"La nostra unica arma è l'istintività. E' per questo che non ci sentiamo assolutamente 'intellettuali né pretendiamo di essere artisti". Con queste parole Stuart Braithwaite (già membro degli Eska), chitarrista e responsabile della stesura della maggior parte dei pezzi dei Mogwai, ha descritto quello che è l'aspetto più importante del gruppo scozzese.
Il loro modello è evidentemente rappresentato dagli americani Slint, di cui riprendono la formula di un rock strumentale, con rari interventi vocali al limite del parlato. Rispetto ai maestri di Louisville, però, i Mogwai sono meno freddi e contenuti, molto più melodici, dimostrano una voglia di giocare coi topoi del rock proprio mentre lo si sta scardinando, ma anche un'etica spontaneista e viscerale, tutta giocata su una rappresentazione delle emozioni non mediata dalla ragione. La differenza maggiore rispetto agli Slint è infatti che qui ci troviamo in un territorio meno cerebrale, meno alienante, ma volto bensì a registrare con spietata sincerità percorsi emotivi che non per forza devono giungere a una risoluzione ma possono drammaticamente accumulare tensione e pathos soltanto per spegnersi e ricominciare da capo il processo col brano successivo.
Attraverso varie evoluzioni stilistiche, i Mogwai giungeranno a fissare un vero e proprio archetipo di quel post-rock basato su lunghi brani chitarristici che alternano momenti morbidi e dilatati a vere esplosioni di fragore sonico secondo la formula loud-quiet-loud.
Esponenti della scena di Glasgow come Belle And Sebastian, i Mogwai nascono nel 1995 con un organico di tre soli elementi: con Stuart ci sono Dominic Aitchinson al basso e Martin Bulloch alla batteria. Pochi mesi dopo i tre reclutano un secondo chitarrista, John Cummings.
Nel 1997 autoproducono il loro primo Lp, Ten Rapid, sulla loro etichetta personale, la Rock Action. Il sottotitolo di questo disco è "Collected Recordings 1996-1997": si tratta, infatti, della raccolta completa delle prime composizioni che hanno permesso al pubblico britannico di conoscere la band. La prima canzone, "Summer", è strutturata secondo la formula ricorrente nei brani del gruppo, inizio quieto con suoni limpidi e improvvisa scossa tellurica a base di feedback, uno schema forse da molti abusato, ma che ha un effetto riuscito grazie alle forti emozioni che filtrano dai pezzi. Il brano più riuscito, in questo esordio, è senza dubbio "Ithica 27 Ø 9", due minuti di distorsioni folli, ma mai fini a se stesse.
Nei pezzi più morbidi, i Mogwai hanno una soavità che, inevitabilmente, ricorda i Tortoise più tranquilli, come ad esempio in "A Place For Parks", in cui le lievi melodie sono accompagnate dal parlato in sottofondo: è già evidente, comunque, la scelta strumentale del gruppo. Scelta che Stuart spiega con queste parole: "Quando proviamo non pensiamo mai a sviluppare una canzone. Sarebbe troppo facile. Sarebbe come allinearsi a gruppi come Oasis e Blur, cercare di azzeccare il singolo dell'estate. A noi tutto questo non interessa. E' anche per questo che la maggior parte delle volte preferiamo scrivere pezzi interamente strumentali. Molte volte ci chiediamo se abbiamo veramente qualcosa di interessante da dire. Quasi sempre la risposta è negativa. E allora quello che ci viene meglio è suonare".
Dopo l'uscita di Ten Rapid la fama della band cresce enormemente e, approfittando del fermento che si sta sviluppando a Glasgow grazie all'alternativa sonora proposta dalla Chemikal Underground, vengono messi sotto contratto dall'etichetta dei Delgados (altra band di Glasgow che gestisce la label scozzese). Dopo pochi mesi arriva 4 Satin Ep, caratterizzato da un incrocio tra sperimentazione e moderno progressive.
Assoldato un altro chitarrista, il terzo, Brendan O'Hare, già nei Teenage Fan Club, i Mogwai entrano in studio per registrare il loro primo "vero" album, Young Team, nel quale decidono di firmarsi con degli pseudonimi: Stuart diventa pLasmatroN, Dominic diventa Demonic, John è Captain Meat, Martin è Bionic e Brendan si tramuta in The Relic.
L'album esce nell'ottobre del 1997 e regala emozioni senza tregua. L'iniziale "Yes ! I'm Long Way From Home" parte come una bucolica ballata, spinta da un basso melodico e da pacati tocchi alla sei corde fino a quando la tensione strumentale cresce e irrompe una chitarra duramente effettata. E' però una semplice introduzione al vero manifesto stilistico della band, ovvero la lunga odissea di "Like Herod". Questa inizia morbida come la prima, anche se più tesa per la nevrosi circolare della batteria, poi, quando tutto sembra essersi placato fino alla stasi, introduce un riff squassante, ai limiti del metal, accompagnato da una nuova ripresa della sezione ritmica. Terminato il climax si torna a una nuova quiete, destinata a essere di nuovo travolta da una esplosione di feedback e percussioni; dopo questo terremoto il brano si spegne lentamente.
Il brano è un vero manifesto dell'arte drammatica dei Mogwai, capaci di costruire atmosfere da thriller tra silenzi minacciosi e controllati scoppi di maestosa furia chitarristica. Colpisce l'uso di distorsioni e dissonanze in chiave non tanto noise o disturbante, quanto pittorica, giocata sulla ricercatezza dei timbri e degli effetti tattili del suono, che li avvicina all'estetica shoegaze. Ne scaturisce una sorta di kolossal per camerette solitarie, privo di barocchismi e velleità narrative.
