Nell’ambito della musica elettronica sperimentale, tra ambient e noise, Tim Hecker è stato probabilmente il più innovativo e sorprendente musicista che ha esordito dopo il 2000. Legato inizialmente al glitch di Fennesz, probabilmente il punto di riferimento fondamentale nella prima fase della sua carriera, negli anni ha creato una poetica sempre più personale che lo ha portato - in certi frangenti - a spiccare voli pindarici a cui difficilmente musicisti a lui assimilabili potranno mai avvicinarsi. Mosso dall'ambizione di cambiare continuamente e di non adagiarsi mai sui successi precedenti (nella sua carriera possono identificarsi almeno quattro fasi), Hecker è riuscito a ideare una musica elettronica di ricerca in grado di superare ben presto le influenze del padre putativo Brian Eno, per dare vita a una grammatica musicale alternativa, aprendo di fatto la strada a una nuova generazione di compositori di musica sperimentale (Ben Frost, Rafael Anton Irisarri, Aidan Baker, Lawrence English ecc).
E’ probabile che la sua peculiare costruzione dei suoni, la sua capacità di destrutturare i brani per trasformarli in grandi cattedrali sonore abbia influenzato particolarmente Rafael Anton Irisarri, come anche la violenza del suo noise abbia fornito una ispirazione cruciale a Ben Frost.
Prima fase: dalle influenze di Fennesz all'elogio dei partigiani italiani
Hecker esordisce a nome Jetone nel 2000 con Autumnmonia, Lp abbastanza atipico nella sua discografia, legato alla techno e alla Idm più ritmata, a cui si associano tratti più atmosferici. Ancora con lo pseudonimo Jetone pubblica Ultramarin (2001,) lavoro minimal techno che migliora le idee dell’anno precedente. Finora ben poco fa sospettare quello che avverrà negli anni successivi.
L’esordio a suo nome è Haunt Me Haunt Me Do It Again (2001). Nonostante possa considerarsi solo un abbozzo di quello che il giovane Hecker diventerà, mostra una serie di idee per nulla derivative. Si intravede quella capacità di plasmare i suoni con aspetti se non lugubri almeno autunnali, con droni e glitch che trasudano sentimenti oscillanti tra malinconia e paura, tra paesaggi apparentemente senza vita (le febbrili pulsazioni microscopiche di “Music For Tundra”), primi tentativi di coniugare visioni astratte e imponenza (“The Work Of Art In The Age Of Cultural Overproduction”), manipolazioni sonore che pennellano scenari autunnali espressionisti (“October”), numeri ambient eterei ma per nulla scontati (“City In Flames”).
Il capolavoro, il primo della sua discografia, è senz’altro “Boreal Kiss”, fragile affresco di carillon che mostra potenzialità enormi che Hecker saprà come sfruttare in futuro.
Nel 2002 il compositore canadese pubblica solo due Ep che possono ancora catalogarsi come faticosi tentativi di ricerca di una propria identità. In entrambi i casi qualcosa di significativo emerge. Trade Winds, White Noise contiene “Days Of Your Lives” che ricerca timbri sonori tra piano e vibrafono, mentre My Love Is Rotten To The Core rappresenta il suo primo vero approccio cacofonico, in cui affronta e destruttura selvaggiamente uno dei suoi amori giovanili, Eddie Van Halen. La rilettura in chiave noise dei riff di Van Halen è originale, come anche l’idea di un mini-concept sui motivi della separazione della band, arricchito di innumerevoli campionamenti e interviste. Si salva sopratutto “Introducing Carl Cocks”, opera ipercaotica di totale destrutturazione del picking chitarristico di Van Halen.
Radio Amor (2003) scopre il pianoforte e denota subito una maggiore esperienza nella manipolazione sonora, che si fa sempre più sottile ed elaborata. E’ il primo Lp che lo fa notare davvero al di fuori di una stretta cerchia di conoscenti e risente - mai come prima - della ripetizione minimalista di Terry Riley (le note di piano di “Song Of The Highwire Shrimper” o i loop di “Spectral” ne sono un esempio). Ma la tecnica del maestro Riley viene appresa e riutilizzata per imprimere al suono un aspetto di sordida allucinazione, di una visione mai messa davvero a fuoco. I colori dell’arcobaleno di Riley diventano fitte nebbie.
Per la prima volta, inoltre, è presente un aspetto che diventerà sempre più importante nella futura discografia: nonostante il sound minimale, Hecker inizia lentamente a costruire quelle astratte cattedrali sonore sempre più imponenti - prototipo per quelle future Rafael Anton Irisarri, ma in una versione ben più astratta - che lo distingueranno da gran parte dei suoi colleghi. “(They Call Me) Jimmy” è solo un esempio di pattern di piano ripetuto e loop di synth che caricano di tensione. Anche qui non manca un capolavoro che svetta sul resto della tracklist: l’inquietante “Azure Azure”, dominata da droni di chitarra che aumentano sempre più di intensità fino allo zenit finale. E’ un crescendo quasi alla Glenn Branca, che fa da contraltare agli altri brani più legati al minimalismo. Altro esperimento che cerca di creare potenti muri sonori è quello di “7000 Miles” che, con le sue drammatiche pulsazioni, anticipa in parte la futura produzione di Hecker.
