One could propose a new meaning for black metal along with a new array of techniques to activate that meaning. The meaning of Transcendental Black Metal is Affirmation, and its new technique is the Burst Beat
(incipit del “Transcendental Black Metal Manifesto”)
I wanted to make the most important thing possible - to invent a new philosophy that goes with a new music and a new way of making art and living life
(Haela Ravenna Hunt-Hendrix)
Introduzione
C'era una volta il reame degli Iperborei, popolo dei ghiacci dedito a pratiche lunari, atrofiche, depravate, infinite e pure. Il loro mito fondativo era la Morte del Morto, la loro religione il Nichilismo, il loro rito il Blast Beat. La loro terra era incolta perché il sole non sorgeva e non tramontava mai, il loro culto della Rabbia Transilvana li costringeva alla contemplazione del Vuoto Aptico sulla cima di una montagna, il loro destino era morire assiderati.
Dalle Americhe giunsero poi i Trascendentali, solari, ipertrofici, coraggiosi, finiti e penultimi. Devoti al Sacrificio, tradirono il Nichilismo per l'Affermazione e imposero una nuova tecnica, il Burst Beat. Scandite da accelerazioni e rotture, le loro giornate trascorrevano senza la pretesa di giungere da qualche parte. Scoprirono che la promessa del Vuoto Aptico era una bugia, che la sua assenza era la sua presenza, che la Rinichilizzazione avrebbe permesso loro di sopravvivere e prosperare. Su queste basi fondarono il loro umanesimo apocalittico e lo chiamarono Estetica.
Non è una leggenda nordica, ma un mito contemporaneo e tutto americano, di "un'America mai esistita e che mai esisterà". A narrarlo non è un tardo epigono di Ralph Waldo Emerson, ma una musicista black metal - transcendental black metal, per l'esattezza. Ben più che una semplice musicista, a dire il vero: un'autentica teorica, che sulla sua interpretazione dell'ostico sottogenere ha imbastito un Manifesto con tutti i crismi, da cui sono tratte le sibilline immagini poc'anzi riportate. Una teorica che non limita la sua speculazione alla musica, ma che è arrivata a costruire un fittissimo sistema filosofico e teologico: il suo nome è Haela Ravenna Hunt-Hendrix ed è una delle intellettuali più radicali della musica contemporanea. Musica che parte sì dal black metal, ma che le sue ambizioni e il suo talento hanno traghettato su una sponda ancora senza nome. Una Musica Totale nell'orizzonte di un'Arte Totale, intrecciata con i suoi scritti, le sue sculture e, perché no, i suoi video su YouTube, fino a stabilire una nuova frontiera di sperimentazione sul proprio corpo e sulla propria identità.
La sua vicenda artistica coincide con l'evoluzione del black metal tutto: da culto morboso per pochi misantropi, impermeabile ai contatti con l'esterno, a nuovo esperanto estremo, poroso a qualsiasi contaminazione. Di suo, Hunt-Hendrix ci ha infuso un'onnivora curiosità musicale, una spiritualità da grande mistica e una presenza scenica da icona sacra. Un itinerarium mentis in Deum che non ha eguali e che poteva fregiarsi di un solo nome possibile: Liturgy.
Capitolo 1: alba pagana
L'abbrivio biografico è una cartolina stereotipata di certa America benestante: newyorkese doc, figlia dei popolari scrittori Helen LaKelly Hunt e Harville Hendrix (ex-seminaristi, autori di vendutissimi libri di self-help e counseling matrimoniale: più americani di così...) nonché nipote del famigerato magnate del petrolio Haroldson Lafayette Hunt Jr., nasce in un corpo maschile sotto il nome Hunter Hunt-Hendrix. Cresce tra New Mexico, New Jersey, Brooklyn e studia filosofia alla Columbia University.
La prima esperienza discografica risale al 2005 con l'Ep The Bro Cycle, accreditato al gruppo screamo Birthday Boyz, in cui s'intravedono già copiose avvisaglie della classe futura: in poco più di un quarto d'ora, le tre tracce (prive di titolo) delineano una personalità affamata di complessità nel forzare i confini del genere attraverso intricate tessiture strumentali.
