Nel ciclico riproporsi di sonorità e stili musicali non vi è in apparenza spazio per nuove soluzioni artistiche, gli stessi sussurri di vitalità della musica indie e post-rock sono frutto di brevi e felici intuizioni che si appagano della celebrazione temporale, nulla di cui lamentarsi, ma nemmeno nulla su cui costruire la struttura della musica del nuovo millennio. In verità, si agitano più stimoli di quanti un orecchio umano possa sopportare e la frammentazione creativa non permette di dare organicità all'insieme di proposte interessanti degli ultimi decenni.
In questo confuso e multiforme contesto la figura di Colin Stetson assume i contorni di una rara anomalia del panorama musicale contemporaneo, spesso ricco di mediocrità e riconversione stilistica.
Nato e cresciuto ad Ann Arbor nel Michigan, Colin Stetson mostra subito attitudine per gli strumenti a fiato, anche se la sua passione per il sax ha delle origini piuttosto curiose e atipiche: non è la musica jazz a introdurre il musicista nel mondo degli strumenti a fiato, ma l’ascolto di un brano dei Men At Work. Nel 1997 Colin Stetson si laurea in musica all’università di Michigan, tra i suoi maestri nomi importanti come Roscoe Mitchell, Steve Adams e Henry Threadgill, musicisti fondamentali per il suo primo approccio creativo che avverrà con la band Transmission (poi trasformata in Transmission Trio), messa su ai tempi del college insieme al clarinettista Stuart Bogie, al bassista Eric Perney e al batterista Andrew Kitchen.
Dopo poco tempo Stuart Bogie lascia il gruppo per trasferirsi a New York City, mentre Perney e Stetson formano i People’s Bizzarre: una curiosa formazione chamber-jazz che fonde linguaggi sperimentali e folk europeo.
Trasferitosi a San Francisco insieme a Perney e Kitchen, Stetson rimette in sesto i Transmission Trio, coi quali pubblica un solo progetto discografico, Tiny Beast (2003): un lussuoso esemplare di avanguardia jazz e bebop sulla scia di Charlie Parker e Horace Silver. Intuizioni e originalità non mancano (“Shiloh”, “Tired Of Winning”), ma l’album resta ai margini della discografia jazz, nonostante le poche, ma buone, recensioni sui giornali specializzati.
Nel frattempo il curriculum di Colin Stetson si amplia, le collaborazioni con Fred Frith, Ned Rothenberg e il dj e produttore Recloose portano un po’ di notorietà al musicista mentre Tom Waits lo invita a collaborare a due suoi album: "Alice" e "Blood Money".
L’esibizione con Tom al David Letterman Show consacra il musicista, autore ben presto di un primo Ep e successivamente di un buon esordio intitolato Slow Descent, perfetta fusione di tutte le esperienze passate di Stetson e primo passo verso un linguaggio autonomo.
E’ comunque l’album più strettamente jazz realizzato dal musicista canadese: la presenza di tre eccellenti musicisti (Roger Reidlbauer, Tim Strand e Tom Yoder) e del vecchio compagno d’avventura Eric Perney crea un osmosi creativa che dà ottimi frutti, in particolare nelle due lunghe tracce centrali, “Slow Descent Into Happiness Pt.1” e “Slow Descent Into Happiness Pt.2”, dove Stetson esibisce un limpido lirismo e una inventiva melodica dal forte impatto emotivo. L’intenzione palese è quella di creare un ponte tra il jazz e la musica popolare, moderando assolo e improvvisazioni.
Sgretolato il muro delle convenzioni nei quasi tre minuti dell’introduttiva “Brick”, la musica diventa subito ipnotica e seducente in “The Day I Stopped Trying”, restando abilmente nei limiti dei precetti stilistici: il brano scorre lento e sinuoso come una soundtrack di un film noir degli anni 50 o 60.
Non meravigli la citazione involontaria di “Hey Jude” in “Ephemeron”, il musicista nell’esplorare le infinite possibilità dello strumento a fiato alterna melodie popolari, scampoli di folk e fraseggi blues, incurante della resa d’insieme ma sempre attento a creare una continuità emotiva e viscerale dove strumento e musicista siano un tutt’uno.
Eleganza e raffinatezza non fanno breccia in pubblico e critica e Slow Descent scivola nell’oblio. A questo punto Colin si trasferisce a Montreal, in Canada, sempre più convinto che sia venuto il tempo di mettere a frutto vent’anni di studio e sacrifici, cercando nuove vie espressive che non abbiano il fascino fugace del saggio di bravura di molti musicisti jazz, una blasfemia che inizialmente non gli garantirà i favori della critica.
Stetson trascorre cinque anni riannodando i fili della memoria e apprendendo dal suo nuovo maestro, Chris Creviston, una visione filosofica e artistica che presto darà i suoi frutti. Grazie a quest’ultimi preziosi suggerimenti, il musicista prende padronanza della sua forza espressiva, applicando la tecnica del controllo delle emozioni tipica del cinema, elaborando una struttura compositiva simile a quella di una sceneggiatura teatrale e cinematografica.