Come spesso accade, il brano più sperimentale dell’album precedente è quello che ispira il disco successivo. Ispirandosi al coraggio dei partigiani italiani, Mirages (2004) si pone come continuazione ideale delle distorsioni di “Azure Azure”. Meno godibile di Radio Amor ma più ragionato e studiato, Mirages è probabilmente uno di quei lavori intermedi fondamentali per giungere alla totale maturazione di un artista. Il disco è dominato da una continua lotta tra due mondi, che cercano di prevaricarsi senza tuttavia mai riuscirvi; da una parte residui di ambient minimale offuscato dalle continue distorsione, dall’altro suoni selvaggi che si impongono con imponenza. “Acephale” ne è un esempio evidente, con le le manipolazione della chitarra che giungono a confini fino a quel momento estranei al repertorio di Hecker.
Ma il viaggio nell’incubo (o perlomeno nella lotta necessaria tra bene e male) è senza tregua. Il piano scompare quasi del tutto, se non nelle lievi brezze di note di “Neither More Nor Less” che si estinguono all’arrivo di una sinistra voce femminile quasi robotica, senza alcuna espressività. La traccia più vicina alla categoria ambient è “Celestina”, lenta e onirica con un loop etereo degno dei migliori lavori di William Basinski. Il glitch emerge in “Kaito”, mentre “Balkanize-You” è ben più opprimente, ai limiti del dark-ambient. “Incurably Optimistic” chiude con un apparente ottimismo; se il male porta la morte, dopo non potrà che tornare la vita. Sembra quasi una liturgia atea per chi ha lottato senza ignavia, una preghiera elettronica ipermoderna contro la modernità, un requiem sommerso da rumore bianco.
Sempre nello stesso anno Hecker pubblica un Ep di droni e field recordings intitolato Radio Marti Radio Havana. E’ anche un primo, timido tentativo di avvicinarsi a temi politici e sociali. Radio Marti è una emittente statunitense che da Miami trasmetteva per il popolo cubano in lingua spagnola, nella speranza di creare un’insurrezione contro il governo di Fidel Castro. Radio Havana è invece la stazione filogovernativa di Cuba, mossa chiaramente da obiettivi opposti. In questa contrapposizione estrema tra due mondi separati da una striscia di mare, Hecker sembra cercare un punto d'incontro, un ponte tra due mondi che non riescono a comunicare. Le registrazioni radio e l’inserimento di musica cubana sono sommersi da rumorismi incessanti e droni, ma nel complesso siamo di fronte a un tipico esempio in cui l’idea supera di gran lunga il risultato finale.
Il 2004 è un anno particolarmente prolifico, che si chiude con la pubblicazione di un live, Mort Aux Vaches, registrato il 5 maggio, parte di un progetto dell’etichetta indipendente tedesca Staalplaat che ha pubblicato una serie di cd di artisti diversi sul tema antimilitarista. Il titolo del progetto ("Morte alle mucche"), indica proprio il nome con cui i francesi chiamano spregiativamente i poliziotti.
Nel 2006 esce un Cd-r, Pareidolia, con un solo brano di cinque minuti, in cui il compositore canadese elabora il suono di una chitarra distorta, ma il risultato è dimenticabile e non all'altezza del suo talento. In ogni caso, manca davvero poco alla vera svolta della sua carriera. Ci riprova con la techno, rispolverando il suo progetto Jetone con Sundown (2006), ma non sembra questo un campo nel quale Hecker possa emergere rispetto alla marea di pubblicazioni esistenti.
Seconda fase: la trilogia che lo incorona simbolo della scena contemporanea
Harmony In Ultraviolet (2006) può definirsi il disco della svolta e della maturità, oltretutto prodotto dalla prestigiosa etichetta Kranky. E’ il primo di quella che potrebbe intendersi come una trilogia, vertice della carriera di Hecker, completata successivamente da An Imaginary Country (2009) e Ravedeath, 1972 (2011). E’ l'inizio di una fase di percepibile evoluzione che porta la musica di Hecker ad approfondire la poetica dei loop di Basinski donandole un aspetto persino sacrale. Se precedentemente avevano parlato di requiem atei, ormai possiamo davvero parlare di cattedrali sonore, luoghi di una nuova e moderna spiritualità. Brani imperdibili come “Chimeras” e “Dungeoneering”, con una stratificazione sempre più curata, rendono le sonorità heckeriane sempre più riconoscibili.