Il battesimo della sigla Liturgy avviene con Immortal Life, registrato nel 2006 ma pubblicato solo due anni dopo. Sul sentiero di Big Black e Godflesh, con spirito isolazionista da college project, l'autrice fa tutto da sola, affidandosi ai servigi di una drum machine. A farla da padrone è un industrial-noise con aloni estatici di marca shoegaze, che segnala la predilezione per le atmosfere soffocanti quanto il gusto per la ricerca sonora.
Bisognosa di espandere il proprio raggio d'azione, recluta Bernard Gunn alla chitarra, Tyler Dusenbury al basso e il virtuoso Greg Fox alla batteria, trasformando i Liturgy in una band vera e propria.
Renihilation (uscito nel 2009 per la 20 Buck Spin e ripubblicato dalla Thrill Jockey nel 2014), prodotto da Colin Marston (Behold... The Arctopus, Infidel?/ Castro!, Krallice), è il primo parto della formazione appena inaugurata. Con una copertina scippata ai Tangerine Dream di "Zeit", tra abrasivi tremolo picking e stacchi netti come chiodi su una croce, inizia a contornarsi il concetto hendrixiano di "burst beat", un'espansione del classico blast beat in cui il tempo accelera e decelera in un elastico gioco di contrazioni e rilassamenti, permettendo la coesistenza tra diversi stili ritmici.
I frequenti intermezzi senza titolo, vocali o strumentali che siano, denunciano una volontà ancorata al formato-album, proprio negli anni in cui la musica si avvia a un'inesorabile liquefazione. Le coordinate, in ogni caso, rimangono ancora quelle di un post-black metal tutto sommato regolamentare, per quanto illuminato da una non comune tensione spirituale (più pagana che cristiana, per il momento).
Capitolo 2: rifondare un'estetica
Teorica ancor prima che creativa, HH assesta un contributo ben più consistente all'evoluzione del genere con l’impressionante "Transcendental Black Metal Manifesto", presentato nell'ambito dell'"Hideous Gnosis Black Metal Symposium" tenutosi a Brooklyn nel dicembre 2009. La tesi dell'autrice, argomentata con uno stile tra l'immaginifico e l'assertivo che è già un marchio di fabbrica, invita a tagliare il cordone ombelicale con la tradizione del black metal scandinavo (rinominato "iperboreo" e considerato l'apogeo del metal estremo) per stabilire un filone "autenticamente americano" ("the America celebrated by Aaron Copeland's Appalachian Spring or Ornette Coleman's Skies of America […], a celebration of the hybrid and of creative evolution"): è l'investitura del transcendental black metal. L'obiettivo è scavalcare il mortifero nichilismo nordico tramite l'affermativa "rinichilizzazione" che ispirava il nome del disco appena pubblicato: "Our affirmation is a refusal to deny".
La funzione del burst beat ("it expands and contracts like the tide, the economy, day and night, inhalation and exhalation, life and death") è proprio quella di disancorarsi dalla corsa dissennata e dall'anelito di purezza del blast beat, abbracciando un vitalismo consapevole e positivo, aperto alla perpetua incompletezza: "By mirroring life, the burst beat stimulates and fosters life. By fostering life, Transcendental Black Metal affirms life". Per far questo è però necessario recuperare il vero gesto fondativo del black metal norvegese: non l'omicidio di Euronymous, ma il suicidio di Dead, paragonato a quello di Cobain come superamento nietzschiano di un paradigma obsoleto ("Dead's death secretly inaugurates the birth of black metal and the death of counterculture as such"). Il traguardo di questa proposta (imbevuta di filosofia continentale quanto di pensiero cristiano, ma anche buddhista) è la rifondazione di una nuova estetica, "a third modality of art alongside the comic and the tragic […], a resurrection of the aura and an affirmation of the power of meaning to mean". Ed è da questo solenne punto d'arrivo che si gettano le basi per il prossimo, avvincente capitolo della sua maturazione musicale.