Beatles, Queen, Metallica e soprattutto Jimi Hendrix si alternano negli ascolti del giovane musicista, altresì attento a linguaggi sonori diversi che includono Bach, John Coltrane e John Zorn. Tutta questa energia creativa dà vita al primo capitolo di una trilogia intitolata “New History Warfare”, nel frattempo il nome del musicista è sempre più familiare al pubblico rock, non solo per la collaborazione con Tom Waits, ma anche per le numerose incursioni nei dischi di Arcade Fire, Tv on the Radio, Antibalas, Anthony Braxton, Burning Spear, Medeski, Martin and Wood.
Le registrazioni di New History Warfare Vol 1 sono frutto di studi e sperimentazioni: nel tentativo di cogliere tutte le tonalità del suono e dello strumento, Colin utilizza una quantità di microfoni in parallelo, piuttosto che ricorrere alla sovraincisione e alle tecniche avanzate degli studi di registrazione.
Le intuizioni di Albert Ayler, Evan Parker, David Mott e Glenn Branca fanno capolino tra sonorità aspre (“And It Throught To Escape”) e complesse strutture liriche, (“Time Is Advancing With Fitful Irregularity”).
Impetuoso e minimalista, l’album si muove in quel limbo tra avanguardia e ricerca, che di solito dà origine a opere leggermente ostiche e autocelebrative, prive di connessione emotiva; New History Warfare Vol 1 è, al contrario, un album che stimola e stupisce per le originali e inedite soluzioni creative.
La tecnica di Colin sfida le regole con un campionario timbrico rivoluzionario: in “Groundswell” i suoni non sembrano provenire dal sax ma da un basso immaginario e un flauto, in “Nobu Take” lo strumento assume tonalità simili a quella di un organo Bontempi, fino alla splendida creazione ritmica di “Tiger Tiger Crane”: brillante e incomparabile esempio della tecnica del beatboxing.
La lunga carriera di infiltrato nei percorsi sonori di altri artisti si arricchisce di nuovi elementi (Feist, Bon Iver, Laurie Anderson, Lou Reed, David Byrne, Jolie Holland, Sinéad O’Connor, Lcd Soundsystem, The National, Angelique Kidjo etc.), ma è soprattutto dall’attività live che il musicista estrapola alcune intuizioni tecniche utili alla sua costante ricerca sonora.
Registrato dal vivo in studio e senza sovrapposizioni, New History Warfare Vol. 2: Judges è un risultato di tecnica e bravura, nel quale alberga un pathos sanguinante e viscerale che Stetson incastra nel suo sassofono basso (in sib), strumento scippato al Dixieland degli anni 30 e relegato a un'inedita argomentazione solista.
Un microfono esterno e uno interno, in sincrono con altri posti vicino alla gola e ai tasti (una ventina), mettono a nudo tutta la struttura semantica della musica di Stetson, creando un flusso lirico multidimensionale e stratificato che funziona sia a livello narrativo che subliminale, inducendo una catarsi emotiva non più solo cerebrale ma anche fisica.
La dimensione dello strumento è leggermente più ampia del normale, permettendo alle estensioni di un'ottava sotto il tenore di ottenere sonorità estranianti. Il respiro costituisce l'elemento umano che Colin inserisce nel flusso sonoro che il minimalismo, a volte brutale, trasforma in sublime poesia.
Si agitano luminosi spettri avantgarde in "The Stars In His Head (Dark Lights Remix)", nella quale la tecnica di respiro circolare crea un agghiacciante incontro tra la sonorità estesa del sassofono e i suoni di gola di Stetson, mentre un brivido elettronico sembra attraversare il suono, rivelando l'unica fonte di tale incanto, il soffio vitale col quale il musicista fa vibrare lo strumento.
Ancora più sorprendente l'incedere ritmico di "Judges", nella quale la linea bassa e la pulsione ritmica si fondono a un grido sofferto che sgorga dalla voce, la quale simultaneamente sostiene il brano con sonorità cavernose, estratte dal riverbero del sassofono, mentre la manipolazione delle chiavi dello strumento, amplificate da microfoni a stretto contatto, produce uno strano effetto percussivo che rende ancor più fisico il miracolo creativo di Colin.
L'abilità del produttore pakistano Shahzad Ismaily e l'apporto tecnico del sempre geniale Ben Frost sono fondamentali per la riuscita del progetto: l'asse sonoro di New History Warfare Vol. 2: Judges resta comunque il minimalismo, che fa scivolare il sassofono dal suo ruolo di strumento jazz verso un linguaggio nuovo, che sposa Glenn Branca e Arthur Russell, Arvo Pärt e Anthony Braxton.
