Mars Volta

Mars Volta

Acrobazie psycho-progressive

Nati dal chitarrista Omar Rodriguez Lopez e dal cantante Bixler Zavala degli At The Drive-In, i Mars Volta hanno creato una originale miscela di hardcore e progressive intrisa di psichedelia. Alternando risultati sorprendenti a velleità autolesioniste

di Germano Pastorelli

Se c'è qualcosa che non si può assolutamente imputare al duo Rodriguez-López/Bixler-Zavala, è la mancanza di coraggio. Nell'ultimo lustro, fra progetti principali e secondari, non si sono mai cullati sugli allori. Piuttosto, i due artisti di intricate origini portoricane hanno costantemente spiazzato i propri ascoltatori, perdendo fedeli da una parte e possibilmente acquistandone dall'altra.
L'ambizione eccessiva, la voglia di fare, di esserci ovunque, che forse dovremmo chiamare presunzione, li ha recentemente portati allo sbando artistico, in un'involuzione a cui potrebbe risultare anche piuttosto difficile scampare.

Ma andiamo con ordine. Antefatto: gli At The Drive-In, band di riferimento di El Paso, Texas, si sciolgono chiassosamente all'apice della propria carriera terminata la tourneé dell'ottimo Relationship Of Command. Nel gruppo militano il visionario cantante Cedric Bixler-Zavala e il chitarrista Omar Rodriguez-López, futuri fondatori dei Mars Volta.
Gli At The Drive-In si scindono in due parti quindi, con i restanti tre musicisti, guidati da Jim Ward, a rifugiarsi negli Sparta, progetto emo-core con reminescenze del gruppo base.
Le divergenze artistiche fra le parti risulteranno direttamente proporzionali alla musica che rispettivamente produrranno con le due nuove band nate dalla scissione degli At The Drive-In.

I Mars Volta - nome di derivazione felliniana - nascono con l'ambizione di tentare l'intentato, e con l'aiuto di Alex Newport in cabina di regia, producono subito un Ep di appena venti minuti che lascia intuire che, nel senso autentico dell'espressione, la musica è cambiata; la ricerca di uno stile proprio è costruita più sull'entusiasmo dei due fondatori che non su basi elaborate e pensate con cura maniacale. Fondamentale nei Mars Volta è l'improvvisazione, nella buona e nella cattiva sorte delle loro intuizioni.
Nell'Ep Tremulant si guadagna presto un ruolo di protagonista anche il batterista Jon Theodore, in grado di imbastire tempi sempre imprevedibili (costantemente lontani dal canonico 4/4) collegando le altrimenti sconnesse parti di Omar. Al basso c'è, per la prima ed ultima volta, Eva Gardner, autrice per altro di una performance più che discreta. Fondamentale è anche il tappeto sonoro steso dal tastierista Isaiah Owens, che sostituisce idealmente la chitarra ritmica nel suono della band, senza mai eccedere in virtuosismi eccessivi. Viene dato credito anche a Jeremy Ward, sesto membro della formazione, cugino di Jim ormai passato agli Sparta, che in studio si occupa della manipolazione digitale del suono e, a fronte del palco, siede davanti al mixer recitando la parte del Sinfield dei King Crimson.

Le tre tracce che compongono questo breve Ep anticipano le strutture del primo full-lenght che arriverà solo nel 2003, dopo una tournée di supporto ai Red Hot Chili Peppers. Proprio Flea sostituisce al basso Eva Gardner nelle registrazioni del nuovo disco, e lo fa mettendosi completamente a disposizione della band, rinunciando al suo tipico stile funky. L'album prende la forma di una sorta di opera rock dedicata alla vita e ai tempi di Julio Venegas, un giovane artista amico di Bixler-Zavala che uscito dal coma dopo un incidente o dopo un flirt eccessivo con la droga, sceglie di ritornare in quello stato per rivivere le sensazioni e le visioni avute durante i suoi giorni di ricovero (ma in realtà vi sono numerose interpretazioni, nessuna veramente definitiva, del plot del disco).