“Palimpsest”, in particolare nella sua seconda parte, anticipa gran parte delle sue migliori intuizioni future, mentre continua l'abbraccio tra noise e ambient, sempre più strettamente legati. E’ geniale la capacità di Hecker di rendere percepibili all’orecchio i colori che danno il titolo ai brani, nei quali tutto ha un suono e una timbrica studiata in modo maniacale. La colata di rumore bianco di “Whitecaps Of White Noise”, ad esempio, è quasi percepibile sensorialmente, ma resta costantemente pura astrazione bianca informe.
Se Irisarri riesce a dipingere paesaggi reali, Hecker crea mondi astratti, rendendoli percepibili, quindi almeno parzialmente reali.
La trilogia viene intervallata da alcuni Ep, il primo dei quali è Norberg (2007), un unico brano di venti minuti (il più lungo della sua carriera) che riprende le atmosfere precedenti e le intuizioni basinskiane per dar vita a una lunga sinfonia elettronica. Poche note decostruite, straziate da rumori di fondo, cercano costantemente di emergere dal magma sonoro che le intrappola. E’ una lotta costante, costruita in modo magistrale.
I 20 minuti della title track muovono da un gruzzolo di note, in principio organizzate ancora in forma di pattern circolari, dalle quali il rumore penetra e fuoriesce, espandendole progressivamente fino a trasformarle in un groviglio di armoniche e a rimanervi “imprigionato”. In un'autentica operazione di destruktion da antologia, Hecker rimette in libertà la sostanza sonora che sarebbe divenuta nei lavori a venire strumento espressivo nelle sue mani, pronta a essere plasmata in quelle possenti architetture divenute oggi autentico marchio di fabbrica.
Atlas Ep (2007), diviso in due brani, è invece uno dei suoi lavori brevi più originali e interessanti, con un noise sempre più strutturato, alternato a melodie sommerse. La prima parte più caotica e la seconda più tipicamente ambient sono in pratica due elaborazioni del rumore bianco di Harmony In Ultraviolet.
Nel 2008 Tim Hecker collabora col connazionale Aidan Baker in Fantasma - Parastasie, lavoro estremamente noise, molto cupo, quasi gotico nelle intenzioni (tra fantasmi, incubi, donne invisibili). Un disco in cui il lato concettuale dell'opera soccombe al rapimento emotivo offerto non di rado dal furibondo accoppiamento tra i muri di rumore bianco (eppure celestiale) della chitarra di Baker e il variegato background elettronico messo a disposizione da Hecker.
Appena il tempo di premere play e le lastre noise di "Phantom Of A Pedestal" fanno irruzione con la violenza di un vento impetuoso, ma è con il secondo movimento, "Hymn To The Idea Of Night", che la fantasia sonica creata dal duo inizia a lambire sponde di straordinaria bellezza, lì dove l'intarsio di suoni e distorsioni arriva a vertiginose altezze ambientali. E' un suono dunque dilatato quello che in "Auditory Spirit" lavora di sottigliezza e di texture, che in "Gallery Of The Invisible Woman" intrappola una estatica melodia in densissimi strati di sporcizia chitarristica, o che si perde negli inquietanti e lustmordiani silenzi del movimento conclusivo, definitiva chiusura della seduta spiritica.
Suono che si fa disperato con la chitarra metal rielaborata di "Skeleton Dane", forse l'episodio più interessante, e disperazione che diventa esperienza paradisiaca nell'immensa evocazione di "Dream Of The Nightmare".
L'anno successivo Hecker pubblica invece a sua firma An Imaginary Country (2009), un'opera che fornisce una nuova e solo in apparenza più piana declinazione di quella dimensione sospesa sul crinale tra noise e musica ambientale. Stavolta Hecker pare quasi guardarsi le spalle, segnando di fatto un piccolo passo indietro.
Sulla tavolozza di Hecker si alternano timbriche sfumate, ottundenti aperture psichedeliche e una magmatica densità armonica, che avanza inesorabile lungo tutto il corso dell’album, fino ad assumere le sembianze di modulazioni oniriche, che nella sua parte finale riecheggiano sentori dell’Eluvium di “Talk Amongst The Trees”.
Hecker inizia anche a dare un tema ai suoi lavori, che comunque restano ancora pure astrazioni (paesaggi evanescenti o immaginari). Dalle texture pulsanti della classica “Sea Of Pulse”, con un basso elettrico elettrico di fondo, alla romantica “Borderlands”, le cui fluide pulsioni, nel loro ricadere su se stesse, ricordano i moti di marca Boards Of Canada, sembra che l’autore cerchi atmosfere più intimiste e persino un avvicinamento alla melodia.