Le quattordici tracce non esplorano solo infinite soluzioni tecniche, ma allineano un fronte emotivo che provoca ammirazione e stupore, rivitalizzando il linguaggio, riportando la musica al centro dello specchio culturale dei nostri giorni, come dimostra la rilettura di "Lord I Just Can't Keep From Crying Sometimes" di Blind Willie Johnson, scarnificazione di un blues eterno che osa violentare i confini del suono, mentre la preziosa presenza di Shara Worden (My Brightest Diamond) sfibra l'antico e proietta il brano verso il futuro.
Non si tratta dell'unica voce presente tra le alchimie sonore di Stetson, una Laurie Anderson in splendida forma dona una desueta magia a "A Dream Of Water", un avvolgente racconto di genocidi e brutali sofferenze, che la voce dell'artista americana tratteggia con toni ipnotici e avvolgenti. La sua presenza non è affatto aliena alla logica progettuale: basti ascoltare il breve coro di "All The Colors Bleached To White (Ilaij II)", che introduce un altro splendido incastro ritmico "Red Horse (Judges II)": una samba dai toni apocalittici e dalle timbriche metalliche e ossessive, più forte di qualsiasi gruppo elettronico-noise (i Nine Inch Nails non avrebbero saputo far meglio).
Quelle delle voci non sono semplici incursioni ma vere e proprie estensioni della ricerca musicale di Stetson; la loro presenza non aggiunge emotività all'apparente freddezza dell'album, ma stempera quei pochi momenti d'incertezza che sembra riempire alcuni vuoti. Ad esempio, "Fear Of The Unknown And The Blazing Sun" non è concepibile senza le voci all'unisono di Shara Worden e Laurie Anderson, così come "All The Days I've Missed You (Ilaij I)" si anima di gloria e seduzione con il french horn (suonato sempre da Stetson).
Anthony Braxton deve aver lasciato in questo suo protetto, non solo la passione per la musica ma anche qualcosa dei suoi studi filosofici, un'attitudine che Stetson traduce in innovazione sonora incrociando i Flying Lotus e i Godspeed You! Black Emperor nella splendida "Home" e rinnovando i fasti dell'avanguardia jazz nella furiosa poetica free di "The Righteous Wrath Of An Honorable Man".
La pubblicazione dell’Ep Those Who Didn’t Run consolida gli elementi minimalistici della musica di Stetson, sottolineando ancora di più l’intensità armonica della scrittura, mentre il carattere mistico e spirituale più tipico del jazz è sempre più volatile. Le due lunghe tracce rafforzano il potere simbolico dello strumento e della voce, Colin è ora un tutt’uno con il suo sassofono, la genesi fisica e quella armonica procedono in sincrono forzando il limite. La forza quasi animalesca del fiato incalza e scuote le note della title track, condensando in dieci minuti tutta la filosofia artistica del musicista di Ann Arbor: gemiti, urla si trasformano in riverberi a volte granulosi, a volte cristallini con risultati inquietanti e seducenti. In “The End Of Your Suffering” vero protagonista è il fiato, l’energia si trasforma in un suono ciclico, ipnotico, minimale, vertiginoso, eppur liricamente denso e massiccio.
Il processo di affinamento e messa a fuoco dello stile prosegue con un’inattesa e non programmata collaborazione con un altro apocrifo del jazz, ovvero Mats Gustafson, musicista che Colin incontra al Vancouver Jazz Festival del 2011.
Raro esempio di duetto tra sassofonisti, Stones documenta quattro performance live ricche di improvvisazione e alienanti arpeggi ai limiti del caos. Il progetto di Stetson e Gustafson evita le derive cacofoniche del free-jazz, sovraccaricando il flusso dei due strumenti più che ponendoli in costante duello, il suono è compatto eppur scindibile, possente eppur ricco di sfumature e toni bassi.
Album non facile con cui relazionarsi, Stones è un documento non privo di fascino anche per il neofita, ammaliato dalla fluidità armonica e ritmica delle sempre raffinate composizioni (“Stones That Only Have”).
La critica incensa il disco e plaude all’originalità del sassofonista, abile nel sintetizzare, con un approccio eclettico e personale, un ricco e variopinto bagaglio stilistico. Ogni sua creazione è un prezioso insieme di elementi tecnici, estetici e creativi di rara intensità.
Il musicista statunitense, in verità, insegue una bellezza pura, che trascende i linguaggi convenzionali e punta direttamente alle viscere, coinvolgendo emozioni inesplorate e ancestrali che sono rimaste sopite da una coltre di musica coerente e superflua, sfidando altresì il costante utilizzo di
loop e
sampler di molti virtuosi della musica contemporanea.