Le cure dell'album, intitolato De-Loused In The Comatorium, sono affidate al guru Rick Rubin, e sono in linea con le sue produzioni sovraccariche e ridondanti degli ultimi anni (in particolare, da "Californication" a oggi), e lontane anni luce dall'essenzialità delle soluzioni che hanno reso famoso lo stesso produttore. Se Tremulant suonava ancora grezzo e sporco, e quindi riallacciato ancora agli At The Drive-In, Rubin stacca definitivamente questi fili e rilancia la band verso un suono corposo e multisfaccettato.
Il disco non è ancora uscito quando la band si trova a fronteggiare la prima crisi: Jeremy Ward viene trovato morto per overdose nel suo appartamento, e lascia un vuoto per molto tempo lasciato incolmato nella formazione dei Mars Volta, e dei De Facto, il progetto dub dei componenti del gruppo.
De-Loused In The Comatorium esce per la Gold Standard Label (in realtà distribuito dalla major Universal) nell'estate del 2003, e viene accolto da positive recensioni e da forti critiche: la band divide sin dal principio. La voglia di osare senza rinunciare a riferimenti precisi al progressive dei primi anni Settanta (Yes, Van Der Graaf Generator, ma non solo) risulta eccessiva per gli ascoltatori di rock più tradizionale, e manna dal cielo per chi da tempo attendeva un altro grande gruppo progressive-rock.
In realtà lo stile dei Mars Volta è piuttosto personale e di difficile accostamento a qualsiasi altra band specifica, ma nonostante l'approccio punk e il fattore improvvisazione sovra-menzionato, è chiaro che canzoni dalle strutture se non complesse, quantomeno inusuali per il periodo come "Take The Veil" o l'infinita "Cicatriz Esp" - che nella parte centrale ricorda il labirinto sonoro di "Moonchild" dei King Crimson - siano certamente da definire progressive. Una discreta dose di psichedelia, data dal personalissimo coniare nuovi vocaboli da parte di Bixler-Zavala, unita alla forma concettuale dell'opera rock, eliminano ogni possibile altro dubbio sulla catalogazione della band.
L'album riesce a fondere la psichedelia all'hardcore, non rinunciando a rincorrere melodie epiche raggiunte dopo passaggi intricati e versi dinamicissimi. E' il caso di "Roulette Dares", il cui chorus sopraggiunge evocato da un riff di chitarra pomposo e solenne, neanche fosse tirato fuori dal manico della chitarra di Brian May. Diverso è il paesaggio sonoro di "Televators", un lento postmoderno in cui è la voce di Cedric Bixler-Zavala a farsi carico di tutta la melodia. Voce che per tutto il disco si mantiene su tonalità altissime, anche grazie ad effetti vocali che ne alzano appunto il tono: dal vivo il cantante dei Mars Volta difficilmente riesce a reggere simili altitudini, segno che la voce, già tenue di suo, è probabilmente registrata e poi suonata tramite computer a una velocità superiore per ottenere questo risultato. Se c'è il trucco c'è l'inganno, ma agli ascoltatori non è sembrato interessare più di tanto: l'artificio è forse il mezzo per raggiungere la sensibilità di alcuni.

Con De-Loused In The Comatorium i Mars Volta si propongono come una delle migliori realtà rock del momento, guadagnandosi il rispetto di molti e rubando fan dai delusi di System Of A Down, Muse (di cui i Mars Volta potrebbero anche essere la versione ottimizzata e riuscita), e coinvolgendo i revivalisti del prog. Probabilmente non raggiungeranno mai lo status di band fondamentale del proprio periodo, né, anche alla luce del capitolo successivo, il livello qualitativo e lo spessore artistico di una band come i Tool, ma De-Loused In The Comatorium è certo un'opera rock di riferimento per il semplice e mai banale fatto che propone uno stile unico, probabilmente non replicabile. I Mars Volta sono riusciti nella loro impresa già col primo album: creare qualcosa di personale e farlo apprezzare al pubblico. Non è impresa da tutti.

