-rock, al fianco di nomi come Mogwai ed Explosions In The Sky. Cosa pensate di queste associazioni e secondo voi questo fantomatico post-rock esiste davvero?
JS: Non so chi si sia inventato il termine post-rock, ma di solito è ben raro che siano i musicisti a catalogare la musica. Quando abbiamo iniziato eravamo sicuramente molto affascinati dalla musica di gruppi come Mogwai e
Goodspeed You! Black Emperor, ma non abbiamo mai voluto fare esattamente quello che facevano loro, e anzi credo di poter dire che non l'abbiamo mai fatto! Negli ultimi anni tra l'altro questa definizione è diventata piuttosto strana, perché raccoglie band come appunto i Mogwai, che hanno fatto e continuano a fare grande musica, così come molte altre band totalmente derivative che fanno cose noiosissime e ripetitive. Per quel che riguarda noi, non ci è mai davvero importato di voler ricadere sotto questa o quella definizione, abbiamo sempre e solo voluto proseguire nella direzione che sentivamo nostra in un determinato momento, o periodo. E per quanto certe associazioni siano sicuramente lusinghiere, credo che in generale chi procede nell'intento di voler etichettare la musica che ascolta si perda molte delle sfumature che essa racchiude.
Tra qualche ora suonerete dal vivo qui a Milano, e avete più volte dichiarato che questa è la parte che preferite dell'essere musicisti. Pensate che la dimensione live sia il mezzo espressivo migliore per la vostra musica?
JS: Di sicuro è una delle maniere più stimolanti di entrare in contatto con i nostri suoni, e per noi è come una sorta di premio per aver scritto la musica che poi eseguiamo, come una discesa dopo la salita, un piacere dopo la fatica. Dopo aver passato mesi chiusi in studio a lavorare insieme giorno e notte per scrivere, arrangiare, registrare, missare un disco, partire in tour e girare il mondo suonando è un coronamento fantastico. Va anche detto però che noi siamo abbastanza esigenti con il pubblico: è come se fosse la nostra linfa vitale quando suoniamo, anche se sicuramente è un rapporto biunivoco. Ma se vediamo che la gente non riesce a essere coinvolta, anche il nostro entusiasmo ne risente, per quanto è altamente probabile che la colpa sia solo nostra!
(ride)L'ultima e più difficile domanda è un bilancio sintetico di questi dodici anni: qual è il vostro disco preferito dei 65daysofstatic?
PW: Personalmente credo proprio quest'ultimo. Come hai detto tu all'inizio, è effettivamente il più puro, il più diretto, il più spontaneo. Direi anche il più maturo.
JS: Sicuramente il prossimo che faremo!