Soffice e austero,
New History Wayfare Vol 3 : Too See More Light è l’album più complesso della trilogia: il flusso continuo di aria e voce è ancor più austero (“Too See The Light”), appena turbato dalla voce di Justin Vernon (
Bon Iver). Meno autarchico del primo capitolo e più eclettico del secondo, il nuovo passo discografico del sassofonista osa varcare anche i confini dell’hardcore in “Brute”, estraendo suoni rabbiosi finora inaccessibili per un sax basso ed esplorando con una smisurata forza fisica tonalità cavernose e ossessive (“High Above A Grey Green Sea”, “Hunted”).
Questo nuovo lavoro si concede però molte variabili: l’inarrestabile flusso di arpeggi in “Among The Sef (Righteous II)” e il gospel di “What Are They Doing In Heaven Today?” (cover di un brano di Washington Phillips) ampliano la contaminazione armonica con risultati eccelsi.
Il coinvolgimento di Bon Iver nel progetto può comunque dirsi completo: il cantante sfrutta toni e timbri vocali diversi in ognuno dei quattro brani in cui è presente, e lo stridio
noise che in “Who The Waves Are Roaring For (Hunted II)” lotta con la sua voce suadente è estasi pura. La lunga, succitata “To See More Light” è comunque il vero fulcro creativo dell’album: strati sonori che si sovrappongono ora con dolcezza, ora con irruenza e disperazione, mentre il polistrumentista conserva un unico giro armonico di base che induce all’ipnosi e alla
trance; accelerazioni, urla, vorticosi giri armonici, respiri e decelerazioni si alternano fino a trascinare la voce filtrata dal sax verso timbri metallici e noise che candidano Stetson come il
Jimi Hendrix del suo strumento.
In una delle tante interviste che fanno seguito alla pubblicazione dell’album, il musicista americano mette a tacere tutte le perplessità critiche, esternando le sue reali intenzioni e ambizioni creative: "Non penso ai miei pezzi come sperimentazioni sonore o astrazioni timbriche. Per me sono molto chiaramente canzoni. Non sono necessariamente basate sui canti popolari americani, o sulla musica gospel prima della guerra, non ascolto una quantità enorme di quel repertorio, la mia dieta è costituita da un sacco di musica altamente melodica, da molti compositori classici e tanta musica metal".
Di li a poco il regista Alexandre Moors e lo sceneggiatore Ronnie Porto contattano Stetson per il loro film
Blue Caprice, una storia che i due autori confessano di aver scritto e sceneggiato tenendo in costante sottofondo l’album
New History Warfare Vol. 2: Judges, sarà la prima di una lunga collaborazione del musicista con il cinema. Per rendere al meglio il complesso rapporto tra i due protagonisti e l’esplosivo mix di violenza e tragedia di
Blue Caprice, Colin Stetson coinvolge nel progetto
Sarah Neufeld.
L’equilibrio tra composizioni più astratte e la potenza epica di alcune tracce (“Killing Spree” su tutte) crea una magica sinergia tra i due musicisti, che decidono di concretizzare questo scambio creativo con un album vero e proprio.
Strettamente registrato live in studio,
Never Were The Way She Was è la celebrazione della semplicità che diviene complessa: la tensione tra il sax e il violino genera musica dalle atmosfere rilassanti e sottilmente nervose. Colin Stetson e Sarah Neufeld negli otto brani dell’album sfiorano i limiti dell’eclettismo, rimettendo in gioco il piacevole contrasto già sperimentato nella colonna sonora del film
Blue Caprice, spingendolo verso confini più oscuri e tenebrosi, con toni burrascosi e timbri metallici che evocano l’elettronica e i
field recording più estremi.
I due musicisti non sono interessati a sfruttare la dimensione più fruibile della loro musica, bensì a scoprire i confini di una ricerca che a tratti sfiora l’impossibile, come quando in “In The Vespers”, giocando con il minimalismo alla
Steve Reich, spostano l’asse del caos sonoro dalla realtà urbana a quella apparentemente rilassata dei boschi e delle foreste.
Ancor più temeraria la fusione dei due strumenti nella
title track: violino e sax si abbracciano e si avviluppano fino a diventare un tutt’uno, tra armonie malinconiche e struggenti che alternano calore e gelo con egual potenza. E' la stessa immagine sonora bifronte che anima il dialogo di “Won’t Be A Thing To Become”, con Stetson che cambia timbri e modulazioni in un
continuum circolare che Sarah Neufeld impreziosisce con melodie che nascono da un registro sonoro leggermente sottotono e squarciano l’apparente impenetrabilità della musica con un candore quasi
weird-folk.
Stetson è perfino costretto a eseguire i toni più bassi del suo strumento per poter dar spazio alla natura primordiale di “With The Dark Hug Of Time”, un brano apocalittico e pre-tribale che rappresenta un involontario nadir creativo.