Ecco quindi altre giostre di saliscendi chitarristici come "Katrien"e "Summer", propulse da semplici fraseggi melodici e dal gioco di dinamiche creato dalla sezione ritmica e dall'accendersi delle distorsioni. "Tracy", invece, propone un'atmosfera intimista più simile a quanto la band proporrà nei dischi successivi, costruita su un semplice fraseggio del glockenspiel ripreso da basso e batteria, sullo sfondo di echi lontani e glaciali. "With Portfolio" funge da spartiacque del disco, con la sua limpida frase di piano man mano devastata da distorsioni elettroniche, fino a introdurre "R U Still Into It". Questa riprende e completa la sezione atmosferica del disco, proponendo un folk al rallentatore e la voce di Aidan Moffatt degli scozzesi Arab Strap, in un esercizio che rinsalda i legami dei Mogwai con lo slowcore dei colleghi e con una convivialità di malinconie e passioni, nata tra i pub del quartiere universitario della Glasgow di fine secolo.
I due minuti della pianistica "A Cheery Wave With Stranded Youngsters", infine, sono un piccolo abisso di inquietudine che prelude all'apocalisse finale. "Mogwai Fear Satan" è infatti il secondo apice maestoso del disco, dopo "Like Herod", nonché il brano più rappresentativo del primo periodo dei Mogwai. Qui, su una base ritmica ossessiva e tambureggiante, si elevano muri di chitarre distorte, con lo stesso motivo che viene ripreso dal basso, dalle chitarre e infine da un flauto che giunge a colorare di mistero le pause tra un montare e l'altro della marea elettrica, e in particolare la magica coda finale. Il tutto giunge a costruire un lungo mantra psichedelico, per più di 15 minuti di trip catartico e sfogo emotivo, con tanto di rilassatezza e fatalismo finali.
I Mogwai sono dunque capaci, come i gruppi progressive, di costruire brani lunghi e articolati usando una strumentazione ricca e classicheggiante, ma la scelta di eliminare la voce li allontana dal piglio narrativo di certi esponenti di quel movimento. I cambiamenti musicali all'interno dei brani sono infatti anche repentini cambi di umore, spesso sconfinanti nell'isteria o al contrario nella depressione: questa dinamica deriva dagli Slint e dalla scuola hardcore a loro precedente, è probabile anche un'influenza Sonic Youth. Soprattutto l'attitudine è importante, per un gruppo che intitolerà "Punk Rock" la prima traccia del successivo album, a rimarcare che ciò che è fatto col cuore e lo stomaco è punk-rock quanto la musica del 1977, a prescindere dalle forme musicali scelte.
Infine, la dolcezza atmosferica quanto fragorosa è debitrice nei confronti dei My Bloody Valentine, mentre lo scorrere torrenziale deriva della psichedelia sia nuova (Bardo Pond) sia vecchia (Pink Floyd), rispetto alla quale si è persa però ogni speranza di "apertura della mente". La differenza rispetto ai gruppi di area neo-psichedelica, che non a caso stanno trovando il successo alla fine dei 90, pensiamo a Mercury Rev e Flaming Lips, è invece che i Mogwai sono serissimi, non avvezzi a giocare col kitsch e con le svariate forme musicali, fedeli al loro minimalismo anche quando sono tentati dalla possibilità di espandere lo spettro sonoro. Per questo non raggiungeranno mai la magniloquenza di un altro gruppo, i Godspeed You Black Emperor!, che partirà da premesse simili alle loro per costruire invece vere e proprie sinfonie.
Young Team può essere considerato una sintesi parecchio inquieta di un decennio musicale, gli anni 90, che era cominciato con due dischi sconvolgenti come il suddetto "Spiderland" e "Loveless" dei My Bloody Valentine, due mondi sonori rispetto ai quali i primi Mogwai trovano una crepuscolare via di mezzo. Se la formula darà vita a un intero filone musicale (tra i continuatori si possono citare sicuramente gli Explosions In The Sky), i Mogwai pongono le basi di un percorso sonoro tutto sommato umile nel ricercare la melodia e il puro sentimento che sono da sempre l'oggetto del rock.
Nel 1998, dopo un tour di sei mesi in Europa, esce un album, con l'etichetta Eye-Q, di remix tratti da Young Team, intitolato Kicking A Dead Pig - Mogwai Songs Remixed. Collaborano vari artisti, tra cui spicca Kevin Shields dei My Bloody Valentine, ossia uno dei miti per Stuart e soci.
Nel 1999 i Mogwai rientrano in studio, con Dave Fridman (produttore dell'album dei Mercury Rev "Deserter's Song"), per la registrazione di Come On Die Young, album che esce sempre per la Chemikal Underground. Un disco che alcuni hanno definito, paragonandolo a Young Team, come la quiete dopo la tempesta.
L'album inizia con l'introduzione atmosferica di "Punk rock" (comprendente il frammento di un discorso di Iggy Pop): è un titolo che conferma la voglia di giocare coi topoi del rock proprio mentre lo si sta scardinando, ma anche una affermazione programmatica relativa all'etica spontaneista e viscerale della band. Il vero incipit è però "Cody", unico brano cantato del disco: una commovente elegia tutta sussurrata, dalle sonorità vicine al country (c'è una lapsteel guitar). La successiva "Help Both Ways" ci porta nel territorio di un rock strumentale memore della lezione degli Slint di "Spiderland" (1991) con un andamento lento di fraseggi chitarristici ripetuti alla chitarra e di ritmiche secche alla batteria. E' una laconica digressione che lascia lo spettatore in attesa di un cambiamento, di un climax in cui scaricare la tensione, senza però che questo avvenga mai veramente. "Year 2000 non-compliant ex cardia" esplicita questo procedimento con maggiore tensione rock e apre le porte al dramma trattenuto di "Kappa": sospinto da un riff ossessivo e da un inesorabile pattern ritmico, il brano avanza tra stasi e crescendo sfibranti, trasmettendo la sensazione di una rabbia che si tramuta in rassegnazione soltanto per risvegliarsi ciclicamente, ancora e ancora.