Non c'è nemmeno tempo per rifiatare che diversi mesi prima della sua uscita, complice forse un'astuta strategia di marketing, il secondo episodio della saga è preventivamente iniziato a circolare in internet. L'album si chiama Frances The Mute (2005) ed è anch'esso un'opera rock di ancora dubbissimo significato, sebbene gli appassionati si siano scervellati in pindariche interpretazioni.
Non spaventa di certo la scaletta del disco, che è palesemente impostata secondo la regola delle suite di marca progressive, quanto il collage sonoro impostato dalla produzione dello stesso Rodriguez-López: l'album risulta in diversi punti il copia e incolla di una serie di bozze slegate e forzatamente accostate, in una sorta di cubismo sintetico fatto di papiers collés di materiali di diversa provenienza. A polarizzare l'attenzione non è più la melodia o il ritmo irrefrenabile dei brani, ma gli spunti accennati e poi abbandonati che fanno capolino qua e là in ogni brano del disco, che delude mediamente anche la critica, oltre che una buona fetta di fedeli della prima ora.
La fascinazione latino-americana è esaltata in "L'Via L'Viaquez", in cui perlomeno l'intuizione non è fine a se stessa, ma riconduce a una realtà vissuta e forse sofferta. Non riuscita è invece la raccolta di segmenti operata in "Cassandra Geminni", circa trenta minuti di caos tutto meno che geniale e razionale. Anche nell'unico brano in un certo senso formale del disco, vale a dire "The Widow", i Mars Volta perdono il confronto con loro stessi, quelli del recente passato ("Televators" nello specifico).
Vi è inoltre la title track, pubblicata nel retro del singolo di "The Widow", che poco potrebbe aggiungere allo scenario di un album in cui i Mars Volta hanno gettato la maschera, rivelando i loro intenti progressive ma rimanendo prigionieri delle proprie pretese in un infruttuoso autolesionismo.

Ancora improvvisazioni, unite a meno di una manciata di pezzi vecchi, vengono proposte nel live Scabdates, disco deludente per i più e che ha il solo merito di immortalare degli sporadici sprazzi dell'energia che la band riesce a sprigionare dal vivo. In ogni caso, un album dal vivo assolutamente prematuro e trascurabile, da parte di una band che sembra aver perso le migliori idee, rincorrendo il sogno di grandezza che li ha spinti verso un'incontrollabile involuzione.

Nel 2006 esce infine un nuovo lavoro, con John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers alla chitarra per buona parte dell'opera, registrata anche stavolta in tutta fretta durante le ultime date del tour di Frances The Mute. Ma sorgono già dubbi sulla necessità dell'apporto di un Frusciante ormai più personaggio out che artista degno delle attenzioni che riceve, soprattutto dopo il suo rientro da salvatore della patria in "Californication".
In buona sostanza, si tratterà di assistere a una risalita artistica più o meno concreta del duo Rodriguez-López/Bixler-Zavala, o immedesimarci nella parte di Dedalo, e recuperare il corpo di Icaro che per smania di grandezza è affogato in mare dopo essersi è bruciato le ali in volo, avvicinandosi troppo al sole.