Aesthethica (2011), che segna l'inizio del sodalizio con la Thrill Jockey, ha più a che fare con il math-rock e il minimalismo che con il black metal, con "High Gold" a lambire un epos quasi progressivo. Innestato su cavalcate epiche e ossessive, è un lavoro in cui la precisione delle esecuzioni conta più della densità delle atmosfere, affatto cupe e anzi freddamente geometriche. L'estrema compattezza non esclude trucchi da rock opera (il minuto di silenzio in chiusura di "Sun Of Light", a metà esatta del percorso), laconici strumentali ("Helix Skull", tra la fuga barocca e una ricorsività Riley-iana) e vampate brutali (lo sludge becero di "Veins Of God"), mentre i sentori d'incenso fiutati in Renihilation ardono in a cappella di gregoriana austerità ("Glass Earth", l'intro di "True Will") quanto nelle viscerali pennellate dei testi, debitori del pietismo tedesco.
Il salto di personalità rispetto all'esordio è drastico e impone i Liturgy come indiscusso faro della nuova musica estrema. Se l'establishment iperboreo storce il naso e si affretta a etichettarli come "hipster black metal", la stampa generalista invece apprezza, con l'album a far capolino in diverse classifiche estranee al continente metallico.
Meno contenti gli altri membri della band, sempre più marginalizzati dalla personalità debordante della leader (che nel frattempo si concede anche uno split omonimo con gli Oval, rilasciato per il Record Store Day). Nel 2012 Dusenbury e Fox (che l'anno prima ha debuttato in proprio con il progetto Guardian Alien) mollano il colpo e, dopo alcuni live in duo con drum machine, il gruppo si scioglie: è il primo di una serie di rimpasti che rimescoleranno le carte dei Liturgy. Hunt-Hendrix, comunque, non rimane con le mani in mano: con Marston e gli ex-Birthday Boyz Greg Smith e Jeff Bobula dà vita al progetto math/progressive Survival, autore l'anno successivo di un disco omonimo su Thrill Jockey, e intanto prepara il trampolino per il nuovo balzo nel vuoto della sua creatura principale.
Capitolo 3: arrivano le fanfare
Dopo aver dimostrato la portata della propria visione, Hunt-Hendrix spicca il volo di Icaro con una mossa perversamente suicida. The Ark Work (2015), con Fox e Dusenbury reintegrati in formazione, è un disco così strano da far dubitare sulla serietà delle sue intenzioni, a partire dalle stranianti "Fanfare" in apertura (un Aaron Copland strafatto di lean). L'abiura della matrice black è esemplificata dalla rinuncia al canto in screaming, sostituito da un flow apatico preso in prestito dall'indolenza trap.
Impaginato in una scintillante cromatura hi-tech, insidiato da un'elettronica aliena, il menù include solipsismi per organo tra Bach e il Bowie berlinese ("Haelegen"), inserti di clavicembalo e cornamuse (gli oltre 11 minuti di "Reign Array") e bordate bass ("Vitriol"), all'insegna di un postmodernismo capriccioso e idiosincratico. In "Follow" fa la sua prima apparizione mademoiselle glitch, da ora in avanti fedele alleata destrutturante, mentre i muscoli si gonfiano giusto nel doom disidratato di "Father Vorizen". La pulsante "Quetzalcoatl", che intreccia rap e metal negando l'energia di entrambe le possibilità, è la più fedele istantanea del nuovo corso.
Dell'assalto al cielo di Aesthethica rimane un languire rassegnato, malinconico, adolescenziale. Allergico alla coesione, più informe che informale, un pelo estenuante, pensato più per se stessa che per il pubblico, The Ark Work è nondimeno pregno del fascino della ricerca in atto, e come tale merita rispetto e considerazione - non abbastanza, comunque, da impedire un'ulteriore gragnola da parte dei metalhead, oltre che l'ennesimo scioglimento del quartetto.