L'apertura e la chiusura (rispettivamente “100 Years Ago” e “200 Years Ago”) sperimentano invece un drone sintetico molto violento che straccia ogni romanticismo precedente. Nonostante Hecker cerchi di ricreare nuovi mondi sonori rallentando e riducendo al minimo (la languida “Her Black Horizon”), il suo vero marchio di fabbrica resta la potenza dei droni di brani come "Where Shadows Make Shadows", in cui i fantasmi digitiali attraversano lo spazio da parte a parte sospesi a mezz'aria, con movenze lente ma costanti. Operando con ottimo senso della prospettiva, Hecker pennella ora scie astrali trascinate da fendenti in odor di Oriente ("100 Years Ago"), ora impercettibili movimenti ambientali ("Currents Of Electrostasy"), ora nuovi ricami elettronici ("The Inner Shore"), mentre gli echi di un lato musicale più oscuro e intricato emergono da "Paragon Point", cupo affresco dai contorni noise gradualmente distesi. Hecker chiude il cerchio con un moto a ritroso: "200 Years Ago" è un climax cosmico dai contorni dorati, le cui note si librano come atomi, tutte perfettamente entro la loro orbita.
An Imaginary Country rappresenta una sorta di disvelamento melodico – non dissimile da quello ravvisabile negli ultimi lavori di Fennesz – qui affiorante con decisione da uno spesso substrato di drone e riverberi, talora sensibilmente dissonanti. Al contempo, la complessiva maggiore concisione dei brani e il loro più robusto spettro emozionale tendono a travalicare la rigorosa impronta cerebrale delle composizioni di Hecker, donandovi più immediata intelligibilità comunicativa e un’ampiezza di respiro a stento conseguita dalle opere precedenti.
Nel 2010 pubblica una breve Ep (otto minuti) con un solo brano, Apondalifa, una ricerca sonora basata su un loop di una chitarra e poche note di piano, chiamati a far parte della massa sonora, che proprio su di essi si evolve e attorciglia, in un crescendo lento e costante che ri-declina in un lasso di tempo vasto l'idea di impeto.
L'amico Lawrence English recupererà nel 2015 questo Ep ormai introvabile, insieme al precedente Norberg, ristampandolo con la sua etichetta Room40.
Se An Imaginary Country forse non aveva compiutamente sviluppato le intuizioni di Armony In Ultraviolet, l'operazione, invece, riesce alla perfezione con Ravedeath, 1972 (2011), vertice finale di questa prima fase e punto di arrivo definitivo della sua stagione più ispirata. Presentato dal video emblematico di un gruppo di studenti che gettano dal tetto di un'università un pianoforte, è un disco che segna un nuovo confine tra quello che è stata la musica da quello che potrebbe diventare. Il gesto simbolico della distruzione dello strumento classico per eccellenza è l'emblema del messaggio di Hecker. Proprio questa è una grande novità, per la prima volta Hecker elabora un tema e pubblica quello che potrebbe definirsi quasi un concept-album. Hecker allestisce imponenti cattedrali noise, che mostrano un'incredibile capacità narrativa, e questo rappresenta un’assoluta novità per il compositore canadese.
Registrato in una chiesa in Islanda, con l’utilizzo dell’organo a canne (come facevano i Popol Vuh negli anni 70), Ravedeath 1972 esprime i caratteri più epici e ancestrali di quella terra: un magma primordiale nel quale cupe turbolenze rumoriste si sposano con straordinaria naturalezza con astrazioni armoniche, folate sintetiche e brulicanti saturazioni ambientali. Ravedeath, 1972 può considerarsi concettualmente un'opera noise, che tuttavia solo per rari tratti suona come tale, e questo non soltanto per l'ingente presenza di suoni processati e turbinosi drone, che pure lasciano trasparire la percezione distinta di distorsioni, note pianistiche e soprattutto delle onnipresenti tastiere. Ne risulta una mirabolante tavolozza di trance sintetico-orchestrale, i cui contorni solo parzialmente arrotondati evocano un immaginario costituito da ruvide increspature, fedelmente riassunto nel titolo del disco e in quelli di buona parte della sua tracklist, che descrivono rappresentazioni forti quali quelle di odio, suicidio, paralisi e di una nebbia spettrale che ottunde i sensi in una solenne sinfonia, come quella di cui alla prima delle due significative trilogie ispirate a elementi atmosferici, come nella maestosa sinfonia oscura di “In The Fog” divisa in tre parti, un viaggio tra inestricabili nebbie elettroniche trafitte da stilettate di organo processato. E’ il brano più vivo e coinvolgente della sua carriera, per la prima volta capace di ricreare paesaggi assolutamente reali, assecondando un’idea narrativa che percorre l’intero album. La nebbia non è mai stata così tanto percepibile sensorialmente tramite dei suoni.