"Waltz For Aidan"è quanto promette il titolo: una delicata cartilagine melodica, che funge da interludio rispetto a "May Nothing But Happiness Come Through Your Door". Questa parte fragile e delicata, ma di largo respiro, evidenzia un suono "da camera" che è particolarità del disco tutto, in cui sono quasi sempre accantonate le pesanti distorsioni del debutto e dove appaiono tenui bordoni e delicati puntinismi di tastiere. La tensione del brano si accumula senza bisogno di "effetti speciali" ma grazie al progressivo affastellarsi di secchi riff, assecondati dal crescere di ritmo della batteria. Quando però si giunge al climax, ritorna la serenità iniziale, in un andamento circolare.
Una sonata di pianoforte alla fine del mondo è invece l'interludio che precede "Ex Cowboy", ovvero il cuore epico di tutto l'album. Si tratta forse del brano che ricorda di più Young Team, nel suo lento coagulare sanguigna materia chitarristica, con le rullate della batteria a sospingere la tensione allo spasmo per poi ricacciarla giù e ancora in alto in un'altalena che dura più di nove minuti. Questo sound ricercato e pulito, di una limpidezza che esalta l'ingenuo oltranzismo sentimentale della band, è frutto della collaborazione col produttore Fridman. "Chocky"si apre invece, dopo due minuti di dissonanze varie, in una sonata per pianoforte dalla melodia cristallina, poi fa entrare tutti gli altri strumenti, uno dopo l'altro, in un crescendo più cameristico che rock, nonostante le nubi di distorsioni che si addensano sullo sfondo. Alla fine, sfumata la tempesta, ritroviamo la purezza del piano e del contrappunto chitarristico.
I Mogwai sono sempre fedeli al loro minimalismo: la coerenza è testimoniata da una "Christmas Steps" che, dopo minuti di abulia assoluta, deflagra prima in un incastro ritmico in stile Slint e poi nei feroci chitarroni che ci si aspettava dall'inizio del programma. Siamo però alla fine, e rimane solo il tempo per uno stralunato requiem conclusivo prodotto dall'intervento di un mesto trombone, sorta di commiato dal vecchio rock e dal secolo che ne ha ospitato le gesta.
Il mood introverso e depresso dei primi anni del nuovo millennio, che non a caso vedrà trionfare le brume artiche degli islandesi Sigur Ros, ma anche gli amniotici Radiohead di "Kid A", è qui anticipato. L'edonismo del britpop sembra invece già distante nel passato (per fortuna, direbbero i Mogwai), e l'asse stesso della musica britannica passa da Londra a Glasgow, come se si sentisse l'esigenza di un contesto più raccolto, adatto a sfoghi liberatori e caldi ripari di fronte al gelo del millennio incombente. E' il piccolo epos della gioventù alternativa dell'epoca, magari un po' fuori mano rispetto all'epicentro della coolness londinese, ma nondimeno bisognosa di scaldarsi il cuore in vista del freddo a venire.
Commentando la svolta di Come On Die Young, Stuart osserva: "La malinconia? Non so da dove arriva. So solo che quello che cerchiamo di fare è esprimere ciò che veramente siamo, metterci a nudo senza alcuna remora. Questo non lo posso negare. Ma anche questo non è un metodo. Non è qualcosa di precostituito. Non potremmo mai metterci in studio cercando di sciegliere quale accordo sia più o meno malinconico. Ci sentiamo, semplicemente, un gruppo di ragazzi che, seguendo l'istinto, suona la musica che gli pare, senza preconcetti. Se la musica dei Mogwai oggi suona minimalista ed è malinconica e spirituale, per noi non cambia niente. Siamo sempre una squadra di giovani che suona per il gusto di suonare e di essere liberi, di fare tutto quello che ci gira per la testa".
E allora è sempre istinto, che poi segua strade malinconiche o rabbiose poco importa, soprattutto perché spesso, queste strade, si uniscono in luoghi visionari e splendidi. Uno di questi risponde al nome di Rock Action, album uscito due anni dopo Come On Die Young. Il produttore è lo stesso, Dave Fridman, e le scelte sonore non troppo distanti. La violenza non è scomparsa, è semplicemente più illusoria, celata dietro atmosfere oniriche e leggere, come quelle di "Sine Wave", uno dei brani manifesto del disco.
Due le curiosità principali in questo nuovo lavoro: le collaborazioni "importanti" con David Pajo e Gruff Rhys dei Super Furry Animals che si uniscono alla voce di Stuart. Esatto, è la voce la grande sorpresa di Rock Action. Su otto episodi, in ben quattro compare quello che per il gruppo scozzese era sempre stato un "saltuario accessorio".
Permane solo uno sfocato riverbero mnemonico del fu Giovane Team - "You Don't Know Jesus" - per il resto si tratta di una ulteriore scarnificazione delle loro strutture originarie: chitarre minimaliste e mai distorte, talvolta acustiche, nessun feedback, nessuna dissonanza, rari rumori in background, battiti lenti, oppiacei e un timido ricorso a fiati, archi, banjo e synth: la batteria di "Sine Wave" potrebbe richiamare alla mente addirittura il Trent Reznor più crepuscolare. I Mogwai convergono inopinatamente verso la forma-canzone più classica, riducendo fortemente il minutaggio medio dei brani e quello complessivo dell'opera.
Sembrerebbe quindi una auto-affermazione contro il post-rock, eppure nelle ultime due tracce si celano i nove minuti della suite "2 Rights Make 1 Wrong", folle, inquieta e struggente, e la conclusiva "Secret Pint" più marcatamente post, in controtendenza con quanto detto; e come se non bastasse in "Take Me Somewhere Nice" alla voce compare Mr. Slint David Pajo.
Come dire: tesi e antitesi. In Rock Action coesistono eredità del passato e rinnegazione dello stesso, condanna e celebrazione del post-rock, scomodandone addirittura, conformemente ai dettami del contrappasso dantesco, il leader maximo. Va comunque detto che le due entità contrapposte, a ben sentire, non creano alcuna dissonanza, e l'ascolto complessivo è gradevole, anche se non ripaga completamente le attese. In definitiva, la prova del terzo disco i Mogwai la superano con dignità ma non senza qualche riserva e restano nel limbo.