Non c'è nemmeno il tempo di riprendere il fiato dall'immersione nel progressive psicotico e ad ogni costo visionario di Frances The Mute, che il duo Rodriguez-López/Bixler Zavala sforna il terzo capitolo della saga Mars Volta (il quarto se si tiene conto del trascurabilissimo album dal vivo Scabdates), iniziata con grandi clamori e forse destinata a un misero epilogo, vista la recente dipartita del batterista Jon Theodore, fino a oggi autentico cuore pulsante della formazione, in grado di avviluppare attorno a sé le performance degli altri strumentisti e di dirigere le altrimenti disordinatissime idee dei due leader-cervello del gruppo.
Amputechture (2006) si presenta senza sorpresa alcuna come nuovo altezzoso opus magnum, replicando lo schema del suo predecessore e rilanciando la sfida al rock più schematico in nome dell'improvvisazione e dell'irrazionalità. In realtà è album che amplifica e insegue più di una intuizione nascosta nel caos sonoro di Frances The Mute, ma che fallisce in modo biasimevole qualsiasi obiettivo presupposto.
L'opera, che vede l'ingente e allo stesso tempo anonimo intervento di John Frusciante - non uno spunto degno del suo illustre e ormai remoto passato in tutto il disco - sotto lo sguardo dell'amico Omar Rodriguez-López che si è messo in testa di fare da regista per l'occasione, inizia con un'improbabile canto alla luna: in "Vicarious Atonement" Cedric Bixler Zavala segue le note eccessivamente cariche di pathos della chitarra elettrica vestendo i panni di Robert Plant per oltre sette lunghissimi e insignificanti minuti di noia gratuita. In tutto il disco, composto di otto tracce, saranno tre le canzoni in cui è assente qualsiasi elemento percussivo, per un totale di circa ventitrè minuti di musica senza la presenza di Theodore dietro le pelli, probabile segnale che le frizioni o comunque i problemi interni al gruppo fossero cominciati ben prima della registrazione di questo album, tanto che è lecito domandarsi se fosse così necessaria e non prematura la sua pubblicazione. In fondo è lo stesso dubbio che molti ebbero di fronte allo straripamento sonoro del precedente album, che certo poneva in tavola fin troppa carne cruda.
Gli spunti interessanti che avevano affascinato i cultori del progressive sono tuttavia presenti anche in Amputechture, in particolare "Tetragrammaton", prima di perdersi in lirismi e falsetti traboccanti, sintetizza - per modo di dire, visto che supera i quindici minuti di durata complessiva - in un unico brano le soluzioni stilistiche di questi Mars Volta, che certo sono difformi dagli At The Drive-In, ma anche dalle buone trovate proposte in De-Loused In The Comatorium. Proprio da quest'ultimo sembra provenire "Vermicide", unico brano grossomodo formale ma riuscito fino in fondo di questo disco, tecnicamente opposto alle suite (o pasticci?) progressive di "Meccamputechture" e di "Days Of The Baphomets", dove sarebbe stato più utile isolare le parti melodicamente interessanti per costruirvi intorno canzoni magari altrettanto estese ma più a fuoco.
Il tema dell'album è la descrizione dell'illuminazione religiosa, qualunque essa sia, e quindi di una ricerca quasi kandinskijana dello spirituale nell'arte, ed è curioso osservare come per un contenuto che ispira riflessione e stasi meditativa, e che negli anni è stato trattato con profitto da numerosi artisti di ogni genere e sottogenere della musica contemporanea, i Mars Volta si affidino all'improvvisazione in studio e all'utilizzo di una strumentazione vastissima che inevitabilmente non riescono del tutto a configurare e a gestire in prima persona.
Suonano per giunta approssimativi e fuori tempo massimo i riferimenti a certo esoterismo ed occultismo (nonché a tratti mutuati dal lessico tooliano e non di Keenan) sparsi qua e là più come specchietto per le allodole che altro: non vi è infatti dimostrazione di alcuna autentica ricerca spirituale da parte di Bixler Zavala, che fra l'altro appare in grado di ammaliare maggiormente nel cantato in spagnolo, come nei versi accorati di "Asilos Magdalena".
Lo spettro dei Muse si aggira - ma onestamente senza mai prendere il sopravvento - nel singolo "Viscera Eyes", che tuttavia si mantiene per tutta la sua durata su discreti livelli di ispirazione, mentre "El Cervo Vulnerado" - forse per puro citazionismo - mutua il titolo da una delle più note opere della pittrice messicana Frida Kahlo, riprendendo un po' l'atmosfera stagnante dell'opening di "Vicarious Atonement", quindi chiudendo il cerchio di un'opera che a primo impatto sembra da sviscerare e assorbire lentamente come la precedente, ma che a conti fatti lascia la sensazione di essere inconcludente e prematura.

Prevedibile addirittura - e in tal caso erronea a questo punto - l'eventuale rivalutazione da parte di alcuni di Frances The Mute, visto che Amputechture ridimensiona fortemente la valenza e lo status artistico dei Mars Volta nell'ultimo biennio.

I Mars Volta ci riprovano poco più di un anno dopo con The Bedlam In Goliath, che riporta Omar e la sua band su binari più canonici. Se vogliamo dirla tutta, Cedric Bixler Zavala si impegna a fondo per nauseare l'ascoltatore innocente coi suoi falsetti e acuti improvvisi, spesso filtrati con effetti da videogioco arcade dei primi anni Novanta. Quando le vertigini vocali si placano, c'è spazio per numeri di classe e buon gusto come il pregevole arrangiamento di "Soothsayer", degno dei King Crimson più romantici: uno dei migliori momenti nella discografia del gruppo.
La parte più interessante del disco è il trittico conclusivo, in cui c'è anche un netto rallentamento dei tempi e quindi del tribalismo apportato dal nuovo batterista Thomas Pridgen, sostituto altrettanto animalesco del depennato Jon Theodore. Il talento del giovane sembra avvalersi fin troppo dell'utilizzo dei piatti ride/crash che inevitabilmente bruciano dei dettagli del ricco sottobosco sonoro, in particolare il produttivo lavoro al basso di Juan Alderete.
Il minutaggio dei pezzi è più contenuto del solito, ma non mancano le tanto amate occasioni per divagare sul tema: "Cavallettas" include anche un ormai neanche tanto sorprendente, viste le attitudini, flauto à-la Jethro Tull; "Metatron" sembra colpevole degli stessi errori commessi in Amputechture. Convince, invece, il ritmo ballabile al sapor latino di "Ilyena", e soprattutto il solenne concludersi dell'iniziale "Aberinkula".

