Celtic Frost

Celtic Frost

Nel pandemonio dell'avanguardia metal

La lunga e travagliata carriera della band svizzera capitanata da Tom Fischer, quella che ha insegnato a tutto il metal estremo cosa significasse fare avanguardia. Dalle origini nei vituperati Hellhammer all'insperato album della reunion, un'avventura fatta di imprevedibili cambiamenti e gradite conferme

di Antonio Silvestri

Sicuramente i Venom e gli Slayer, forse i Napalm Death: sono questi gli unici tre gruppi che possono vantare un impatto sul metal estremo paragonabile a quello dei Celtic Frost. Considerando anche la contenuta produzione, di soli sei album di studio e un paio di Ep, la cosa ha dello stupefacente. Il signore a cui dobbiamo tutto questo si chiama Tom Gabriel Fischer, cittadino svizzero. È lui a imbracciare la chitarra, cantare e guidare anche la band dalla quale nasce tutto: gli Hellhammer. Riallacciandosi allo stile eccessivo dei Venom, Tom decide di sostituire il suo tutto sommato inoffensivo nome anagrafico con il minaccioso Tom Warrior. L'altro Hellhammer si fa chiamare Steve Warrior, ma nonostante l'altisonante nome di battaglia, viene sostituito presto da Martin Eric Ain, che mamma e papà chiamano Martin Stricker.
La più terribie, aberrante e atroce cosa che dei musicisti siano mai stati autorizzati a registrare.
(la recensione di Rock Power sugli Hellhammer, 1984)
La storia degli Hellhammer è tanto breve quanto essenziale per comprendere come sia stato possibile per i Celtic Frost pubblicare alcuni degli album più incredibili dell'intera storia dell'heavy-metal. Senza ripercorrere le origini della formazione, quel guizzo creativo sarebbe incomprensibile. Patito di Black Sabbath, Motorhead e Venom, questo trio ha lasciato ai posteri una produzione risicatissima: tre demo, un Ep e, per colmare proprio la lacuna, una compilation. Il suono del primissimo lavoro "Death Fiend" (1983) è fiaccato da una produzione a dir poco approssimativa, accoppiata disgraziatamente con una perizia agli strumenti degna di una band di liceali. Nonostante questo, il demo conserva la propensione al suono più marcio e potente, pur in suo stato embrionale: sembra di ascoltare l'intenzione di superare la New Wave Of British Heavy Metal, più che una vera e più tangibile prova da consegnare ai posteri.
Il secondo demo "Triumph Of Death" (1983) e il finalmente più potente "Satanic Rites" (1983) mostrano in modo più efficace gli intenti della formazione: mentre la critica li considera uno dei mali musicali del periodo, conquistano l'underground con la loro sfrontata volontà di fondere tutta la potenza, la velocità e la pesantezza metallica allora in circolazione, con una forte propensione a guardare alla scena inglese.
L'agognato Ep "Apocalyptic Raids" (1983) contiene originariamente quattro brani, poi aumentati nella riedizione 1990 a sei, e già potrebbe essere registrato dai futuri Celtic Frost: una dose di thrash-metal in "The Third Of The Storm", una mostruosa lentezza doom ornata da angoscianti lamenti in "Triumph Of Death" (9 minuti e mezzo), una sfuriata da Venom in "Revelations Of Doom" e "Massacra". Il suono della chitarra ronzante, l'uso insistito della doppia-cassa e il grido cupo e rantolante di Tom Warrior sono elementi stilistici che faranno tanti proseliti negli anni 80 e 90. Con tutta la tara di una esecuzione approssimativa, una produzione pasticciata e una brevità che tiene il quartetto di brani originali sotto i 20 minuti totali, "Apocalyptic Raids" rimane un passaggio fondamentale per chi vuole approfondire l'estremismo metallico. Fermo restando quanto appena detto, quello che arriva poco dopo è un trittico di opere epocali.

Il 31 maggio 1984 gli Hellhammer concludono la loro avventura. La già citata riedizione di "Apocalyptic Raids" del 1990 e la compilation "Demon Entrails" (2008), che raccoglie i tre demo, sono perfette per chi voglia ripercorrere la preistoria dei Celtic Frost. Sulla carta un'imberbe band di ragazzini ha provato a superare i propri idoli, ma i mezzi finanziari inesistenti e il poco talento agli strumenti ha fatto il resto. La reazione spesso violenta della critica drena l'entusiasmo di Fischer e Ain i quali prendono in prestito il titolo di una canzone dei Cirith Ungol e cambiano nome al loro progetto musicale in Celtic Frost.