Le pulsioni che scuotono dalla superficie lo specchio d'acqua montana di "The Piano Drop" sono esempio lampante della nuova sintesi sonora raggiunta, fra gelide folate e tensioni misteriose. "No Drums" pennella un quadretto di puro isolazionismo sonico, degno dei migliori momenti di Thomas Koner. Al silenzio seguono le impetuose muraglie dei due episodi di "Hatred Of Music", passaggi di puro romanticismo in musica, con una potenza epica vicina alle vette di Vangelis. Fra il mare sconfinato di "Studio Suicide, 1980", in odor di Jefre Cantu-Ledesma, e le inclinazioni brumose dei Sigur Rós dei tempi di "Von" ("Analog Paralysis, 1978"), la matassa harsh-ambient del disco si apre al pianoforte nel conclusivo trittico "In The Air", nuova suite elettronica di rumore bianco, procedendo fra malinconiche note e scie celesti in dispersione, che allungano la loro onda sonora in un moto fuori dal tempo e dallo spazio.
Opera densa e multiforme, che abbraccia stili diversi e tocca precordi difficilmente avvicinabili, Ravedeath, 1972 riesce a plasmare la materia ambientale con un tocco ruvido e nel contempo pregno di romanticismo. E’ di certo l’album migliore di Hecker, punto di arrivo di intuizioni precedenti portate pienamente compimento da anni di perfezionamento. In effetti, si potrebbe anche dire che gran parte delle idee contenute nel disco fossero già presenti in Harmony In Ultraviolet. Forse è vero, ma quelle che lì erano solo abbozzi da sperimentatore, qui diventano sinfonie da compositore.
Dopo il successo inatteso di Ravedeath 1972, Hecker pubblica a breve distanza Dropped Pianos (2011), con la medesima cover virata in negativo, contenente una serie di abbozzi di piano che hanno ispirato la genesi di Ravedeath. Seppur possa considerarsi minore, l’album contiene tanti momenti notevoli che ci fanno scoprire un Hecker pianista capace di ricreare i suoi tipici monoliti sonori partendo da brevi abbozzi pianistici, mostrando quindi la sua grande capacità di manipolatore sonoro.
Le tinte seppiate di frammenti pianistici risuonanti nell'etere avviluppano infatti melodie essenziali, percorse da minuti detriti sonori ovvero scoloranti in flussi ambientali evanescenti che, allo stadio in cui sono stati catturati in Dropped Pianos, dovevano essere ancora rifiniti attraverso successivi processi di lavorazione digitale. Ciononostante, l'opera presenta una propria coerenza intrinseca e una forma niente affatto grezza come si potrebbe immaginare, spaziando da melodie trasparenti ("Sketch 2") e raccolte riflessioni notturne ("Sketch 4") a stratificazioni nebbiose e recrudescenze rumoriste (rispettivamente "Sketch 5" e "Sketch 9"), del tutto coerenti con il risultato poi rifuso nell'album pubblicato nei primi mesi dell'anno.
Nel 2012, il compositore canadese collabora con Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) in Instrumental Tourist, un progetto che però non spicca per originalità.
Terza fase: cambiamenti continui, dal violento "Virgins" agli esperimenti di musica rinascimentale di "Love Streams"
Raggiunti livelli così importanti, Hecker avrebbe potuto ripetere e approfondire la sua formula vincente ancora per un bel po’ di anni. Invece decide di mandare subito in pensione la sua trilogia e voltare pagina, come solo i grandi riescono a fare.
Virgins (2013) cambia radicalmente strada, tentando un nuovo approccio alla musica elettronica e dimostrando coraggio e ambizione. Fondamentalmente l'idea di base è quella di creare un ponte tra la musica elettronica e alcuni elementi di modern classical, non un'idea nuova in sé, ma elaborata da Hecker in modo assolutamente anomalo.
“Virginal I”, con il suo piano sincopato e ripetitivo, caotico e controllato allo stesso tempo, è tanto bizzarro e originale da rasentare l'inaudito. La prima metà dell'album pare quasi segua il flusso del suo predecessore, in una sorta di liaison. Ai violenti synth di "Prism" si contrappongono i piani modern classical di "Black Refraction", con quelle microvariazioni che danno il senso del fluire.
Tanti gli abbozzi di nuove idee, che coniugano i pianismi di Peter Broderick o Nils Frahm con le distorsioni più elettriche di Ben Frost. “Live Room” è proprio questo: un piano rapido si ripete per essere a poco a poco sovrastato prima da droni, poi da morbidi synth, in un marasma di contrasti deflagrante. Scompaiono la cattiveria, i moti harsh, lasciando spazio alle delicatissime nebbie di "Amps, Drugs, Harmonium". E né "Stigmata I", né il suo contraltare "Stigmata II", costruite diametralmente su vibrazioni sconnesse, andirivieni e stop & go, vanno a insidiare le mura di un album delizioso che chiude la sua parabola con "Stab Variation", stupefacente quadretto gotico per drone industriali.