The Bedlam In Goliath segnala i Mars Volta come una band ancora viva nel 2008, eppure manca quell'effetto sorpresa che sconvolse in positivo o in negativo chi tentò il primo approccio alla loro musica. Paradossalmente da album del rilancio, il nuovo della ditta Omar&Cedric potrebbe trasformarsi in quello che segna la fine dei sogni rivoluzionari del duo.

L'inarrestabile smania di pubblicare album, che da tempo contraddistingueva la carriera solista di Omar Rodriguez-Lopez, pare ora essersi definitivamente estesa all'esperienza Mars Volta, che ad un anno di distanza da The Bedlam In Goliath consegna alle stampe il suo quinto full-length. Per via della breve durata e delle sonorità molto simili al predecessore, Octahedron potrebbe quasi essere scambiato per una raccolta di scarti del suddetto - che ne avrebbero di certo appesantito ulteriormente la mastodontica mole. Lo testimonia anche la qualità di alcuni brani un poco autoreferenziali ("Desperate Graves", il furibondo singolo di lancio "Cotopaxi", "Copernicus"), che invece di riproporre in nuova guisa la camaleontica formula del gruppo ne segue le orme senza troppo sforzo.
La ballata introduttiva "Since We've Been Wrong" e la delicata atmosfera neo-folk/progressiva di "With Twilight As My Guide" sono gli unici due momenti convincenti (e perché no, emozionanti) di una release che si divide tra buon mestiere - carattere vincente della formazione, ad oggi mai del tutto fallimentare - e l'accidia artistica di chi, pur non avendo reale necessità di vendere altri dischi, desidera nutrire in tutta fretta la propria discografia, far sentire una "presenza scenica" costante al suo pubblico. Si spera di tutto cuore che Octahedron sia solo un gradino minore dell'inusuale storia musicale di Rodriguez-Lopez e soci e del talento di un gruppo del quale non è (ancora) il caso di dubitare.

Nel 2012 la band rialza le sue quotazioni con Noctourniquet, disco in cui i Nostri riescono a definire finalmente i caratteri del nuovo corso mescolando orecchiabilità e spigolosità in parti uguali.
Sostituito il batterista David Elitch con il vecchio "amico" Deantoni Parks, i due leader Omar Rodriguez-Lopez e Cedric Bixler-Zavala rialzano, dunque, la testa mostrandosi desiderosi di sperimentare nuovi percorsi sonori, confezionando l'ennesimo florilegio di apoteosi e tonfi repentini, incapaci, come sempre, di essere banali e prevedibili.
Per questa nuova fatica, Cedric si è divertito a coniare il termine "future punk" e ci potrebbe anche stare, se soltanto si riuscisse a non pensare alla visceralità brada di quel genere settantasettino e alla sua primigenia distanza dalle complesse elucubrazioni del prog. Eppure, i Mars Volta sono quello che sono anche e, soprattutto, per gli accostamenti arditi, per la voglia di rischiare senza starci troppo a pensare. Insomma, "Noctourniquet" non nega ciò che la band è stata, passa solo ad un nuovo livello.
Le ritmiche angolari e le bordate di synth di "The Whip Hand" aprono, dunque, le danze, catapultandoci in uno scenario futuristico (per l'appunto...), mantenuto intatto anche da numeri quali "Lapochka", "Dyslexicon" (in cui l'elettronica dissimula rabbia, imponendo la sua carica visionaria), dalle astrazioni psichedeliche di "In Absentia" e dalla stessa title track, emblema del continuo bilanciamento tra la stratosfera dell'ambizione e la terraferma di un melodismo di maniera (la loro...).
A colpire, è soprattutto la volontà di Cedric di ampliare/ridefinire il ruolo della sua voce: una voce sempre duttile, ma qui decisamente più "soffice", controllata, insomma "matura", anche se non esente da quei guizzi in falsetto che qualche volta suonano un po' fuori luogo. Lo si ascolti in ballate dell'iperspazio come "Empty Vessels Make The Loudest Sound", "Vedamalady" (la cui intro fa pensare a quella di "Baba O'Riley" degli Who) o in quell'ottima commistione di fantasmi reggae e ombre post-punk che è "The Malkin Jewel" e si avrà intatto il senso complessivo dell'operazione, in bilico tra ammaliante, malinconico romanticismo e accenti camaleontici.
Nella seconda parte del disco, soprattutto nel finale, l'ispirazione va scemando (con picchi negativi quali, ad esempio, "Trinkets Pale Of Moon" o quantomeno confusionari - "Zed And Two Naughts"), tra tanto mestiere e poca carne al fuoco.