L'esordio Morbid Tales (1984), in sostanza un mini-Lp pubblicato in Europa con soli 6 brani estesi a 8 per l'edizione nell'edizione statunitense, è l'anello di congiunzione fra la band di ragazzini senza esperienza già ascoltata nei demo e quella che verrà etichettata come la prima formazione di avantgarde-metal della storia. Fanno quasi tutto Warrior e Ain, con musicisti aggiunti per voci, batteria e violino. "Into The Crypts Of Rays" è un thrash-metal furioso, "Vision Of Mortality" un'avventura che da un riff tipo Black Sabbath parte per una cavalcata sempre più scatenata, tanto efferata da portare alla mente gli Slayer di quel periodo.
Da subito i Celtic Frost si dimostrano anche interessati a esplorare le possibilità del lento e pesante, come dimostra "Procreation (Of The Wicked)". Un brano palesa però le intenzioni sperimentali che a breve diventeranno assolute protagoniste: "Danse Macabre", una spettrale melodia degna di un film di Dario Argento, lamenti inquietanti e deformati, un coro lisergico che starebbe bene nel "Not Available" dei Residents.
Già nella versione originale con sei brani, Morbid Tales è un'opera di rottura con il passato di Warrior ed Ein, impressione che rimane anche con l'aggiunta dei due brani pensati per il mercato Usa. Nel 1999 una rimasterizzazione sfrutta i brani di "Emperor's Return" (Ep, 1985) per portare la tracklist a quota 12.

To Mega Therion (1985) è un'opera che trasforma quelle intenzioni in una pietra miliare di tutto il metal, fondamentale influenza per le varianti black e death. Curiosamente Ain non partecipa alle registrazioni e torna a lavorare con la band dopo la pubblicazione. Al suo posto Dominic Steiner, con Reed St. Mark che si occupa di batteria e percussioni, queste ultime piuttosto ricercate in alcuni brani. La maestosa apertura sinfonica di "Innocence And Wrath" introduce il furioso thrash/black-metal di "The Usurper", con inaspettate voci operistiche e un passo zoppicante che tiene alta la tensione lungo tutto il brano. "Jewel Throne" si candida come uno dei più credibili esempi di death-metal ante-litteram, nello stesso anno della pubblicazione della canzone "Death Metal" da parte dei Possessed. Praticamente da questo brano si possono ricongiungere gli Obituary agli Slayer. "Dawn Of Megiddo" fa ancora di più: raggruppa la lentezza del doom con la violenza del thrash-metal, colorandola di spunti sinfonici in quasi sei minuti di estremismo sonoro. "Necromantical Screams" ripete il colossale sforzo di fusione in una composizione dove le varie anime stilistiche combattono intestinamente.
Ma oltre alla sofisticata sintesi stilistica, peraltro con l'importante esplorazione di territori sonori vergini, To Mega Therion si distingue anche per la pura potenza della musica, un concentrato di riff taglienti completato dal canto furibondo di Tom Warrior, una delle voci di riferimento di quel periodo di transizione verso nuovi estremismi metallici. Anche dopo più di trent'anni una "Circle Of The Tyrants" o la "(Beyond The) North Winds" colorata di hardcore-punk travolgono l'ascoltatore e "Fainted Eyes", soprattutto quando si lancia a velocità pazzoide, rimane uno dei capolavori di tutto il metal del periodo. C'è poi l'aspetto più sperimentale, quello che domina l'album successivo: qua affiora prepotentemente in "Tears In A Prophet's Dream", gorgo industriale e dark-ambient.

Dedicato a Satana in persona, visto che il titolo è il corrispettivo greco di "la grande bestia", e presentato da una copertina lugubre e diabolica, decisamente blasfema, To Mega Therion ha avuto un'influenza anche difficile da delineare, tanto è vasta. Pur nascendo negli anni del thrash-metal, dal quale prende più di qualche idea, è una pietra miliare della sperimentazione in ambito rock. Le composizioni più elaborate sfruttano variazioni considerevoli di velocità; si inserisce uno strumento atipico come il corno francese (in tre brani) e una seconda voce femminile (sempre in tre brani), indicando la strada a tanto metal futuro. Non solo ci sono molti dei semi del death-metal, come e più che in "Seven Churces" dei Possessed, pubblicato nello stesso anno, ma anche spunti buoni per il gothic-metal (ma "Gothic" dei Paradise Lost arriverà solo nel 1991).
I Celtic Frost furono inoltre fra i primi a introdurre l'uso di voci femminili nel metal e ispirarono direttamente anche i primi lavori di gruppi come Paradise Lost o The Gathering in tal senso. La vena sinfonica e sperimentale sarà invece sviluppata soprattutto da un sottogenere del black-metal, che farà delle orchestrazioni un'innovazione e poi un cliché nel corso dei decenni. Non ultimo, Tom Warrior è il cantante simbolo di questa preistoria death-metal, anello di congiunzione fra l'ancora educato stile della New Wave Of British Heavy Metal e un futuro gutturale e mostruoso.

