Godspeed You! Black Emperor

Godspeed You! Black Emperor

L'anarchia al potere

Lunghe suite, motivi epici che sfociano in digressioni rabbiose. Tra post-rock e progressive stile King Crimson. E' il repertorio dei Godspeed You! Black Emperor, nove musicisti da Montreal, Canada

di Marco Delsoldato + AA.VV.

Non è semplice trovare una definizione per i Godspeed You Black Emperor!, anche se è palese la loro predisposizione ad andare contro ogni logica presente oggi nel panorama musicale. Le cose certe di questa band, composta da ben nove musicisti, sono l'origine canadese, per la precisione di Montreal, e la scelta strumentale, ma anche sotto questo punto di vista la particolarità esiste: non si canta nei loro dischi, ma le voci ci sono, sfuggevoli, quasi fossero immesse casualmente, spesso recitanti con la caratteristica della freddezza e dell'oscurità. Brani che superano frequentemente i quindici minuti, con momenti epici che sfociano in digressioni rabbiose che ricordano i Mogwai, ma anche in una "ruvidezza classica" cara ai Dirty Three. Per questi motivi i Godspeed You Black Emperor! sono spesso immessi nel calderone definito post-rock, ma forse sarebbe più adatto il termine progressive (un esempio potrebbero essere i King Crimson) a indicare la loro scelta sonora. Opinioni comunque, la realtà è che la band canadese di tutti i tentativi effettuati dalla critica nel tentativo di catalogarli in qualche genere si interessa ben poco: "Non ci sentiamo parte di nessuna comunità musicale, nemmeno di una strumentale - afferma il bassista, Mauro Pezzente -. Anzi riteniamo preoccupante che parecchi gruppi possano apparire simili a noi. E' sintomatica del fatto che non c'è un vero movimento di progressione, di cambiamento".

Formatasi nel 1994, la band debutta quello stesso anno con una cassetta a tiratura limitata All Lights Fucked On The Holy Amp Drooling, ma il primo vero album è datato 1997, con lo splendido F#A#Infinity, distribuito inizialmente su vinile dalla piccola etichetta canadese Constellation, per poi avere una diffusione più ampia grazie alla Kranky nel 1998. Si nota subito la particolarità del gruppo: i brani sono soltanto tre, tutti lunghissimi a partire dai quindici minuti di "The Dead Flag Blues", dove si possono notare similitudini con i Labradford di Mark Nelson. Ma è il secondo pezzo, l'affascinante "East Hastings", che regala diciassette minuti di emozioni, con un'apertura contraddistinta da rumori di traffico (sarà quello di Montreal?) e un successivo alternarsi di istanti lievi e altri in violento crescendo. Il brano che conclude il primo album è "Providence": mezz'ora di follia musicale, priva, almeno apparentemente, di senso logico. L'aspetto orchestrale (più di un critico ha addirittura citato influenze di Morricone) domina spesso, ma è geniale, anche se di non facile ascolto, l'alternarsi con rumori grezzi trattati anche elettronicamente.

Nel 1999 esce l'Ep "Slow Riot For New Zero Kanada", uscito sempre per la Kranky, con cui il gruppo conferma in pieno le aspettative creatasi con il primo album. Ventotto minuti è la durata complessiva dell'Ep, composto da soli due titoli: "Moya", brano che inizia lentamente, con archi che disegnano affreschi eterei per poi sfociare in un impetuoso crescendo, e "Blaise Baylei Finnegan", traccia di diciassette minuti che, dopo un apertura "parlata", esplode in un pazzesco delirio strumentale con chitarre, violini e archi. E sono le sonorità che generano il mezzo con cui i Godspeed You Black Emperor! tentano di comunicare con i loro ormai numerosi fan, come spiega Pezzente: "Penso che cerchiamo di trasmettere qualcosa di propulsivo al pubblico, anche se non sempre riusciamo a fare un ottimo lavoro in tal senso. Cerchiamo di essere concentrati sulla riflessione, sulle suggestioni che possono investire la gente quando ci sente suonare: il rischio di rimanere vaghi, indeterminati, è forte. E' molto positivo stimolare le persone a pensare, ad avere delle opinioni proprie".