Seguendo il tour successivo, comunque, è possibile accorgersi di come la presunta serenità densa di nostalgia raggiunta su album sia solo, come scritto, presunta. Raramente in scaletta appaiono brani cantati e sono la violenza sonora e la rabbia, che a volte sfociano direttamente nel noise, a dominare.
A testimonianza di ciò, esce, verso la fine del 2001, l'Ep My Father My King: venti minuti di digressioni, feedback e alternanze fra quiete e turbamento che terminano in un rumore schizofrenico, come se i Mogwai volessero, per l'ennesima volta, urlare che nessun progetto realizzato a tavolino potrà mai emozionare. E in fondo, il loro solo obiettivo è sempre stato questo: poter regalare un'emozione a chi cerca dimensioni irreali.
Nel successivo album Happy Songs For Happy People (2003) il gruppo scozzese opera una specie di sintesi tra il passato e le vie nuove, eliminando quasi del tutto le parti cantate in maniera tradizionale (ricorrono in un paio di brani al vocoder), ma allo stesso tempo limando dal loro suono gli aspetti più abrasivi e rumorosi, andando alla ricerca di una musica che sia più vicina alla pura forma, all'acquarello ambientale, alla proiezione dell'ascolto verso l'alto, guidando l'ascoltatore verso una catarsi che pacifica, piuttosto che verso l'inquietudine delle cupe esplosioni e dell'alternarsi di toni che caratterizzavano i dischi che li hanno resi celebri.
I Mogwai tornano nei loro vecchi panni solo in "Ratts On The Capital", non a caso il pezzo più lungo del disco, ma un vibrafono non è sufficiente a restituire nerbo a uno schema in fondo molto prevedibile e il brano viene solo in parte riscattato da un bel finale. E' giusto dunque che provino definitivamente nuove strade, e in brani dalle soluzioni abbastanza simili come l'iniziale "Hunted By A Freak" e "Kids Will Be Skeletons", troviamo le caratteristiche principali di questa nuova ricerca musicale, dove una struttura prossima al formato canzone fa da fondamenta alla stratificazione di chitarre, archi ed effetti volti a creare paesaggi sonori autunnali, eterei e ampi. Qualcosa che li avvicina allo stile degli Air o dei primi Sigur Rós o ancora ai Múm (vedi un brano come "I Know You Are But What Am I"), capace di dare buoni risultati, in "Killing All The Files" e "Golden Porsche" ad esempio, ma anche, a volte, la sensazione che alcune idee siano rimaste inespresse per incapacità di scegliere una direzione precisa.
Mr. Beast (2006) è un ritorno a ciò che era, alle esplosioni deflagranti e ai feedback più urticanti. Ma è anche l'estremo del suo predecessore, perché il romanticismo doloroso finge di trattenersi per poi lasciarsi andare in impeti di violenza lancinante e delicata.
L'intro di "Auto Rock" segna le coordinate di quel che sarà: rintocchi di piano per una melodia lacerante per intensità, sviluppata su un crescendo sottilmente sporco e irreale nel lasciare spazio all'illusoria estasi finale. Il rimando al passato non è tanto nella sostanza quanto nella forma, intransigente nel rinnegarsi in favore dell'orgia hardcore di "Glasgow Mega-Snake", episodio fra i più apocalittici del combo, fondato su un continuo rincorrersi di chitarre costrette allo scontro frontale. Una fisicità raramente così urlata al mondo, vertiginosa nel proporsi e priva di quegli appigli simbolici evidenziati in "Folk Death 95", potenziale hit per seguaci vecchi e nuovi, grazie a distorsioni e dissonanze inglobate da un sentimentalismo scarno. E allora un brano come "Travel Is Dangerous" potrebbe quasi sembrare il manifesto di un album di furiosa profondità: il cantato di Barry Burns scorre su frenetiche e inconsolabili trame di chitarre folgoranti e caracollanti, tuttavia pronte a indugiare in riflessioni destinate al fasullo sollievo conclusivo.
Inflessibili nella ricerca della sensibilità strumentale più pura, episodi come "Team Handed" e (soprattutto) "Emergency Trap" esaltano il concetto di passionalità silenziosa, in potenza incerta come una storia d'amore sull'orlo della fine, tuttavia sicura, come volesse scrollarsi di dosso la transitorietà della vita. A innalzarne la visione "Friend Of The Night", gemella di una "I Know You Are But What Am I?", ma più ardente nelle atmosfere eteree, ansiosa nel dipanarsi in crescendo tanto trattenuti quando definitivi nei giochi stritolanti fra chitarre e piano. E se il minimalismo della drum machine di "Acid Food" racchiude la dottrina della ballata rinchiusa in se stessa, "I Chose Horses" parte come volesse spogliarsi di ogni abito per poi concedere il palco al recitato di Tetsuya Fukagawa (degli Envy) e regalare istantanee frammentarie di sulfurea bellezza.
Appare allora inevitabile la conclusione, con i Black Sabbath come padrini, di "We're No Here", enfatizzata da una drammaticità inconsolabile e costretta a gettarsi in acque impure, senza concedere alcuna possibilità di riemersione.
Il successivo The Hawk Is Howling (2008) restituisce invece i Mogwai a lunghe suite interamente strumentali, attraverso le quali cimentarsi liberamente, da un lato, con la propria perizia compositiva e confermare, dall’altro, tutti i caratteri di un suono consolidato, anzi ricondotto quasi alla sua matrice primigenia. Abbandonate le timide velleità evolutive palesate negli ultimi dischi, la band cimenta la sua bravura in accuratissime giustapposizioni di tempi ed elementi, in una una sorta di ritorno al futuro, che reinterpreta attraverso una più matura sensibilità il più classico suono-Mogwai, proprio quello che per colpire e coinvolgere non aveva bisogno di parole né di artificiose sovrastrutture, architettate solo per il fuggevole gusto di impressionare.
A quasi esclusiva eccezione dello sferragliante singolo “Batcat”, che presenta un notevole ispessimento della mole chitarristica, accompagnata da ritmiche secche e incalzanti, “The Hawk Is Howling” mostra la band scozzese nella sua veste più romantica, quella che agli stridenti contrasti tra passaggi quieti e repentine impennate predilige il rassicurante abbraccio di atmosfere ovattate, in costante, circolare divenire.