L'Ep Tragic Serenades (1986) è poco più di una distrazione nel periodo più importante della carriera della band, ma si ricorda per un improbabile "party mix" di "Return To Eve". Con il terzo album i Celtic Frost compiono però una scelta che è difficile non trovare spiazzante. Into The Pandemonium (1987) ha costretto la critica disorientata a coniare una nuova etichetta: avant-metal. L'inizio non potrebbe essere più inaspettato, con una cover dei Wall Of Voodoo, "Mexican Radio". Un successo del 1983, interpretato con ferocia da una delle più estreme band del pianeta in quel periodo, messo in apertura. "Mesmerized" fa riconoscere la ferocia della formazione, anche se il canto di Tom Warrior è più lamentoso che mai e l'aura gotica palpabile.
Per quanto grandiose dimostrazioni di potenza come "Inner Sanctum" e "Babylon Fell (Jade Serpent)" siano da segnalare, a fare la storia sono stravaganze come i cori mediorientali che aprono "Caress Into Oblivion (Jade Serpent II)", un doom tormentato, violento come il death-metal ma suonato alla metà della velocità.
La pietra dello scandalo e forse il brano più influente dell'intera carriera è "One In Their Pride", che fonde il loro spirito metal con i ritmi dell'elettronica, una vera bestemmia per tutti i puristi, che è resa ancora più blasfema da scampoli di musica classica. L'affronto culturale del brano è ancora oggi comprensibile ma nel lontano 1987 dovette suonare come una provocazione con pochi paragoni nella storia della musica del periodo. Trent'anni dopo le band black-metal utilizzano ampiamente la musica elettronica, l'industrial-metal ha trovato infiniti modi di rendersi ritmico e ballabile e gli steccati fra generi e stili sono sempre più un'esclusiva dei conservatori. Un exploit sperimentale talmente grande che l'inno ballabile "I Won't Dance" passa in secondo piano, anche se pare di sentire gli Slayer ammiccare alle discoteche dopo un'indigestione di pop-metal. Lo spirito orchestrale che timidamente si avvertiva in To Mega Therion qua è portato a pieno compimento. Non più qualche strumento aggiuntivo, ma un brano di sei minuti, "Rex Irae (Requiem)", suonato con un'intera orchestra diretta da Lothar Krist e arricchita dal soprano Claudia-Maria Mokri.

Into The Pandemonium pullula di stravaganze, sperimentazioni e azzardi. È stato argomentato, non senza efficacia, che la band doveva essere all'epoca molto indecisa sul proprio futuro, strattonata qua e là da varie idee e poca esperienza. Questo porterà a breve a una scelta stilistica foriera di critiche feroci, ma  quest'album è all'origine di una serie di tentativi visionari di fusione, alterazione e rilettura dei canoni dell'heavy-metal. Come poche altre opere in questo campo, Into The Pandemonium indica una nuova via, non solo un nuovo stile elaborato di fare musica. Con onnivora curiosità si spinge a fusioni blasfeme fra mondi musicali culturalmente lontanissimi, diventando la dimostrazione che i confini nelle menti di critica e pubblico sono valicabili e proprio il superarli conduce a qualcosa di nuovo ed entusiasmante. Opera fondante dell'avant-metal, è questo uno snodo essenziale del versante pesante del rock, che conosce pochi rivali in termini di influenza.

Dare un seguito a un album così sperimentale è difficile, ma i Celtic Frost fanno una mossa che allontana fan e critica. Una sterzata possente verso il glam-metal con l'album Cold Lake (1988). Tom Warrior, intenzionato a sciogliere la band, la riforma con una line-up stravolta con Oliver Amberg alle chitarre, Curt Victor Bryant al basso e Stephen Priestley alla batteria. Il buon Fischer ha poco interesse nel progetto e rinuncia spesso anche all'aspetto compositivo. L'opera è particolarmente bersagliata per il nome che porta in copertina, ma brani come l'orecchiabile "Petty Obsession" o la graffiante "(Once) They Were Eagles" non sono indegni di altre e più apprezzate band che bazzicano la stessa nicchia stilistica, in primis i Faster Pussycat e i Mötley Crüe, a tratti davvero facili da portare come termine di paragone. L'intelaiatura dei brani è piuttosto classica, legata a doppio filo alla tradizione dell'heavy-metal e dello speed-metal, cosa che rende possibile anche considerarlo semplicemente un momento di depurazione dagli estremismi. È pur vero che dopo una manciata di brani l'sipirazione sembra latitare e che rispetto alle più famose band glam-metal questo sembra soprattutto un album imitativo, molto minore rispetto al resto della discografia.
Resta indubbio, inoltre, che sia difficile considerarlo un album dei Celtic Frost, e il fatto che la formazione fosse pubblicizzata con capelli cotonati non fece che stimolare le reazioni più feroci da parte di un pubblico che si sentiva tradito. L'album, che ha smesso di essere edito da molti anni, è diventato un feticcio per collezionisti. Tom Warrior ha definito l'opera "probabilmente il peggior album mai creato nella musica heavy".