Virgins è la seconda vita di Hecker. Si ripulisce totalmente, immerge i suoi droni nell'acqua santa e ottiene output immacolati. Tenta la carta del minimalismo, della de-strutturazione delle sue saturazioni e alle forme quasi dronegaze del passato ne sostituisce i perfetti contraltari per pianoforte. E, ancora una volta, non ce la fa a deludere.
Passano ben tre anni ed è la volta di Love Streams (2016), ottavo album in studio, ennesimo (parziale) cambiamento. Hecker trova il nuovo elemento da sviscerare e approfondire: la voce. Una voce che diventa punto di congiunzione tra la contemporaneità e il Rinascimento, vero filo conduttore di tutto l'album, come un flusso continuo senza soluzione di continuità che parte dai synth di "Obsidian Counterpoint" fino agli spettri di "Black Phase". Un tentativo quasi inaudito di far convivere i suoni alieni dell'elettronica con i cori delle opere del compositore fiammingo Josquin Desprez (1450-1521). I cori rinascimentali di Desprez (cantati in latino ma poi invertiti al pc), rielaborati e snaturati digitalmente con la collaborazione di Jóhann Jóhannsson e del produttore Ben Frost, introducono aspetti nuovi e mai esplorati da Hecker.
Il tentativo potrebbe rimandare al magnifico Lp del duo Ambrose Field & John Potter, "Being Dufay" (2009), ma la musica di Hecker ha ambizioni totalmente diverse; non c'è nulla di sacro in essa, nulla di antico, nulla che sembri onorare passati splendori. Mentre Ambrose Field & John Potter inseriscono sapientemente sottofondi elettronici in un contesto che ricalca ancora la tradizione, immergendo i mottetti rinascimentali nella modernità senza renderli altro se non se stessi, Hecker fa un'operazione differente; i cori manipolati sono gettati in un vortice elettronico ("Music Of The Air"), in un marasma caotico ("Castrati Stack"), snaturati sino all’irriconoscibilità ("Violet Monumental"), a volte ("Black Phase") salvati dalla decostruzione ma lacerati da drammatiche distorsioni di chitarra riprese da Frost. Sembra proprio che Hecker voglia indicarci quella che potrebbe diventare la musica elettronica dei prossimi dieci o quindici anni.
Ma non è solo l'elemento voce a lasciare il segno: la superba "Music Of The Air" è uno dei brani con maggiore pathos, dove il tappeto sonoro si concilia meglio con voci e cori. "Violet Monumental I" e "Violet Monumental II" si segnalano per la maggiore enfasi drammatica, per la solennità e per la totale de-costruzione. In "Voice Crack" sono presenti anche le note di un clavicembalo mentre in "Castrati Strack" le elaborazioni vocali raggiungono livelli inattesi di vigore e potenza.
Ma è nei due brani finali che la poetica di Hecker raggiunge il suo punto di arrivo; "Collapse Sonata" nel suo lento incedere, nel suo dischiudersi - nei due minuti finali - in sonorità basinskiane, rappresenta l'addio e il riconoscimento della vecchia forma sonata, allo stesso tempo onorata e deformata, rispettata ma vittima predestinata di questo processo demolitore. Un album come questo non poteva che concludersi con i sei minuti della superba ed enfatica "Black Phase" (il brano più lungo), a suo modo summa e vetta del nuovo Hecker, che qui usa la musica rinascimentale di Josquin Desprez in un contesto - come si evince dalle immagini del video - angosciante e pauroso, che si avventura verso quella linea che separa la vita e la morte, in una visione sfuocata (vedi la copertina) che divide l'antichità e la modernità.
Quarta fase: il periodo giapponese
La musica di Hecker ha già raggiunto vertici invidiabili, ma il compositore canadese non si accontenta e va ancora una volta alla ricerca di nuovi lidi. Affascinato dalla musica giapponese, nel 2018 e 2019 pubblica due album - assimilabili tra loro - in cui rielabora al pc la musica gagaku dell’ensemble giapponese Tokyo Gakuso, basata su esili armonie di archi e fiati derivanti dall’antica tradizione sviluppatasi secoli addietro nelle corti imperiali e nei templi buddisti. Sono due lavori molto particolari e difficili, come se Hecker avesse scelto un campo di lavoro non proprio agile.
Konoyo (2018) torna a una visione astratta della musica elettronica, potremmo dire di puro suono. Registrato con l'ausilio di Kara-Lis Coverdale, è un album angosciante e claustrofobico, che rende davvero irriconoscibile la musica giapponese di partenza.
Composto nel corso di alcuni viaggi in Giappone, l'album offre in effetti una prospettiva del tutto differente sul mondo (reale o immaginato che sia), la consapevolezza di un’impotenza di fondo che l’arte non è in grado di occultare né sovvertire.