Volendo trovare a tutti i costi un’attinenza interna alla discografia della band, è Come On Die Young a balzare più spesso alla mente lungo i solchi dell’album, in particolar modo nei suoi episodi migliori, a cominciare dalla solennità elegiaca dell’iniziale “I'm Jim Morrison, I'm Dead” (titolo che è tutto un programma…), introdotta dal coinvolgente piano di Barry Burns, alla forza repressa e alla tensione che brucia sotto la cenere di “Danphe And The Brain”, fino ai suoni arrotondati e sognanti dell’obliqua ninnananna “Thank You Space Expert”.
Ma anche laddove il sound si fa più corposo, come nel caso degli arabeschi chitarristici di “I Love You, I'm Going To Blow Up Your School”, permane sempre un’attenzione certosina per efficaci soluzioni armoniche e per melodie che, sotto la loro apparente fragilità, disvelano il tumulto latente del sentimento, che solo a tratti emerge in superficie, ma più spesso introietta la tensione fino a scioglierla con effetti quasi psichedelici (“Local Authority”) e attraverso la fluidità di movimenti graduali, solcati soltanto da timidi retaggi elettronici (“Kings Meadow”) e imprevedibili accenni di un vintage-rock spoglio e privo di effetti (“The Sun Smells Too Loud”).
Simile modalità realizzativa ed evoluzioni calibrate del consolidato suono-Mogwai caratterizzano anche Hardcore Will Never Die, But You Will (2011). Anche in quest'occasione non mancano i momenti di abrasivo impatto chitarristico ("Rano Pano" potrebbe essere la naturale evoluzione di "Batcat"), così come rapide incursioni nel passato della band, attraverso echi che, di volta in volta, evocano i ricordi di Happy Songs For Happy People, del capolavoro Come On Die Young o persino delle torsioni giovanili di Ten Rapid (a proposito, dietro il mixer è tornato proprio un certo Paul Savage...).
Non si tratta ormai più di un disco classificabile come "post-" e nemmeno come... hardcore; piuttosto, è un lavoro nel quale la band scozzese passa in rassegna varie sfaccettature della propria declinazione di un rock in un certo senso "classico", ancorché ampiamente innestato di saturazioni di feedback, pulsazioni elettroniche e incandescenti fughe psichedeliche.
Semplificando al massimo, lungo i cinquantatre minuti del disco, possono riscontrarsi tre direttrici principali, costituite dalla ricerca di un impatto sonoro granitico, da un'acidità electro-punk di sapore decisamente vintage e dalla persistente costruzione di un descrittivismo romantico, ancora una volta affidato ad arrangiamenti morbidi e al pianoforte di Barry Burns. La prima si percepisce da subito nel battito incalzante e nelle chitarre abrasive di "White Noise", così come nelle linee ritmiche nervose di "San Pedro" e soprattutto nella lunga sbornia elettrica della conclusiva "You're Lionel Richie"; la seconda introduce una sorta di psichedelia di poche note e un motorik "autostradale" su "Mexican Grand Prix" e sulla densissima "George Square Thatcher Death Party", entrambe contrassegnate da filtraggi vocali che le speziano di un vago gusto anni 80. Ma è nella terza linea portante dell'album che, al di là delle succitate graduali variazioni sul tema, riaffiorano modalità più abituali, ma non per questo affatto scontate, poiché i Mogwai mostrano per l'ennesima volta di sapere il fatto loro anche nel confezionare attraverso rotonde propulsioni ad alta velocità un brano tutto sommato "canonico" come "Death Rays" o nell'abbandonarsi ai languori pianistici di "Letters To The Metro" e alla solenne intensità emotiva di "Too Raging To Cheers".
Pochi mesi dopo l'album, vede la luce l'Ep Earth Division, frutto del dichiarato intento della band di presentare brani del tutto eterogenei, accomunati soltanto dal minimo denominatore del romanticismo di arrangiamenti d'archi.
Il camaleontismo stilistico dei Mogwai compendia in poco più di un quarto d'ora di durata tutte le caratteristiche tipiche del loro suono passato, affiancandole ad altre decisamente sorprendenti: chi avrebbe mai detto di poter ascoltare gli alfieri del post-rock britannico impegnati in un'ovattata ballad acustica come la splendida "Hound Of Winter"?
I brani d'apertura e chiusura dell'Ep rientrano maggiormente nell'alveo di quanto rappresentato finora dai Mogwai, presentando uno schema speculare, interpretato da oblique note di pianoforte in "Get To France" e da morbide iterazioni chitarristiche in "Does This Always Happen?", mentre "Drunk And Crazy" è il brano più "sperimentale" del lotto, col suo andamento - appunto - ubriaco e schizoide, tra torsioni abrasive iniziali, intermezzo romantico e crescendo maestoso, il tutto percorso da febbrili sciabordii sintetici.
Earth Division, dunque, altro non è che una manciata di canzoni a suo modo disorientante, che sotto la forma di un apparente divertissement consegna alla sua discografia un altro Ep di altissima levatura e - azzardare la previsione è lecito - potenzialmente significativo per il prosieguo della sua attività.