Licenziato Amberg, causa principale della svolta cotonata, Vanity/Nemesis (1990) vede un parziale ritorno alla forma. I Celtic Frost abbandonano il ruolo di padri fondatori del death-metal e influenza centrale del black-metal: qui l'anima thrash-metal e quella più tradizionalmente heavy si sposano con i toni gotici già affiorati in passato. La violenza di "Wine In My Hand (Third From The Sun)" e "Phallic Tantrum", la sofisticata vena compositiva à-la Metallica di "Wings of Solitude" e la cover stravagante di "This Island Earth" di Bryan Ferry mostrano una formazione che, tornata a essere guidata da Fischer e Ain, ha anche sviluppato nuove idee senza per questo risultare un'imitazione da due soldi di alcuni bestseller del periodo.
La lunga "Nemesis" (quasi 8 minuti) è la sintesi ideale dell'opera, mostrandone anche il principale limite: nulla di quello che si ascolta nell'album suona sperimentale la metà dei brani migliori di Into The Pandemonium. Nell'edizione cd si ricorda anche una stravagante versione thrash-metal di "Heroes" di David Bowie.

La raccolta di rarità Parched With Thirst Am I And Dying (1992) è destinata a diventare l'ultima testimonianza della band per molti anni. Il successivo "Under Apollyon's Sun" non vedrà mai la luce, anche se sarà lo spunto per far fondare a Fischer gli Apollyon Sun insieme a Erol Unala nel 1995, che hanno all'attivo un solo album vero e proprio, "Sub" (2000).

La travagliata esperienza dei Celtic Frost ricomincia solo nel 2001, quando Fischer e Ain ricominciano a scrivere musica insieme, con Unala come chitarrista e con la successiva aggiunta di Franco Sesa dietro le pelli. Prodotto in autonomia, il lungamente sognato nuovo album arriva solo nel 2006, 16 anni dall'ultimo album di studio, e porta il titolo Monotheist. La più grande delle sorprese è che è il più ispirato dai tempi di Into The Pandemonium, di cui rappresenta un ideale seguito. Viene così risolto uno dei più dolorosi cambi stilistici dell'heavy-metal, riscrivendo una storia discografica che è diventata confusa dopo il tanto celebrato album per il quale si è iniziato a parlare di avant-metal.
La possente "Progeny" riparte proprio dalla sulfurea miscela di death e black-metal, motore pulsante anche di "Ground", dai contorni industrialoidi. Il lugubre doom di "A Dying God Coming Into Human Flesh" è una tortura sonora imbevuta di malvagità fino alle viscere, salvo poi stemperarsi in una psichedelia gotica. La vena più creativa e coraggiosa ritorna in "Drown In Ashes", allucinazione industrial-gotica con eterea voce femminile e recitato drammatico, e soprattutto in "Os Abysmi Vel Daath", quasi 7 minuti aperti fra fischi e dark-ambient che dopo un devastante midtempo portano a una nube tossica e oscura prima del burrascoso finale. Con "Obscured" scrivono l'inaspettato vertice gotico della carriera e con "Ain Elohim" sotterrano con la potenza devastante molti pregiudizi che li vorrebbero dei senili rocker imbolsiti.
Pur durando quasi 70 minuti, l'album non cede di un millimetro, anzi trova nel finale un trittico spaventoso e uno dei vertici dell'intera carriera: prima l'incubo degno dei più violenti Einsturzende Neubauten di "Totengott", poi il brano esteso più compiuto della discografia, il colosso di 14 minuti e mezzo intitolato "Synagoga Satanae", che rivaleggia ad armi pari con le nuove leve, e infine il lugubre requiem di "Winter", classicheggiante.

Sarebbe facile considerare Monotheist un reunion album da nostalgici, ma è in realtà una inaspettata prova di forza di una band che sembrava ormai sepolta. Un colpo di coda portentoso e purtroppo anche il finale della storia dei Celtic Frost, visto che nel 2008 Fischer abbandona la band e mette fine a qualsiasi possibilità di un futuro album. Formerà i Triptykon (si segnala soprattutto "Eparistera Daimones" del 2010), degni eredi del sound di Monotheist.

Celtic Frost

Discografia

Morbid Tales(Noise, 1984)

To Mega Therion (Noise, 1985)

Into The Pandemonium(Noise, 1987)

Cold Lake(Noise,1988)
Vanity/Nemesis (EMI/Noise, 1990)
Monotheist (Century Media, 2006)
Pietra miliare
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