Nel 2000 esce Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven!,un doppio cd composto da quattro tracce divise in sezioni (per scoprire come ogni brano sia diviso in varie parti occorre leggere un diagramma a blocchi incluso nell'album) che prosegue nella strada del rock orchestrale, anche se forse sarebbe più corretto usare la definizione musica cinematografica, considerato come in molti tratti di questo album sembra di ascoltare più una colonna sonora che un album rock. Ma l'utilizzo di archi e violini non fa passare in secondo piano le digressioni puramente rock, come nella sezione "Monehim"di"Sleep", che contribuiscono a rendere l'album intrigante e denso di fascino. Atmosfere tetre, graffiate da ritmi scuri e decisamente claustrofobici, caratterizzano questo lavoro decisamente malinconico, anche se forse meno gotico rispetto ai precedenti. Un lavoro "anarchico", lontano da qualsiasi forma canonica di sonorità, che conferma l'indiscusso valore della band, ma anche la difficoltà che questo tipo di musica possa arrivare a grandi platee. Ma questo non sembra sia un grande problema per i Godspeed You! Black Emperor, almeno secondo Pezzente: "Non ci interessa molto quanta gente è presente ai nostri concerti. Ultimamente, dato che siamo un po' più popolari e conosciuti, un problema è che chi viene a vederci è sempre meno interessato ai nostri concerti in sé. Ci seguono solo perché abbiamo avuto l'attenzione dei media, a causa del peso 'esteriore' che viene dato alla band, e io purtroppo non trovo più nessun tipo di contatto o connessione con un sacco di gente. Probabilmente smetteremmo di suonare qualora ci sentissimo del tutto sconnessi dal pubblico che ci guarda".

I Godspeed You! Black Emperor (non è un errore di scrittura, ora hanno spostato l'esclamativo sulla seconda parola) tornano nel 2002, con Yanqui U.X.O. titolo enigmatico che più o meno suona come "Bombe inesplose americane". Le atmosfere sono più cupe, ma le loro composizioni attraversano, al solito, un folk-blues molto dilatato, rock cosmico, Morricone e psichedelia. Di tutte le tracce la più autoreferenziale è la seconda "Rockets fall in Rocket Falls", che inizia con il solito giro di chitarra attorno al quale ruotano gli altri strumenti, fino a che la musica diventa più minacciosa con dei tamburi e dei fiati a realizzare un'atmosfera da pre-battaglia campale, fino alla prevedibile esplosione finale. Piacciono di più gli altri due brani, due suite, dove i nostri realizzano delle atmosfere spesso imperniate su un folk-blues apocalittico (non alla Death in june, ma nell'umore...) come nell'iniziale "09-15-00" (data di inizio della seconda Intifada), dove gli strumenti dipingono un quadro desolato e frammentato, e lo sviluppo del pezzo dona una forza maggiore all'aspetto evocativo della musica, e soprattutto nell'altra suite finale "Motherfucker = Redimeer", che vede la musica come andare in frantumi, evocando scenari post-bellici. E' il momento più suggestivo dell'album, prima della potente ultima parte, forse il pezzo più "rock" mai realizzato dal collettivo canadese, trascinante e catartico.

Poco dopo quel disco, giunge l’annuncio di una pausa indefinita nell’attività del collettivo; pausa che, pur tra numerosi progetti paralleli e collaborazioni da parte dei suoi musicisti, durerà quasi per un decennio.
Prima un ritorno dal vivo, per un tour mondiale tra fine 2010 e inizio 2011, poi finalmente un nuovo album in studio, che non senza una certa sorpresa vede la luce a fine 2012.
Le due lunghe tracce e i due più brevi interludi di 'Allelujah! Don't Bend! Ascend! non sono in realtà composizioni integralmente “nuove”, bensì rimaneggiamenti di materiale già eseguito dal vivo fin dal 2003. Non che ciò soltanto basti a liquidarlo come lavoro “datato”, tuttavia è piuttosto evidente come da allora la formula dei Godspeed You! Black Emperor non si sia sostanzialmente evoluta, se non nei soli termini di un impatto ancor più claustrofobico e granitico nelle ingenti parti chitarristiche, che rivelano con ancora maggiore chiarezza ascendenze progressive in forza delle quali la funzione d’impatto è affidata a progressioni incalzanti piuttosto che a torsioni di feedback.
Forse anche per la ridotta sezione d’archi, che risente della defezione della violoncellista Norsola Johnson, in 'Allelujah! Don't Bend! Ascend! prevale il carattere più nervoso delle composizioni che un tempo bilanciavano romanticismo e catarsi drammatica.
Al di là di qualsiasi considerazione sul suo senso complessivo, l’album fallisce nella missione di trascinamento emotivo tanto quanto riesce in quella di disegnare nuovi scenari d’inquietudine con un piglio ascetico ma meno coinvolgente rispetto al passato.