Diventa difficile dopo alcuni ascolti non notare la varietà della musica proposta dai due musicisti in
Never Were The Way She Was: la grazia sognante e fantasiosa di “The Sun Roars Into View”, i
landscape quasi desertici evocati da “And Still The Move” e il suono cavernoso quasi doom(-metal ?) di “With The Dark Hug Of Time” hanno ben poco in comune tra loro, anche il confronto con i brani già citati diviene più arduo, mentre l’ennesimo ascolto svela nuove varianti creative.
Resta infine una piacevole sensazione di stupore per l’abilità dei due musicisti di estrarre da soli due strumenti una musica così ardimentosa e affascinante. Colin e Sarah, con un dialogo lirico ricco di poesia e intensità, mettono insieme eleganza e intelligenza senza mai suonare autoindulgenti; la musica sposa la forza visionaria di
Arvo Part, con una densità e un’attenzione alle sfumature che compensano la minor forza innovativa (forse perché nel frattempo il tutto suona più familiare).
Nel 2016 Colin Stetson realizza altre due colonne sonore (
Lavender e
Outlaws And Angels), nello stesso anno fonda una sua etichetta la 52Hz, che inaugura con la pubblicazione di
Sorrow. A Reimagining Of Gorecki's 3rd Symphony.
Conosciuta come “Symphony Of Sorrowful Songs”, la terza sinfonia di Henryk Górecki è l'unica incisione di musica classica contemporanea salita sul podio delle classifiche di settore (nell’esecuzione della London Sinfonietta diretta da David Zinman, 1992). Scomparso nel 2010, il compositore polacco ha lasciato un’eredità lirica importante: i tre movimenti della sinfonia “Dei Canti Lamentosi” hanno ispirato una generazione di musicisti non solo
classical ma anche
avantgarde e rock come i
Godspeed You! Black Emperor e i
Faust.
La sinfonia fu composta partendo da un canto popolare polacco, un’esternazione altamente poetica del dolore di una madre che ha perduto il figlio in guerra; una figura retorica che l’autore mette in connessione con la Vergine Maria e con una scritta trovata in una prigione della Gestapo, alla quale una giovane ragazza, prima di essere giustiziata, affidava la sua preghiera affinché la madre non cadesse vittima della disperazione. La sinfonia è strutturata su semplici armonie medievali e scale modali prive di dissonanze e virtuosismi, il cui crescendo è nel tempo diventato l’archetipo perfetto della rappresentazione sonora del dolore e della sofferenza. Tocca ora a Stetson rinverdirne i fasti, raccogliendo intorno a sé undici musicisti di elevato profilo artistico, ovvero Dan Bennett, Greg Fox, Grey Mcmurray, Gyða Valtýsdóttir, Justin Walter, Matt Bauder, Megan Stetson, Rebecca Foon, Sarah Neufeld, Ryan Ferreira e Shahzad Ismaily.
Stetson fa suo il linguaggio di Henryk Górecki rispettando l’opera originale, non alterando il senso della sua genesi, giocando più sulla sostituzione timbrica degli strumenti (alla maniera di
Adrian Utley, Art Tatum, William Orbit, o Isao Tomita). Così chitarra elettrica, batteria, basso, sax, synth analogici prendono il posto di flauti, clarinetti, fagotti, sezione fiati e tromboni, mentre alle sezioni d’archi di violino, viola e violoncello si sostituisce un trittico di raffinate virtuose dello strumento ad arco (Neufeld,
Foon, Valtýsdóttir).
Stetson non reinventa, perché non rimuove, ma aggiunge sonorità, alle quali spetta il compito di introdurre piccole distorsioni sonore, aliene alle versioni finora conosciute. Il timbro è a volte quasi metallico, greve, e nonostante ciò rinnova il fascino liturgico e trascendentale dell’opera.
Le novità sono più evidenti nel primo movimento, il sax di Colin introduce il tutto con delle note basse, che vengono man mano inglobate nel ciclico fluire di archi e fiati, le armonie sono leggermente turbate da chitarre elettriche ed elettronica, le quali iniettano un curioso timbro
metal doom, che si affranca solo quando arriva la voce di Megan Stetson (la vera sorpresa di Sorrow), dando forma a una rilettura che prima svuota la maestosità della sinfonia, per poi rigenerarla con nuove sembianze sonore, che in parte sorridono al suono post-apocalittico dei Godspeed You! Black Emperor.
Il secondo movimento è il più noto, nonché il più saccheggiato dalla cinematografia mondiale (non ultimo, “
La Grande Bellezza”). Qui è la batteria l’elemento più rilevante del rinnovo tonale, un inatteso
groove si insinua dietro la voce della Stetson, alterando, con briciole d‘elettronica e
noise a base di sax e chitarre, l’enorme impatto lirico della composizione, fino al colpo di tamburo che pone fine al pathos, annunciando altresì le tribolazioni post-rock del terzo movimento.