Le mattane di cui sopra, opportunamente fermentate, forniscono il mosto al side project New Introductory Lectures On The System Of Transcendental Qabala, attribuito all'alias Kel Valhaal. Il comunicato d'accompagnamento ne chiarisce la natura di divertissement, ma non manca di lanciarsi in un volo pindarico che è tutto un programma: veniamo pertanto a sapere che "the aim of the project is to activate transcendental catharsis using the elements of sound design" e che "the project has a horizon that is ethical, political, and eschatological". La musica si configura come una sconclusionata divagazione tra trap, bass e un'elettronica contorta e vischiosa, a un passo dalla frammentazione post-club. Il tratto amatoriale e imperscrutabile disegna una caricatura almeno in parte deliberata, apprezzabile tutt'al più come attestato dell'insaziabile curiosità dell'autrice. Si metta comunque agli atti che un pezzo trap di 10 minuti intitolato "Ontological Love" ancora non si era affacciato negli annali musicali.
Il sempre più irrequieto Fox, dal canto suo, pubblica a proprio nome "The Gradual Progression" e avvia il supergruppo Ex Eye, insieme ad altri gloriosi veterani come Colin Stetson e Shahzad Ismaily.
Capitolo 4: il dio dell'amore
Con i Liturgy di nuovo in panne, la nostra instancabile eroina si tiene occupata con i progetti più diversi: nel 2017 condivide con M Lamar i crediti del melodrammatico Funeral Doom Spiritual, tra operatic pop e industrial. Nel 2018 lavora all'agognata rock opera "Origin Of The Alimonies" (su cui torneremo più avanti), presentata al National Sawdust di New York in formato video sonorizzato con ensemble da camera e riproposta l'anno dopo al REDCAT di Los Angeles insieme al Sonic Boom Ensemble. Nel 2019 è la volta dell'estemporanea sigla Ideal, che con il bizzarro singolo "Seraphim" teorizza un'autoproclamata fusion "trap-djent" (!).
È però dei Liturgy che ha bisogno per dar corpo alla sua magnifica ossessione. Dopo un riscaldamento live con Leo Didkovsky e Tia Vincent-Clark a sostituire rispettivamente Fox e Dusenbury, suonando solo brani pre-The Ark Work, la riedizione del gruppo è pronta a calare la sua carta più portentosa.
H.A.Q.Q., pubblicato a sorpresa nel novembre del 2019 per la YLYLCYN, label personale di HH, si pone sin dalle prime battute come schizoide summa del suo onnivoro ingegno, punto di arrivo di un art-avant-metal ormai a un passo dalla musica colta, come forse solo Igorrr (e, più alla lontana, Tom Gabriel Fischer) è riuscito a fare. Sulla scorta di sperimentatori tormentati come Justin Broadrick o Trent Reznor, la Nostra non intende indugiare oltre nel palesare quella che definisce la propria "uniquely marxist and psychoanalytic vision of God", nonché i suoi “struggles around mental health, sexuality, and religion”.
Entra in scena a gamba tesa, con il titolo che è un acronimo per "Haelegen Above Quality And Quantity" (ma gioca anche con il termine arabo "Haqq", uno dei novantanove nomi di Allah, traducibile con "Verità") e la copertina a riepilogare i punti salienti della sua imperscrutabile weltanschauung, raggrumata nei macro-blocchi "Axiology” - "Metaphysics” - "Cosmogony” - "Eschatology”: giusto Sun Ra era arrivato a elaborare un belief system altrettanto denso. E se tutto ciò vi dovesse disorientare, aspettate di premere play...
È una tempesta speedcore a trascinarci dentro "HAJJ", versione accelerata di "Mekanïk Destruktïw Kommandöh" in cui urla disumane annegano in una piena torrenziale che travolge pure pianoforte, ryteki, hichiriki e cori esoterici, cambiando umore con ciclotimica volubilità: è il prog del futuro, più imparentato con un reparto psichiatrico che con una favola pastello. Una cinica manipolazione elettronica dirotta anche l'interlocutorio bozzetto di "EXACO I", due minuti e mezzo di martellare pianistico, quasi un Wim Mertens in salsa digital hardcore.