Passano solo tre anni prima che i Godspeed You! Black Emperor ritornino ad incidere un nuovo capitolo discografico: dopo tre doppi album 'Asunder, Sweet And Other Distress' si concentra in soli quaranta minuti e in un solo vinile, con quattro brani che sono un unico incessante flusso, che in parte rielaborano un brano già noto ai fan del gruppo nella stesura live intitolata "Behemoth". La vera novità e nella completa assenza di spoken-word e field-recording, che lasciano fluire gli elementi più melodici della loro musica.
Il vuoto decennale che i GY!BE avevano creato tra il loro capolavoro Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven!  e 'Allelujah! Don't Bend! Ascend!, sottolineava una staticità emotiva, che sembrava smarrire l’innovazione a vantaggio di una descrittività quasi progressive-rock che ora si arricchisce di un'altra nuance classic-rock, ovvero i Black Sabbath, che aleggiano nell’invasione di riff in “Peasantry Or ‘Light! Inside Of Light!’”: un post-rock in catarsi doom con rullanti di batteria e archi affilati come metallo che marciano verso leggere digressioni ed evoluzioni dall’insolito pathos armonico.

Le dissonanze sono più tenui che in passato e apparentemente tranquillizzanti, come in “Asunder, Sweet” che resta in bilico tra malinconia e depressione finché drone e corrosioni di violini non infondono un lieve disagio timbrico che confluisce nel lungo ed epico finale di “Piss Crowns Are Trebled”, il brano più assimilabile alla precedente produzione del gruppo.

Il tono narrativo di 'Asunder, Sweet And Other Distress' è più personale e meno collettivo, quasi a identificare una nuova coscienza politica e sociale del gruppo: l’analisi e il commento lasciano il posto alla contemplazione aulica e meditativa, che trova in “Lambs’ Breath” il nuovo punto di partenza per una sintesi sonora più solenne e meno artificiosa. Sono inoltre scomparse molte sfumature sotterranee e l’angoscia è stata sostituita dallo scetticismo. Tutto è più a fuoco nel disco e meno pretenzioso che in passato, ed è questa la migliore notizia per i fan della band canadese.

Luciferian Towers immagina un mondo dove i simboli del moderno capitalismo vengano distrutti. E' come se i canadesi trovassero un obiettivo simbolico su cui scagliarsi. Le grandi torri, i palazzi di vetro, acciaio e cemento, le dimore segrete dei capi che creano il “lavoro alienante”, esportatori di guerre per interesse, creatori di continui bisogni consumistici che come nuovi “vitelli d’oro” vengono venerati e da masse disposte a qualunque sacrificio pur di ottenere il tanto agognato benessere.
Abbattere le torri luciferine (“Undoing A Luciferian Towers”) diventa la strada verso una nuova catarsi, una liberazione dalle catene. Le lunghe note di trombe e cornamuse, i ritmi ripetitivi e l’imponenza cinematica, segnano il passo per quasi otto minuti di malinconia e desolazione; l’ottimismo del titolo sembra in effetti solo simbolico. Le torri di acciaio, vetro e cemento un giorno verranno distrutte dal fuoco e dalle fiamme, il vento fischierà attraverso le centinaia di finestre distrutte. L’inno finale degli ultimi minuti sembra quasi festeggiare questo evento tanto liberatorio quanto lontano nel tempo. Divisa in tre parti, “Bosses Hang” è un’imponente sinfonia post-rock che usa la ripetizione ossessiva per creare ipnosi, che cresce sempre di più per creare immedesimazione e catarsi. Tra muri di suono massimalisti ("Fam/Famine") e inni per il Non Stato ("Hantem For No State") si viaggia in un clima perennemente depresso, costellato di archi malinconici (“Pt. I”), chitarre desert-rock in stile Calexico (“Pt. II”) e sopratutto in un finale epico (“Pt. III”) che fa immaginare le colonne sonore di Ennio Morricone suonate con orchestra post-rock. Distorsioni, droni e rumorismi si legano a melodie solenni che fanno coesistere gioia e disperazione, apocalisse e rinascita.