Un anno più tardi è la volta di A Wrenched Virile Lore, il remix album di Hardcore Will Never Die, But You Will. Sbaragliare dall'interno l'equilibrio proprio dell'(ad oggi) ultimo full-lenght degli scozzesi era impresa assai ardua, ma ai Mogwai le sorprese sembrano piacere molto: ed ecco che fra le mani ci ritroviamo un gioiellino inatteso, una vera controparte al disco originale. Merito sì della caterva di ospiti di lusso coinvolta, ma anche della scelta non comune di chiamare a corte alcuni dei più quotati rappresentanti dell'elettronica sperimentale di ieri e di oggi. L'elettro-shoegaze di “George Square Thatcher Death Party” rivisitata dal magnate Justin Broadrick (padre di mille avventure fra cui Godflesh, Jesu, Final, Napalm Death e Techno Animal) è la roboante introduzione alle performance di Klad Hest e Cylob: il primo, nascosto sotto il curioso moniker di Mogwai Is My Dick, monta di acidi e destruttura “Rano Pano”, mentre il secondo tramuta “White Noise” in una dolce litania analogica per synth e vocoder. Meno incisiva è la “How To Be A Werewolf” in chiave ipnagogica di Xander Harris, mentre affini nell'umore cosmico sono la “Letters To The Metro” degli Zombi e la “Too Raging To Cheers” a cura Matt Hill aka Umberto. Gli episodi migliori portano invece le sfavillanti firme di Soft Moon, Tim Hecker e Robert Hampson: la "San Pedro" dei primi è uno psicodramma futuristico di fragore e riverberi, "Rano Pano" è illuminata fra gli abbagli drone-noise del secondo e i tredici minuti affidati al terzo rievocano l'isolamento emotivo dei migliori Loop unendo “White Noise” e “Death Rays”.
A Wrenched Virile Lore è uno dei remix album più riusciti degli ultimi anni, nonché la ciliegina sulla torta dell'eccellente saga di Hardcore Will Never Die, But You Will. Una variopinta inquadratura alternativa per un album dalla carica espressiva complessa e dispendiosa, ad oggi ancora non del tutto compresa.
Come sempre i Mogwai ci offrono la possibilità di vedere il mondo da un'ottica non diversa eppure nuova, per un'epifania di emozioni tinte nei colori della purezza più romantica e, per questo, dolorosa. Perché anche la celestialità, per essere tale, deve sapersi sporcare.
La capacità evocativa del quintetto scozzese trova finalmente consacrazione in una colonna sonora, grazie alla serie francese Les Revenants - adattamento dell'omonimo film di Fabrice Gobert – che narra le avventure di persone morte che misteriosamente tornano a vivere, ma la cui resurrezione coincide con strani e inspiegabili avvenimenti.
Les Revenants fa della delicatezza e della purezza il proprio tratto somatico principale. Mira al cuore per direttissima anziché passando da strade e metafore. Degli imponenti arrangiamenti e delle coltri strumentali a cui la band ci aveva abituato non resta quasi nulla: scomposte ai minimi termini, esse prendono la forma di lievi tocchi d'archi, dolci pioggerelle di synth e ritmi quasi accennati. Il risultato non dista molto dalle migliori colonne sonore di Michael Andrews ("Donnie Darko" su tutti), dal quale non è difficile credere che i cinque abbiano preso più di qualche spunto.
Il carillon di “Hungry Face” è l'introduzione perfetta: un'atmosfera di tensione accennata nel mezzo di un sogno, che si ripresenta più compassata nella distesa candida di “This Messiah Needs Watching”, nell'inquieta “Fridge Magic” e, a discapito del titolo, nella rassegnata litania per synth e chitarra di “Relative Hysteria”. Negli episodi dal clima più oscuro, il talento espressionista di Braithwaite e soci riesce a esprimersi in maniera ancora più evidente: è il caso della dimessa “The Hurts”, della melancolica “Kill Jester” e della più tesa “Eagle Tax”. I pochi reflussi dei suoni post-rock si limitano invece ad affiorare nella nevrosi della conclusiva “Wizard Motor”, nel crescendo etereo di “Special N” e nell'ossessiva e sinistra “Portugal”, tutti brani che non avrebbero sfigurato nei loro ultimi lavori. Unica eccezione al mood del disco è rappresentata dal divertissement “What Are They Doing In Heaven Today?”, una ballata acustica a metà fra McCartney e “Saint-Tropez” dei Pink Floyd.
I Mogwai formato soundtrack stupiscono non poco, rivelando un ennesimo nuovo volto e aggiungendo un'altra tessera al già eterogeneo puzzle della loro carriera.
Nove mesi più tardi, Rave Tapes porta a compimento in Terra il sound che i quattordici gioielli della colonna sonora avevano sviluppato in un universo parallelo, le cui avvisaglie erano emerse a ben vedere già in Happy Songs For Happy People, ben dieci anni prima. Si tratta del definitivo approdo del quintetto gallese in una dimensione intimista, dove la melodia diviene elemento centrale e i crescendo perdono energia per guadagnare colore, con tastiere e sintetizzatori a tracciare la rotta e arginare ermeticamente le esondazioni di chitarra, basso e batteria. Il tutto corredato da quello slancio di cuore, di spontaneità, di umanità in grado di dare vita ad un preambolo magico come “Remurdered”, culla languida e caramellosa per metà e solenne cavalcata di arpeggiatori per l'altra, perfetto sunto della direzione su cui il disco si articola, o a quel misto di malinconia e serenità che aveva fatto la fortuna del lavoro precedente, qui ripreso nel dolcissimo acquarello iniziale di “Heard About You Last Night” e nel tenue carillon di “No Medicine For Regret”. Se la grezza “Master Card” torna a guardare per un attimo alle vibrazioni di "Rano Pano” e “Hexon Bogon” mira con (troppa) foga ai fiumi in piena di Mr. Beast, le coordinate della “nuova dimensione” si identificano invece nel mantra ultraterreno di “Repelish” e in due meraviglie come il tappeto volante di “Simon Ferocious” e il motorik lunare in tempo dispari di “Deesh”. A coronare un album secondo per atmosfera forse solo al suo predecessore, i cinque infilano due dei climax più straordinari della loro carriera: la spettrale e disarmante “Blues Hour” e la struggente “The Lord Is Out Of Control”, in grado di strappare in un colpo solo, sotto la guida del vocoder e di un dialogo perfetto tra chitarre in ascesa e fronde elettroniche, il fiume di lacrime trattenuto in precedenza.