Se nulla si salva dalla deflorazione in "VERGINITY" (di sicuro non quell'arpa trapanata a sangue da una chitarra supersonica), "PASAQALIA" tocca vette di maestà classicheggiante nella sua ascesi di archi, vibrafono e glockenspiel, mentre lo sdrucciolevole scampanellio di "EXACO II" si concede il lusso di tirare in ballo addirittura Ligeti (che in questo caso, tuttavia, tutto suona men che "mesto, rigido e cerimoniale").
Ma è arrivati a "GOD OF LOVE" che l'Hendrix-pensiero può dispiegarsi in tutta la sua aberrante magnificenza: intro orchestrale cinematica, burst beat da orda di orchi, algebrico contrappunto math, sospiri blackgaze alla Alcest, in un crescendo malinconico da stalattiti lacrimali. Di fronte a brani simili non è inopportuno scomodare la categoria dell'incredulità.
"EXACO III" torna ad avventarsi su Ligeti (ma anche su Chopin) laddove la title track sradica un organo giocattolo con una belluina onda d'urto napalmeggiante, rischiarata in una coda per piano e campane che sfuma in quattro puntini di sospensione, l’unico commento che può rilasciare un sopravvissuto a una strage e l'unica traccia semiotica a persistere nella nostra mente elettroconvulsa, spegnendosi in un avviluppante tumore chitarristico.
Tripudio di rime interne in perenne dissonanza cognitiva, H.A.Q.Q. è la difforme consacrazione della massima outsider metallica vivente, un manifesto di genialità visionaria e uno dei dischi dell'anno.
Le tesi accennate diventano parte di un vero e proprio sistema filosofico, il "System Of Transcendental Qabala", esposto attraverso una sconcertante serie di video su YouTube che denotano una vorace dedizione ai nuovi media. Il motto hendrixiano potrebbe suonare come un "mistici di tutto il mondo unitevi", avulso però da connotazioni esoteriche, magari più assimilabile a una nuova tenda new age, per quanto presa tremendamente sul serio: "I've been developing a mythology which derives from psychoanalysis, Christian mysticism and things like Kabbalah", dichiarerà senza falsa modestia in un'intervista.
Intermezzo
"I am a woman. I've always been one. The love I have to give is a woman's love, if only because it is mine". La penna è la stessa che ha tratteggiato le liriche oscure dei Liturgy e le ancor più stratificate appendici teo-filosofiche, ma che all'occorrenza sa armarsi di una sincerità così spiazzante da spappolare il cuore. Il messaggio è affidato a un densissimo post su Instagram, il 12 maggio 2020: con un'ingenuità e una dolcezza più uniche che rare, Hunt-Hendrix rievoca le difficoltà nello scoprire e accettare la propria identità di genere, delinea una struggente concezione di femminilità ("the feminine imbues everything I am"), urla la visceralità delle sensazioni che prova. La solennità con cui scandisce le parole echeggia quella della sua musica, e di fronte a una dichiarazione come "I have no choice, there is no way for me to stop it from coming out, I am simply surrendering to it", si fatica ad avere gli occhi ancora asciutti.
La notizia rimbalza come una pallina da flipper in burst beat: se i coming out metallici da sempre scarseggiano (eccettuato quello clamoroso quanto isolato di Rob Halford), una rivelazione così delicata e complessa non ha precedenti noti. Ciò che sorprende è la profonda distanza da qualsiasi stereotipo comunicativo preesistente: lontana dalla riottosità gender warrior, Hunt-Hendrix conia una personalissima trans-teologia, rivendicando con orgoglio la coerenza della scelta con il suo intricato percorso intellettuale e religioso. Coerenza che, d'altronde, è difficile non scorgere: artista congenitamente transgender nella sua disinvoltura linguistica, trasforma la propria personalità e il proprio corpo in un inedito campo di sperimentazione, ennesima estensione di un'incessante gesamtkunstwerk/merzbau e incarnazione dell'essere divino invocato con tanto accanimento. Solo Genesis P-Orridge si era spinta tanto oltre nel sovrapporre vita e opera.