Ed è qui, in "III", che Stetson imperversa con le sue sonorità aliene e oscure, il sax diventa la voce della sofferenza contemporanea, con un taglio ancora più secco, netto, imprevisto, crudele, che non solo ribadisce il valore universale dell’opera di Gorecki, ma apre le porte a una nuova poetica del martirio, ancor più viscerale e autentica, nonché priva di connotazioni politiche temporali. Ed è proprio in questa scelta ideologica la vera chiave di volta della riuscita di
Sorrow.
Annunciato dallo stesso Stetson come l’album della contaminazione elettronica (
Autechre e
Aphex Twin in primis),
All This I Do For Glory è il disco più difficile della ormai lunga carriera del musicista americano, non solo perché è il primo album di materiale inedito per la nuova etichetta, ma anche perché nel frattempo tutti quegli elementi che hanno contraddistinto la sua produzione discografica sono diventati familiari.
La narrazione e la descrizione stilistica è talmente prevedibile che diventa possibile stilare una recensione di qualsiasi suo album senza neanche ascoltarne una traccia. Il suono circolare, il virtuosismo tecnico, la complessità dei suoni catturati da registrazioni live senza
overdub, la forza polmonare, il fluente minimalismo e la potenza fisica sono elementi talmente endemici da garantire a qualsiasi osservatore di descriverne le lodi semplicemente mettendo in sequenza le succitate caratteristiche.
Apparentemente privo di innovazioni,
All This I Do For Glory è il progetto più aggressivo della sua produzione. La fisicità diventa sì l’elemento più percepibile della sua musica ma anche quello più vulnerabile, lo sforzo polmonare non è scenografico, anzi, è più simile a un rantolo, quello che predomina stavolta è l’emozione, l’energia spirituale.
La scrittura, volutamente meno ricca, non manca d’inventiva ed estro, le palesi intenzioni dell'autore sono quelle di radicalizzare il suo stile, prosciugando tutto quell’eclettismo lirico che lo aveva reso comunque gradevole anche ai non cultori del jazz e dell’avanguardia. Anche il rumore di fondo assume un ruolo ancor più dinamico.
Per la prima volta tutta la scenografia e la struttura dell’album sono affidate alla figura del musicista e del suo strumento, nessuna collaborazione, niente voci a sostegno, nessuna aggiunta. Stetson viaggia abilmente su quella linea di confine che separa l’acustica dall’elettronica, la perfezione della tecnica si scontra con il ronzio dell’elettronica, che ne sporca i tratti più meditativi e rassicuranti, quasi invitando l’ascoltatore a una nuova forma di musica tribale, l’Idm diventa materia sonora pulsante, facendo grondare di sangue e sudore il timbro metallico di “Between Water And Wind”.
Se l’ipnotica sequenza di accordi di “Like Wolves On The Fold” indugia sui cliché più tipici dell’autore, la furiosa “In The Clinches” destabilizza l’apparente prevedibilità con una copiosa moltitudine di accordi e un grido frenetico della voce filtrata dal sax. Appare così evidente che alla fisicità più imponente di
All This I Do For Glory corrisponde una maggiore fragilità, elemento primario di quel potenziale depauperamento innovativo ventilato da qualche autorevole critico.
Stetson ha invece reso più umana la sua musica, legandola a linguaggi contemporanei dall’enorme impatto fisico: la
title track, con il suo incedere quasi funky, è un potenziale brano da
dancefloor futurista, asettico e ripetitivo al punto da suonare vacuo e nichilista, esibendo alfine la sua vera natura blues. Il vortice lirico più ricco di armonia di “Spindrift” quasi spezza la costante inquietudine di fondo, tutto quello che altrove appare non definito trova finalmente un senso compiuto. Il ciclo ritmico e il minimalismo armonico si incrociano con esuberante bellezza, la
trance lirica non opprime il suono, anzi, lo libera verso la sublimazione emotiva, ma è solo un'illusione, quello che appare come un luogo di pace e di ristoro è invece un luogo emotivamente deserto e desolato.
Con questo disco il musicista sembra voler infine mettere in discussione le barriere temporali: lo spartiacque creativo tra l’era pre-industriale e quella post-industriale della musica moderna è in parte annullato, l’unica vera soluzione atta a sconfiggere la retorica e l’aridità creativa è quella di denudare e prosciugare fisicamente il suono. Ed è questa la grande rivoluzione che il musicista prova a certificare con i dodici minuti finali di “The Lure Of The Mine”, dove il minimalismo di Terry Riley e
Philip Glass assume i contorni di un’arma tagliente pronta a sconfiggere il futuro dell’avanguardia. Cascate di note e di ritmi si avviluppano come carne intorno all’osso, trascinando l’ascoltatore in un vortice quasi psichedelico, ogni battito diventa un colpo, ogni suono del sax scuote la mente.