Rave Tapes segna il definitivo ingresso in una nuova era sonora per i Mogwai nonché l'altrettanto siderale presa di distanza da quella cerchia che ancor oggi si suole chiamare post-rock, tanto ricca di momenti magici quanto imperniata di fatto su un gruzzolo di cliché. Nulla che abbia a che fare con la libertà che ha contraddistinto da sempre la saga dei gallesi e che la loro musica riesce ancora e più che mai, nel suo progressivo sfumare dall'impeto della tempesta alla quiete apparente del sogno, a trasmettere.
Ad aprile 2016 i Mogwai pubblicano una nuova colonna sonora: Atomic, rivisitazione delle musiche composte l'estate precedente per il documentario “Atomic: Living In Dread And Promise” diretto da Mark Cousin per la Bbc, realizzato per ricordare un drammatico anniversario: i 70 anni dalla tragedia di Hiroshima. La band scozzese si è immersa completamente nell’atmosfera, recandosi anche a visitare il Parco della Pace di Hiroshima, e ha partorito dieci tracce dal tono profondamente evocativo, affidandosi in maniera quasi esclusiva all’uso dell’elettronica. L’iniziale “Ether”, intrisa di malinconia e toni epici, con il suo crescendo abilmente studiato, conferisce subito il tono all’album, durante il quale ritroviamo gli ingredienti tipici del suono Mogwai: il gusto per la ripetizione e per l’accumulo progressivo (“SCRAM”), l’andatura marziale e decadente (“Pripyat”), la magniloquenza estatica (“Bitterness Centrifuge”), gli accenti wave (“U-235), le rarefazioni cosmiche (presenti un po’ ovunque). La seconda parte del disco ha momenti più descrittivi (quasi inquietante l’andatura di “Weak Force” e “Little Boy”), e dal punto di vista musicale riserva i maggiori acuti in corrispondenza dell’emozionale “Are You A Dancer?” (con il violino in gran spolvero) e nella lievemente disturbata “Tzar”.
Pianoforte prima e chitarra poi cesellano la conclusiva desolazione di “Fat Man”, il nome della bomba nucleare che venne sganciata su Nagasaki, l’epilogo della Seconda Guerra Mondiale. Poi il silenzio. La distruzione è avvenuta. La strage è compiuta. In Atomic tutto è pensato in funzione dello scopo narrativo, seguendo un filo logico strumentale allo svolgimento di uno storyboard, anche se documentaristico. Ed i risultati sono sorprendenti: la visione della pellicola mostra un perfetto connubio fra suono e immagini, ma l’apparato musicale resta coinvolgente anche se svincolato dal documentario. Ormai alla pari con tutti i più quotati compositori di colonne sonore contemporanei, i Mogwai non riuscirebbero a partorire un’operazione malriuscita neppure se ci si impegnassero davvero. E anche in questo caso non si smentiscono.
Every Country’s Sun (2017), distante da svolte radicali o rivoluzioni sonore, mantiene alta l’asticella della qualità e del perfezionismo dei suoni, aspetto che da sempre contraddistingue la carriera degli scozzesi. Si alternano momenti tipicamente post-rock (“20 Size”, l’adrenalinica “Battered At A Scramble”, l’ipnotica “Don’t Believe The Fife” e quella che sembrerebbe essere una citazione dei June Of 44, “Old Poison”) ad altri meno prevedibili come “Party In The Dark”, tentativo pop con inizio dark-wave a cui seguono chitarre shoegaze e cori britpop. “Crossing The Road Material” è una clamorosa citazione dei Neu!, brano che sarebbe stato perfettamente in uno qualsiasi dei primi tre album dei creatori del motorik beat. Il momento più intimista e minimale è quello di “Aka 47” - uno dei vertici dell'album - che mostra quanto il legame tra post-rock e ambient sia indissolubile. La title track “Every Country’s Sun” ci consegna un gruppo ancora capace di unire, in appena cinque minuti, melodia e passione, tecnica e fantasia, come negli anni d’oro degli esordi. L’iniziale “Coolverine” - scelta come primo video ufficiale - è un po’ l’emblema dei nuovi Mogwai; grande semplicità che si sviluppa in appena due-tre note di chitarra su cui si stratificano gli altri strumenti. E’ tutto vecchio ma allo stesso tempo tutto nuovo; gli scozzesi sembrano avere molte più vite di quanto era lecito attendersi dal loro abbagliante esordio.
Nel 2018 tornano ad approcciarsi alla soundtrack con Kin, film di fantascienza distopica diretto dai due fratelli esordienti Jonathan e Josh Baker. Gli scozzesi si confermano maestri nella capacità di creare atmosfere ricche di sfumature diverse, molto spesso dando l’impressione di farlo con una facilità sorprendente. La loro ricetta di post-rock con influenze kraut e ambient sembra non esaurirsi mai.
Proprio i ritmi ossessivi kraut (in stile Neu!) si rivivono chiaramente nella frenetica “Flee”, ma la varietà non manca. Dal (quasi) piano solo di “Eli’s Theme”, agli ambienti sintetici di “Funeral Pyre” fino ai ritmi lenti di “Miscreants”, i Mogwai si adattano in modo professionale alle immagini, cercando di ottemperare alle richieste dei registi. Ma è quando restano se stessi che trovano maggiore forza ed efficacia. Il crescendo strumentale di “Donuts” è il manifesto dell’album, potente ed emotivo, ricco di energia e pathos come i Mogwai ci hanno abituato nei loro periodi d‘oro. “Kin” e “Gun’s Down” contengono anch’esse tanti degli elementi che sono il loro marchio di fabbrica; melodia, tempi lenti con improvvise accelerazioni. Chiude l’unico brano cantato, "We're Not Done (End Title)", fuga shoegaze che pare come una versione minore depotenziata della ballata "Party In The Dark" dell’album Every Country's Sun.
Nel 2020 ritornano alla soundtrack con ZeroZeroZero, la serie Tv tratta dal romanzo di Roberto Saviano, con la regia di Stefano Sollima. L'album contiene la tipica duplicità di una parte della loro discografia, essendo allo stesso tempo perfetto e prevedibile. I brani si muovono entro canoni già chiari, in un continuo citarsi e ricitarsi che può apparire ripetitivo, ma che è anche consono al compito prefissato, accompagnare le immagini di una serie Tv. Manca di certo il momento che lascia interdetti o addirittura senza fiato, pur nella buona qualità generale. Insomma c’è molto mestiere e precisione ma manca il volo pindarico o il colpo di genio che avrebbe certamente dato un salto di qualità.