Nel frattempo inizia a filtrare qualche immagine, prima in solitaria, poi sul palco: cinta da abiti floreali, i lunghi capelli al vento e la SG a tracolla, questa madonna urlante impone un nuovo paradigma estetico, riuscendo nell'inverosimile impresa di aggiornare l'iconografia rock. Con quel misto di discrezione e fermezza che è il suo sigillo, documenta volentieri l'avventurosa transizione, sfruttando la consolidata potenza di fuoco social per legarla a un discorso sul Tutto ormai mastodontico. Nei commenti che subissano i suoi canali risuona l'estasi di chi accorre a una chiamata profetica: un numero non quantificabile di persone rimane ammaliata da questa ineffabile creatura che alterna selfie a discettazioni bibliche, messia di un nuovo avvento già capace di mietere selezionati proseliti. Una rivoluzione silenziosa è iniziata.
In questo come negli altri campi, la sensazione è che le innovazioni introdotte da questo personaggio fuori dall'ordinario richiederanno anni per essere metabolizzate del tutto. Nell'attesa che ciò avvenga, a essere suscitato è il tipo di stupore destato dai quadri che scavalcano la cornice.
Capitolo 5: l'apparizione della chiesa eterna
A fronte dell'intensità con cui si è manifestato e della copertura mediatica che lo ha investito, da ora in avanti sarà impossibile separare la musica dei Liturgy dal commovente coming out della leader. La prima mossa discografica del nuovo corso non fa nulla per smentire questa supposizione, a partire da un artwork che non passa inosservato.
Riccamente annunciata, Origin Of The Alimonies (2020) è la rock opera che HH sogna da una vita per dar seguito alle mai celate ambizioni da compositrice classica quanto a una vocazione sempre più wagneriana. Il concept non si limita alla speculazione filosofica ma sviluppa un autentico tessuto narrativo, proseguendo nella definizione di quella saga a sé stante che è ormai la cosmogonia hendrixiana. Quanto alla trama, dal libretto sbirciamo che "the opera tells the story of a cosmogonical traumatic explosion between OIOION and SIHEYMN, a pair of divine beings whose thwarted love tears a wound from which civilization is generated, producing the Four Alimonies of the intelligible universe and the task of collective emancipation": tutto chiaro, no?
Non contenta, l'autrice sovrappone alla musica un mini-film di cui è regista, sceneggiatrice, montatrice e unica interprete, da cui estrapola pure l'eloquente copertina, la prima in carriera su cui mette faccia e corpo. Proprio la natura cangiante della sua fisicità in transizione diviene specchio della narrazione lirico-musicale, in un estremo atto di coraggio che suggella la definitiva affermazione della nuova identità di genere. L'effetto non lascia indifferenti, per usare un eufemismo.
Il quartetto è accompagnato da un ensemble di otto elementi che, insieme alla proiezione del film, seguirà la band anche nel tour promozionale, testimoniando l'importanza attribuita all'organicità del progetto.
Il sinfonismo dell'album precedente viene contingentato per orientarsi verso una teatralità umorale da balletto russo, con Stravinskij e Prokof'ev a giganteggiare tra i riferimenti. Aria dell'Est si respira anche negli impetuosi pieni orchestrali, debitori del romanticismo di Musorgskij (come pure di certa possanza mahleriana), ma Hunt-Hendrix non si sottrae nemmeno al confronto con i sabotatori della tonalità (Scelsi, Boulez e Messiaen, quest'ultimo citato esplicitamente su "Apparition Of The Eternal Church", oltre all'amato Skrjabin). Il formato-opera (ouverture + tre atti) stavolta è il punto di partenza anziché di arrivo, con la variabile metallica ridimensionata alle fasi di gioco in attacco. Non rinuncia neppure alle interferenze elettroniche posticce, ricorrendo nuovamente a destabilizzanti scariche di glitch, seppur defibrillate con più parsimonia.