Da sempre in prima linea contro il corporativismo, e l'identità finora definita come Stato, i Godspeed You! Black Emperor cesellano la prima opera compiuta, e forse definitiva, del post-pandemia, ammesso che si sia sulla strada giusta per fronteggiarla, un urlo potente contro l'inefficienza dei governi e quindi rivolto a tutti i poteri internazionali: G_d's Pee AT STATE'S END! (2021). A distanza di ben 27 anni dalla nascita della formazione, il nucleo originario, Efrim Menuck (chitarra), Mike Moya (chitarra) e Mauro Pezzente (basso), non sembra aver smarrito le motivazioni che hanno dato corso ai GY!BE, anche la progettazione del vinile ha una ragion d'essere, incorporando nel 10" i due brani più brevi e contenendo nel 12" principale le due composizioni più lunghe e concettualmente centrali.
Caps lock e titoli imperativi rimarcano il tono militante e inquieto della pagina più dolorosa della formazione canadese, che procede con passo sicuro tra residui post-rock, drone-music, minimalismo, chamber music e psichedelia, una miscela cerebrale e psicotica, ma meno ridondante e perfino malinconicamente sentimentale, la musica si dipana con regole sottese restando costantemente avviluppata da un apparente caos.
Ronzii, voci, segnali radio, schegge sonore aprono la prima delle due lunghe suite che sono l'ossatura di "G_d's Pee AT STATE'S END!", più di venti minuti che raccontano il declino della civiltà globale e interconnessa, un refrain che come un mantra evoca un ultimo grido di sofferenza prima dell'apocalisse. "A Military Alphabet (Five Eyes All Blind) (4521.0kHz 6730.0kHz 4109.09kHz)/ Job's Lament/ First Of The Last Glaciers/ Where We Break How We Shine (ROCKETS FOR MARY)", già nota nelle esibizioni live come "Glacier", rimette insieme tutte la potenza della stratificazione sonora della band, tra ipnotiche scale armoniche, riff spezzettati, progressioni sonore vulcaniche che si dipanano verso letti di feedback, dissonanze e ritmi palpitanti, mai così impetuosi e nitidi, che si trasformano in una moderna giga psichedelica alla Glenn Branca/Neu!, prima di cedere il passo a un'intensa e lancinante dolcezza, che si dissolve prima che alcuni colpi di pistola zittiscano anche il canto degli uccelli.
Anche per "'GOVERNMENT CAME' (9980.0kHz 3617.1kHz 4521.0 kHz)/ Cliffs Gaze/ cliffs' gaze at empty waters' rise/ ASHES TO SEA or NEARER TO THEE", dal vivo e nei bootleg nota come "Cliff", la band rasenta la soglia dei venti minuti, una delle pagine più elegiache e armonicamente potenti della loro carriera, tra sonorità post-rock che si liquefanno in riff incandescenti, che a loro volta si intrecciano in una partitura sonora tra le più cinematiche e maestose della formazione canadese, un getto di lava che poi ricade nel silenzio tra residui noise, suoni elettronici e stridii di violino dalle timbriche spettrali e ansiogene, le quali aprono spazi vuoti che chitarra e glockenspiel riempiono con poche cristalline note, pronte a riscaldare il fronte armonico prima che si arricchisca di nuovi incalzanti fraseggi melodici ed enfasi narrative.
Le due composizioni più brevi sostengono il tono descrittivo melodicamente intenso e malinconico del disco, il refrain a lenta combustione di "Fire At Static Valley" è anche uno dei più incisivi, un misto di noise e languore, odoroso di panico e disperazione, un'estemporanea post-sinfonica che toglie il fiato. Più pungente e solenne invece il flusso finale di "OUR SIDE HAS TO WIN (For D.H.)", tremolante minimalismo tipicamente post-rock, che oscilla su uno degli esemplari di drone music più avvincenti del gruppo, dove si confondono alba e tramonto, morte e resurrezione, potere e anarchia, anatema finale di una band che come poche ha catturato lo spirito del nostro tempo, un gruppo di autentici visionari dell'era del caos e futuri punti di riferimento per chi vorrà comprendere gli avvenimenti di questo nuovo millennio.

Come sempre, anche G_d's Pee AT STATE'S END! è un progetto che non può prescindere dalla parte filmica che accompagna le esibizioni live del gruppo canadese, il sempre geniale filmmaker Karl Lemieux non ha lesinato nel creare uno dei supporti visivi più potenti, cogliendo in pieno la distonia espressiva in bilico tra apocalisse e speranza.
È stata una scelta importante, quella di condividere, a pochi giorni dall'uscita del disco, l'intero supporto visivo del progetto, la proiezione nella sala vuota e lo scorrere delle immagini a corredo dei brani non solo aggiungono spessore alla drammatica liturgia sonora dei GY!BE, ma rendono ancora più vivida la ragion d'essere del progetto, l'aver tradotto in musica e immagini l'agghiacciante monotonia e ciclicità della morte è il rituale al quale tutti siamo invitati e condannati, in attesa che un colpo di tosse risvegli le nostre sopite coscienze, prima della fine del mondo, o meglio dello Stato.

Contributi di Paolo Sforza ("Yanqui U.X.O.") , Raffaello Russo ("'Allelujah! Don't Bend! Ascend!"), Gianfranco Marmoro (“'Asunder, Sweet And Other Distress'”, "G_d's Pee AT STATE'S END!"), Valerio D'Onofrio ("Luciferian Towers")