Opera numero dieci dei goblin scozzesi del post-rock, As The Love Continues è la migliore da tanto tempo a questa parte. Il suo suonare come una specie di rassegna di topos sonori e trucchi della formazione, organizzati in una parata di undici brani ispirati e disomogenei, genera così tanto entusiasmo che ad un primo ascolto il disco esalta forse ancor più di quanto dovrebbe. Questa volta in effetti Braithwaite e i suoi manigoldi sono stati un po’ ruffiani, ma in As The Love Continues certe ascensioni sono così verticali e certi fondali così profondi e pregiati, che il grazioso inganno di fa accogliere col sorriso dei bambini che continuano ad aspettare Babbo Natale pur sapendo di chi si tratti davvero.
L’opener (“To The Bin My Friend, Tonight We Vacate Earth”) è una lenta ambientazione atmosferica da scafati compositori di colonne sonore: sfondo sintetico fuligginoso, solenni rintocchi di pianoforte e poi, quando la tensione è palpabile, giù di wall of noise chitarristico reso sfavillante dalle soffiate dell’organo di John Cummings. Si prosegue alla volta della sbrilluccicante “Dry Fantasy” passando per l’elettronica videogiocosa di “Here We, Here We, Here We Go Forever”, che continua l’interessante lavoro ritmico e sintetico intrapreso con il sottovalutato Rave Tapes del 2014.
Praticamente un’incursione cantata e dolente nell’alternative-rock melodico degli anni ’90, “Ritchie Sacramento” si candida a miglior canzone in senso letterale della band. Il brano ha un impatto e una rotondità strutturale tali da far pensare che la band abbia battuto questo territorio davvero troppo poco. Insomma una roba che numerosi fan di “Take Me Somewhere Nice” avranno da ritoccare le proprie playlist. Riff decisamente poco post e molto alt, animano anche l’adrenalinica “Ceiling Granny”, che tra immersioni a capofitto nei flanger e bordate di rumore non concede riparo o sosta.
Anche “Drive The Nail” è bella violenta e in quanto tale offre il suo meglio a decibel aumentati; mentre “Fuck Off Money” è un invito vocoderato a immergersi in profondità oceaniche dove gorgheggiano occulti sintetizzatori e chitarre in tormenta. Con le sue chitarre che sgommano tra un fiorire barocco di archi e tastiere, “Midnight Flit” è un altro highlight del disco, nonché una riprova dell’assenza conclamata di barriere nell’ispirazione della band. Chiude il disco un trittico di brani più raccolti e paesaggistici, dove sono i dettagli e le finiture a stupire invece del consueto rollercoaster emozionalereso proverbiale dalle dinamiche quiet-loud della formazione.
Rispetto ai loro standard, i Mogwai di As The Love Continues sono molto immediati, rinunciano a costruzioni lente e per accumulo, puntando invece tutto sulla potenza dirompente delle idee e della loro messa in atto. Non fosse per la grande varietà di soluzioni in campo, questo approccio ricorda il ruggente Mr. Beast del 2006.
Contributi di Erik ("Rock Action"), Paolo Sforza ("Happy Songs For Happy People"), Raffaello Russo ("The Hawk Is Howling", "Hardcore Will Never Die, But You Will", "Earth Division"), Matteo Meda ("A Wrenched Virile Lore", "Les Revenants", "Rave Tapes"), Claudio Lancia ("Atomic"), Valerio D'Onofrio ("Every Country's Sun", "Kin", "ZeroZeroZero"), Michele Corrado ("As The Love Continues").
Ten Rapid (Collected Recordings 1996-1997) (raccolta, Rock Action, 1997) | 7,5 | |||
4 Satin Ep (Chemikal Underground, 1997) | 6,5 | |||
Young Team (Chemikal Underground, 1997) | 8,5 | |||
Kicking A Dead Pig - Mogwai SongsRemixed (remix, Eye Q, 1998) | 6 | |||
No Education - No Future (Ep, Chemikal Underground, 1998) | 7 | |||
Come On Die Young (Chemikal Underground, 1999) | 7,5 | |||
Ep (Ep, Chemikal Underground, 1999) | 6 | |||
Ep + 6 (raccolta, Chemikal Underground, 2001) | ||||
Rock Action (Southaw/PIAS, 2001) | 6 | |||
My Father, My King (Ep, Rock Action/PIAS 2001) | ||||
Happy Songs For Happy People (Rock Action/PIAS, 2003) | 6,5 | |||
The Fountain - Music From The Motion Picture (OST, with Clint Mansell & Kronos Quartet, Nonesuch, 2001) | ||||
Zidane - A 21st Century Portrait(OST, Rock Action/PIAS, 2006) | ||||
Mr. Beast (Rock Action/PIAS, 2006) | 7,5 | |||
The Hawk Is Howling (Matador, 2008) | 7 | |||
Special Moves (live, ltd, Rock Action, 2010) | ||||
Hardcore Will Never Die, But You Will (Rock Action/Sub Pop, 2011) | 7 | |||
Earth Division(Ep, Rock Action, 2011) | 7,5 | |||
A Wrenched Virile Lore (remix, Rock Action/Sub Pop, 2012) | 7 | |||
Les Revenants (soundtrack, Rock Action, 2013) | 8 | |||
Rave Tapes (Rock Action/Sub Pop, 2014) | 7,5 | |||
Atomic (soundtrack, Temporary Residence/Rock Action, 2016) | 7 | |||
Every Country's Sun(Rock Action, 2017) | 7 | |||
Kin(soundtrack, Rock Action, 2018) | 6,5 | |||
ZeroZeroZero (soundtrack, 2020, Rock Action) | 6 | |||
As The Love Continues (Rock Action, 2021) | 7,5 |
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