A suo modo, è un aggiornamento postumano dei pomposi dischi rock con orchestra che spopolavano negli anni 70. È inferiore a H.A.Q.Q. perché lo doppia in spericolatezza, ma ancora una volta c'è da rimanere di stucco al cospetto della vertiginosa scommessa artistica della protagonista, opera d'arte vivente che continua a a strappare conturbante ammirazione.
Nello stesso danno viene dato alle stampe anche il singolo "Antigone", curiosa collaborazione con il duo arpa-violino LEYA.
Capitolo 6: prima di conoscere la verità
Dopo mesi di intensa attività live, il 2022 si pone come foriero di ulteriori novità: innanzitutto, Hunt-Hendrix accantona una volta per tutte il nome di battesimo per trasformandosi in Ravenna (Haela Ravenna a partire dal 2023), stabilizzando così il proprio sofferto assetto identitario. Nel frattempo, sulle orme di Perry Farrell, si riscopre scultrice, facendo collidere materiali industriali e iconografia cristiana nell'orizzonte di una futuribile arte sacra. Una di queste opere finisce sulla copertina di As The Blood Of God Bursts The Veins Of Time (titolo tratto da un verso di "Glory Bronze", ottava traccia di Aesthethica), Ep-antipasto alla più pantagruelica indigestione finora impostaci.
"I never believe the lore": partiamo da questa lapidaria affermazione per tentare un'inquadramento di 93696 (2023), un'ora e venti di musica su doppio vinile dorato. Che l'autrice mal tolleri le tradizioni lo sapevamo già: il "Transcendental Black Metal Manifesto" era in fondo la sua personalissima sfida al dogmatismo metallico. E che dire della sempre più sfacciata eterodossia teologica, portata avanti con interventi social in cui scaccia uno per uno i mercanti dal tempio? Simili posizioni possono però strutturare una malefica auto-tradizione, barricandosi in un formalismo che si limita a variare i propri cliché, per quanto originali essi siano.
Proseguendo nell'analisi dei testi, al solito non troppo trasparenti, ci imbattiamo in quest'altra confessione: "I could never endure a seance that didn’t observe my faith". Seguono la rivendicazione di un successo ("We turned a terrible poem into a pre-critical tome") e l'ammissione di una sconfitta ("I'm sorry I could never fully generate heaven"). Provo a interpretare: fedele solo al proprio titanismo, questa Doktor Faust in gonna ha davvero trasformato il black metal in qualcosa d'altro, che però potrebbe non corrispondere alla visione che l'ha folgorata sulla via di Damasco. Che mantenere la posizione, semmai lustrando i cannoni e potenziando i proiettili, sia l'unica mossa concessa in questa fase di riprogrammazione?
Eppure di deviazioni alla rotta ce ne sono eccome, dentro 93696: a partire dal formato extra-large (somministrato nei quattro atti "Emancipation"/ "Individuation"/ "Sovereignty"/ "Hierarchy") e dallo stesso titolo, che sblocca l'afasia glossolalica attingendo al linguaggio binario. Si segnala poi una vena meno autarchica, tornando in seno alla Thrill Jockey dopo due album autoprodotti e convocando in console addirittura Steve Albini, personaggio apparentemente lontano dalla tavolozza hendrixiana - ma attenzione, solo apparentemente: si veda l'allucinata rilettura a cappella di "Prayer To God" data in pasto nel 2012 alla serie "Undercover" di The A.V. Club.
Parliamo della musica. Anche qui, le novità non mancano: un tema ricorrente con più insistenza del solito, una maggiore concessione al vigore post-metal, un ricorso particolarmente intenso al pianoforte (sia acustico sia elettrico), un più deciso abbraccio del massimalismo di Glenn Branca come degli esperimenti microtonali. E poi il ponte alla Skinny Puppy di "Djennaration", le voci bianche di "Angel Of Sovereignty" (che messe a confronto con l'ohm ferino che apriva Renihilation sembrano siglare la compiuta ascesa dantesca), gli accenti Cave-iani di "Haelegen II", il quasi-grunge di "Ananon", il quasi-shoegaze di "Antigone II", il madrigale a dodici corde di "Haelegen II (Reprise)".