La musica sempre più complessa e frenetica di Colin Stetson non offre vie di fuga, anticipando forse nuove rivoluzioni semantiche, come quelle del progetto a quattro mani
Ex Eye, un combo musicale che lo vede protagonista, insieme a Greg Fox (
Liturgy), Shahzad Ismaily (Secret Chiefs 3, Ceramic Dog) e Toby Summerfield, di un’atipica mistura tra sperimentazione e hard-rock.
Pubblicato dall'austera etichetta Relapse, il progetto
Ex Eye è l'ennesima prova del fuoco per Stetson.
Ancora una volta quello che prevale è un piacevole e disturbante senso di disorientamento lessicale, che coinvolge elementi musicali già noti e ampliamente esplorati nel passato, al solo fine di creare un flusso costante e vitale che, lungi dall'essere innovativo e rivoluzionario, metta in campo l'unica forma d'arte ancora possibile, ovvero la passione.
Ritmiche in tempi dispari, scampoli di shoegaze applicati al black-metal, post-rock, briciole di minimalismo ed effusioni free affini a certe forme di jazz si mescolano senza un'apparente geometria matematica e fisica, come se lo scopo finale fosse alla fine quello di coinvolgere l'ascoltatore in un
trip sonoro non del tutto identificabile. Stetson in parte rinuncia al ruolo di protagonista, lasciando alle sempre coinvolgenti creazioni ritmiche di Fox il fulcro creativo delle cinque tracce, pur se
Ex Eye resta in definitiva un progetto collettivo, frutto di un amalgama stilistico robusto e intenso.
L'affascinante ibridazione del sax con l'intricato
groove post-metal creato dalla band tiene costantemente alto il pathos dell'album, sopperendo magistralmente ad alcune lacune in fase di scrittura. Tutte le tracce mostrano delle peculiarità interessanti, dalla stratificazione di synth e sax di "Xenolith; The Anvil" alle frenetiche e infine sognanti progressioni ipnotiche di batteria, chitarre e tromboni di "Opposition/Perihelion; The Coil", fino alle sorprendenti contaminazioni prog alla
Mars Volta di "Tten Crowns; The Corruptor", traccia inclusa solo nel formato digitale dell'album.
Qualche perplessità scaturisce da un ascolto più attento o casuale: preso a piccole porzioni, l'album evidenzia un mood ricco di
deja-vu stilistici che risultano accattivanti più per la presenza di Stetson che per l'effettiva portata creativa del progetto.
Peccati veniali, ovviamente, ma non si può tacere che il momento più creativo dell'album sia da ricercarsi nell'apoteosi di "Form Constant; The Grid", dove il gruppo si lancia con più ardore e temerarietà in una fusione strumentale al limite del caos. Appare evidente che il progetto Ex Eye è una potenziale macchina da guerra che ancora deve trovare il giusto obiettivo sul quale scatenare l'apocalisse.
Nel frattempo un altro progetto in essere da ben tre anni giunge in porto, ovvero la colonna sonora per il film horror “Hereditary” esordio del regista Ari Aster che come Alexandre Moors, autore del già citato
Caprice, dichiara di essere stato influenzato dalla musica di Colin Stetson durante l’ideazione e realizzazione del progetto.
Colin Stetson, come altri illustri predecessori, coglie l’occasione per approfondire il lato oscuro della propria ricerca sonora, senza mai alzare i toni, anzi rinunciando a urli e frastuoni che producono sì uno shock nell’ascoltatore o nello spettatore, ma non lasciano mai quel senso di vuoto e di disorientamento che è figlio del terrore più puro.
Stetson e Aster prediligono una lenta agonia, la musica si nutre degli stessi spazi vuoti che nel mondo delle immagini si decrittano in un’estenuante attesa dell’ ineluttabile.
Più che tagli sono graffi quelli che Stetson provoca sul tessuto musicale, lasciando l’ascoltatore in uno stato catartico, sospeso, in perenne attesa di una fase risolutiva che sveli ora la trama del film, ora il
leitmotiv di una colonna sonora che sembra evitare quel pathos gothic-horror tipico di operazioni analoghe.
Le tracce sono spesso frastagliate volutamente incomplete, tronche, quasi a voler lasciare un ulteriore spazio all’immaginazione, solo alcune fasi della colonna sonora provano a condensare in modo più canonico l’enorme flusso emotivo e armonico.
Sempre abile nel modificare la genesi dei suoni, Colin Stetson supplisce alla deliberata estromissione degli archi raddoppiando il suono del clarinetto con la voce, ottenendo così sonorità auliche mai tronfie.
Allo stesso modo l’uso in sincrono di un clarinetto contrabbasso e un clarinetto basso, creano vibrazioni simili a quelle di un synth. Anche quelle che sembrano percussioni sono frutto di ingegnose tecniche di manipolazione dei suoni: in questo caso attraverso i tasti degli strumenti a fiato registrati con microfoni posizionati nelle immediate vicinanze. Superfluo a questo punto segnalare un brano piuttosto che un altro, i ventitre capitoli di
Hereditary sono un flusso unico, la colonna sonora scorre senza cedimenti, riuscendo nel difficile compito di rendersi autonoma nei confronti delle interessanti e sconvolgenti immagini, un’altra conferma del talento di Colin Stetson.