Fra i tanti input rimaneggiati, re-immaginati e non di rado resi irriconoscibili – ancora una volta con l’ausilio di Kara-Lis Coverdale, collaboratrice irrinunciabile da Virgins in poi – i sintetizzatori sono quelli che più nitidamente evocano la sci-fi esistenziale e distopica del terzo millennio, la nostalgia per un futuro che ha mancato di realizzarsi e di un altro, indesiderabile, che sembra aver già preso definitivamente il sopravvento (“In Mother Earth Phase”). Ma volendo rintracciare un elemento cruciale che identifichi l’essenza dell’opera sarebbero le insistenti intersezioni di toni acuti, scie affilate di suono che se in apertura evocano un lamento, un interrogativo senza risposta, nel debordante finale divengono un grido d’aiuto, un canto straziato che rilascia poco a poco tutta la tensione e il senso di abbandono raccolti nel primo atto.
Tra i brani spicca soprattutto l'iniziale "This Life", costruita su nuove sovrapposizioni di droni, dove sono ancora riconoscibili i suoni di un organo a canne e strumentazione orientale. Penalizzato da una lunghezza eccessiva, l’album si chiude con i quindici minuti di “Across To Anoyo”, che parte con un loop quasi lisergico di uno strumento a corde per poi perdersi un po’ nei minuti successivi.
Konoyo (“Questa vita”, stessa traduzione del brano iniziale) è senz’altro una tra le opere meno immediate dell’autore canadese. Instabile, caotico e ossessivamente autoriferito, è insieme un libro dell'inquietudine postmoderna e un lancinante ritratto interiore del suo creatore, replicato con un’immagine di copertina il cui primo piano elude il riconoscimento di figure familiari in una scomposta accumulazione neo-dadaista.
L'ideale secondo capitolo Anoyo (2019) corregge il tiro (dura circa venti minuti di meno) e sembra mettere meglio a fuoco le idee di partenza di Hecker. Una malinconia ancor più accentuata permea questa organica e compiuta simbiosi tra world music e retro-futurismo, ove la concretezza dei suoni derivati dalla tradizione gagaku non è più il piatto di una bilancia fuor d’equilibrio bensì l’orizzonte salvifico, l’approdo di una necessaria fuga dalla follia dell’Occidente. Dal più dolente disincanto Hecker sortisce dunque un incantesimo che vorrebbe fermare il corso del tempo lungo il quale va progressivamente inverandosi il monito esistenziale del precedente album.
“That World” (nove minuti) finalmente fa comprendere come sarebbe dovuto essere fin dall'inizio la commistione di musica elettronica sperimentale e gagaku giapponese. Il clima è tendenzialmente più rilassato e meno oscuro, anche se permane sempre una malinconia di fondo. Più che la violenta destrutturazione, a dominare è la dilatazione, incastro ragionato di suoni diversi, con la creazione di un ambiente sicuro di ascolto per ricercare una pace che nella società odierna non trova degna cittadinanza. In questo “You Never Were” (otto minuti) rappresenta probabilmente il miglior esempio di unione di due mondi che non si oscurano a vicenda.
Benché permangano l'effetto di straniamento e la carica drammatica della recente presa di coscienza, Anoyo rende più semplice lasciarsi trasportare dalle sue atmosfere anziché perdersi nel tentativo di decodificarne il linguaggio: l’anomalia esteriore di quel mondo replica in parte il nostro, ne acuisce i contorni in una forma cubica, una scatola misteriosa che fluttua nell'oscurità del cosmo, rifiutandosi di svelare per intero la propria natura.
Hecker non ha la forza di negare ciò che ha veduto, di scongiurare il destino scritto a chiare lettere di questa vita, ma, come nella liturgia di Virgins, plasma un proprio spazio sacro nel quale convivono tumulto e consolazione in egual misura, ricalcandone le familiari geometrie in attesa di un segno – o un sogno – che possa indicargli l’orizzonte venturo della sua sublime arte sonora.
Nel 2021 si confronta per la prima volta con la soundtrack con The North Water, serie tv britannica tratta da un romanzo di Ian McGuire. Hecker sceglie di inserire all'interno dei quindici brani, buona parte delle idee della sua discografia, mettendole al servizio delle immagini della violenta storia di marinai psicotici e delle scene di caccia alle balene. Quel sound solenne che è stato ormai “certificato” come cattedrale sonora da vari recensori, qui non può che apparire depotenziato, ma restano tante delle intuizioni che hanno fatto la fortuna della carriera di Hecker.