Da non trascurare, infine, l'effetto-Albini, curiosamente più ravvisabile in alcune soluzioni ritmico-armoniche che nella produzione (il secondo segmento della chilometrica title track potrebbe essere un'outtake da “At Action Park”, seppur calata in una scenografia tra "Suspiria" e un vecchio peplum).
Qual è il punto, allora? Spiace dover ricorrere ad argomentazioni così idiote per un'artista così intelligente, ma tant'è: se questo fosse stato il primo (ma anche il secondo o il terzo o il quarto) album dei Liturgy, avremmo senz'altro gridato al capolavoro. La questione è proprio quello che è successo in mezzo, quanto ha spinto oltre le frontiere di un intero genere (se non della musica contemporanea tutta) e la conseguente difficoltà a schiodarsi da un'inconfondibilità che si è fatta maniera rassicurante. Ostinarsi a calcare la firma reiterando codici abusati (specie nelle sventagliate glitch, che ormai generano più irritazione che sorpresa) finisce solo col confermare questa tesi, come anche il già sentito ausilio di strumenti extra-rock (dal marxophone di "Angel Of Individuation" agli onnipresenti archi e flauti) o mash-up stilistici (le amate infezioni trap).
C'è quindi da prendere 93696 come un riassunto e/o approfondimento delle puntate precedenti (le trame ipnotiche di Aesthethica, le falde inquinate di The Ark Work, la gestualità imponente di H.A.Q.Q., lo sviluppo programmatico di Origin Of The Alimonies), disseminando soprammobili fuori posto in un'autoreferenziale caccia al tesoro per fan? Ma ad affacciarsi è un esito ancor più paradossale: tra uno screaming mai così graffiante e il profluvio di parole desuete in liriche simili a formule magiche o antiche leggende, colme di una violenza a tratti anche puerile, questo potrebbe essere il disco più genuinamente metallico che il quartetto di Brooklyn abbia mai inciso. Dai manuali di storia musicale apprendiamo che ai romantici succedono i neoclassici, ma nel caso dei Liturgy questo sembra un effetto collaterale più che una scelta consapevole.
Autistico e divisivo come da tradizione degli album doppi, 93696 è una sbornia colossale che, se non altro, offre al neofita punti cardinali a sufficienza per scegliere se tuffarsi o meno in quel magmatico pozzo creativo chiamato Haela Ravenna Hunt-Hendrix.
Grazie di tutto
LITURGY | |
Immortal Life (Ep, Unfun Records, 2008) | |
Renihilation (20 Buck Spin,2009) | |
Aesthethica (Thrill Jockey, 2011) | |
Oval/Liturgy (split w/Oval, Thrill Jockey, 2011) | |
The Ark Work (Thrill Jockey, 2015) | |
H.A.Q.Q. (YLYLCYN, 2019) | |
Antigone (singolo w/LEYA, NNA Tapes, 2020) | |
Origin Of The Alimonies(YLYLCYN, 2020) | |
As The Blood Of God Bursts The Veins Of Time (Ep,Thrill Jockey,2022) | |
93696 (Thrill Jockey,2023) | |
BIRTHDAY BOYZ | |
The Bro Cycle(Ep, Life In A Box/Unfun Records/Waking Records, 2006) | |
SURVIVAL | |
Survival(Thrill Jockey, 2013) | |
KEL VALHAAL | |
New Introductory Lectures On The System Of Transcendental Qabala(autoprodotto, 2016) | |
M. LAMAR & HAELA RAVENNA HUNT-HENDRIX | |
Funeral Doom Spiritual(autoprodotto, 2017) | |
IDEAL | |
Seraphim(singolo, autoprodotto, 2019) |