Dopo sei anni di colonne sonore e stravaganze,
When We Were That What Wept For The Sea si candida come seguito ideale delle migliori pagine dell’artista americano, sedici composizioni per settanta minuti di musica, un sentito omaggio alla figura del padre di Stetson, da poco scomparso. Progetto decisamente poco incline alla sperimentazione, ma non privo di alcune sorprese decisamente interessanti, l'album mette a frutto la profonda relazione dell'autore con il mondo delle immagini.
When We Were That What Wept For The Sea è costruito su una serie di intuizioni armonicamente potenti e suggestive, alcune poste a far da filo conduttore nella lunga trama, i cinque capitoli di “The Lighthouse”, altre tese a sottolineare l’urgenza emotiva che ha dato vita all’opera, nel mentre alcuni cambi di rotta mettono per la prima volta in discussione la sistematicità dell’operato di Colin Stetson. Da tempo le ambizioni e le aspirazioni del musicista sono rivolte verso un linguaggio più omnicomprensivo, lo stesso minimalismo che ha retto le glorie del trittico di
New History Warfare è ormai parte di un progetto più ampio.
Colin Stetson si cimenta con le infinite variazioni su tema tipiche della musica classica, nello stesso tempo riconverte le influenze jazz ed etniche in un unico modello creativo, chiamando in soccorso anche alcuni protagonisti del folk-ambient- sperimentale contemporaneo. Sembra quasi che il musicista abbia imparato a sognare, la dimensione è più ultraterrena, magica, sospesa.
When We Were That What Wept For The Sea aggiunge molte perle al canzoniere di Stetson: la potente fisicità di “Long Before The Sky Would Open”, il taglio cinematografico dell’incantevole “Passage” e l’inquietante e struggente lirismo di “The Surface And The Light”. Per il resto Colin Stetson dispensa come sempre manufatti creati con una perizia tecnica inimitabile (la
title track), melodie circolari dall’estatica bellezza (“Wrathful Seas Quiesce”), impetuose pagine dove i tasti del sax dettano il ritmo (“Fireflies”), in un alternarsi di pause (“Safe With Me”) ed esplosioni (“Behind The Sky”) che tengono alta la tensione e l’attenzione nonostante la non agevole durata dell’album.
Alternando il ruolo di autore per colonne sonore, Stetson firma un nuovo contratto con l'Invada per l'album più oscuro e intenso della sua carriera.
Registrato in una vecchia struttura industriale adibita a museo d’arte contemporanea, il Darling Foundry di Montreal,
The Love It Took To Leave You è un album caratterizzato da una ferocia
noir,che sbilancia i toni gutturali di Colin Stetson verso quei confini già violati del black-metal, lasciando grondare fiumi di tensione ritmica ed una furia espressiva che lascia senza fiato ed eleva il brano “The Six” a ruolo di catalizzatore delle occulte energie che agitano il nuovo album del canadese. Un'inedita dimensione sonora agita questi abbondanti settantatre minuti di sferzanti sceneggiature immaginarie, nel racconto-film-sonoro di Colin Steson non c’è spazio per figuranti e stuntman, unici protagonisti sono l’artista, il suo strumento, ed il luogo. L’ampio spazio fatto di mattoni, cemento e acciaio esalta la tecnica di respirazione circolare del sassofonista, assumendo il ruolo dielemento di rilievo dell’estremizzazione minimalista di jazz, drone-music, e musica dark. Le tonalità industrial e tribali di “Hollowing”, i tre minuti e trentanove secondi di puro terrore in “To Think We Knew From Fear, l'inquietante “So Say The Soaring Bullbats”, la più tipica “Malediction”, svelano un lato decisamente più oscuro del mondo di Colin Stetson, anticipando i quasi ventidue minuti della traccia più greve dell’album, “Strike Your Forge And Grin”, un tripudio di drone-music e di note di sax risucchiate da un buco nero, che come un pernicioso sibilo cosmico si impossessa della mente fino a renderla esangue, un brano solenne dove il soffio vitale che Stetson dona allo strumento risuona come un ultimo disperato grido d’aiuto.
Ammaliati dalla struggente e poetica bellezza della title track, una delle pagine più originali e toccanti, affascinanti dai momenti di leggero relax (“The Augur”) e di eterea bellezza (“Ember”), non ci resta che archiviare
The Love It Took To Leave You come una delle opere più riuscite ed innovative di Colin Stetson.
La musica di Stetson resta un concentrato unico di tecnica e poetica sonora, la vera novità di “When We Were That What Wept For The Sea” è che l’artista non ha più bisogno di alzare la voce per dar brio alla propria musica, basta il respiro.