Stavolta gli archi sono decisamente più presenti del solito, ad esempio nella triade di “Seasick”, un interessante studio di violini e violoncelli modificati con inserimenti sapienti di elettronica, in particolare nella seconda parte. Ci sono sentori dei recenti Lp “giapponesi”, Konoyo e Anoyo, ma oggettivamente meno di quanto fosse lecito attendersi. E' invece il suo tipico sound dilatato e stratificato a creare i paesaggi sonori più interessanti, dai synth dilatati ma tipici della sua discografia di “Twinkle In The Wasteland”, alle sovrapposizioni di “Delirious” o “Our First Whale”, molto incentrati sui suoni della trilogia Harmony In Ultraviolet (2006), An Imaginary Country (2009) e Ravedeath, 1972 (2011). C'è anche spazio per un pianoforte puro non rielaborato sccessivamente (“First On Deck”), strumento poco usato da Hecker, cosa anomala e appunto per questo da segnalare.
The North Water non delude, ma è probabile che, all'interno di tante idee interessanti e dosi di mestiere al servizio della serie tv, manchino quei momenti memorabili che sono sempre stati presenti in buona parte dei lavori di Tim Hecker.
Una nuova stagione
No Highs (2023), con la collaborazione di Colin Stetson, segna l'inizio di una nuova fase ancora in definizione, che supera radicalmente la precedente e lo fa prendendo spunto dagli anni migliori della sua carriera (quelli che vanno da Harmony In Ultraviolet e Love Streams) associandole a nuove intuizioni.
Il compositore canadese torna a farsi interprete della modernità cercando di criticare ogni idea di musica ambient pensata come distrazione o, ancor peggio, come momento per “rilassarsi”, pensando alle centinaia di playlist ambient su Spotify create solo per questo. Hecker sa che un compositore coraggioso non deve essere accondiscendente verso l’ascoltatore più superficiale, ma deve stordirlo e stupirlo. Per questo No Highs è austero e monolitico, grigio e rigorosamente immaginato come fuga assoluta dalla musica di “evasione”.
All'inizio la pulsazione ripetitiva di “Monotony” ci ricorda subito il minimalismo di “In C” di Terry Riley, ma a poco a poco l'elettronica sovrasta tutto costruendo passo dopo passo le stratificazioni che da Harmony In Ultraviolet in poi hanno fatto la fortuna di Hecker. Queste pulsazioni rapide stanno alla base di “Lotus Light”, vicina alle sonorità di “Love Streams”, di "Monotony II”, arricchite dai suoni alieni del sax di Colin Stetson, e soprattutto in “Anxiety”, carica di tensione e angoscia, sintesi di elettronica e minimalismo ossessivo.
Quando Hecker propone sonorità a lui familiari lo fa come nei suoi momenti migliori. I timbri autologici di “Winter Cop”, vicini ai loop di Basinski, descrivono paesaggi decadenti quasi come una fotografia, mentre i glitch di “Glissalia” o le alchimie elettroniche di “Living Spa Winter” sembrano un compendio dei motivi che hanno incoronato Hecker come protagonista della musica elettronica di ricerca degli ultimi anni.
Contributi di Matteo Meda ("Norberg", "Apondalifa"), Mauro Roma ("Fantasma-Parastasie"), Raffaello Russo ("Ravedeath 1972", "Dropped Pianos"), Alberto Asquini ("Virgins"), Michele Palozzo ("Konoyo", "Anoyo")
TIM HECKER | |
Haunt Me Haunt Me Do It Again (Substractif, 2001) | |
Radio Amor (Mille Plateaux, 2003) | |
Mirages(Alien8, 2004) | |
Harmony In Ultraviolet (Kranky, 2006) | |
An Imaginary Country (Kranky, 2009) | |
Ravedeath, 1972 (Kranky, 2011) | |
Virgins(Kranky, 2013) | |
Love Streams(4AD, 2016) | |
Konoyo (Kranky, 2018) | |
Anoyo (Kranky, 2019) | |
The North Water (Original Score) (Lakeshore Records, 2021) | |
Infinity Pool OST (Milan, 22023) | |
No Highs (Kranky, 2023) | |
EP, LIVE | |
Trade Winds, White Noise (Parachute Magazine, 2002) | |
My Love Is Rotten To The Core (Substractif, 2002) | |
Mort Aux Vaches(Staalplaat, 2004) | |
Radio Marti Radio Havana (En/Of, 2004) | |
Pareidolia (Twisted Knister, 2005) | |
Norberg (Room40, 2007) | |
Atlas (Room40, 2007) | |
Apondalifa (Room40, 2010) | |
Dropped Pianos (Kranky, 2011) | |
COLLABORAZIONI | |
Fantasma Parastasie with Aidan Baker (Alien8, 2008) | |
Instrumental Tourist with Daniel Lopatin (Software, 2012) | |
JETONE | |
Autumnmonia (Pitchcadet, 2000) | |
Ultramarin (Force In. Music Works, 2001) | |
Sundown (Apnea, 2006) |
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