All'inizio del 2013, però, arriva la doccia fredda: uno sfogo, più che un annuncio ufficiale, quello con cui, dal suo profilo Twitter, Cedric Blixer Zavala ha annunciato lo scioglimento dei Mars Volta. Una lunga e rapida serie di tweet, in cui la posizione del cantante della band californiana appare ben chiara, e che non risparmia attacchi al co-fondatore del gruppo, Omar Rodríguez-López, reo di aver disperso le energie necessarie al gruppo in altri progetti.
Battibecchi protrattisi a lungo, progressivamente levigati, come ovvio che sia, tanto da portare il duo al riavvicinamento dapprima con il progetto Antemasque del 2014, poi bissato con la reunion degli At The Drive-In, documentata dall'album "In•ter a•li•a" del 2017.

Era solo una questione di tempo, quindi, ed ecco venire alla luce dopo dieci anni la tanto agognata rimpatriata. The Mars Volta (2022), titolo omonimo decisamente emblematico, segna il ritorno ufficiale del duo di El Paso, ed è un ritorno decisamente spiazzante. Il risultato è paragonabile a quello che si ottenne al cospetto del loro esordio full length, quando disintegrarono ogni afflato post-hardcore con De-Loused In The Comatorium, che nel 2003 lasciò i seguaci esterrefatti, sorpresi nel non trovare un segno di continuità con l’aggressivo repertorio del passato.
La loro inimitabile mistura di fragranze resta un marchio di fabbrica chiaro, ma è innegabile che nei quattordici brani che compongono questa sorprendente rimpatriata, siano decisamente lampanti le stimmate della massima accessibilità, e non solo per la durata dei brani, che non supera praticamente mai i quattro minuti o per la presenza di strofa e ritornello in quasi tutti gli episodi.
Il bello è che tutto sembra funzionare alla grande.
Le parti cantate in inglese e spagnolo da Bixler-Zavala (come al solito autore anche dei testi, anch’essi velatamente più immediati rispetto al passato) non sono più relegate in secondo piano,  ma sono parificate a quelle strumentali ideate dal sempre magistrale Rodríguez-López, egregiamente coadiuvato dal fratello Marcel (sintetizzatori e percussioni), da Eva Gardner al basso e dal virtuoso Willy Rodriguez Quiñones alla batteria.
Nei singoli apripista "Blacklight Shine" e “Graveyard Love”, i modelli comandati da Rodríguez-López conservano una forte influenza latineggiante, che prevarica la strumentazione propriamente rock, e se da un lato si nota una netta semplificazione delle strutture armoniche, dall’altro sembra che il duo voglia comunque concentrare in un ridottissimo minutaggio tutto l’estro che li ha sempre contraddistinti. Un rischio (calcolato?) decisamente significativo e suggestivo.
Il terzo singolo lancio è “Vigil”, dei tre quello meno spigliato perché parco di succulente intuizioni, ma ci si rialza abbondantemente con “Blank Condolences”, un taglio di tre minuti e mezzo che potrebbe essere preso a riferimento assoluto su come incasellare l’art-pop odierno, un brano ammiccante che tra percussioni dispari, eleganti linee di sintetizzatore e svisate chitarristiche si eleva tra i pezzi trainanti in scaletta.
I momenti salienti sono molteplici: "Cerulea", che possiede il ritornello più autorevole dell'intero album, il folk-prog sixties di "Palm Full Of Crux", con tanto di mellotron e minaccioso refrain, l’acustica ariosità di "Tourmaline" e gli atipici quanto saporiti saliscendi di “Flash Burns From Flashbacks” e “No Case Gain”, brano, quest’ultimo, che in poco meno di tre minuti attraversa mutamenti di tonalità e genere senza mai apparire pretenzioso o sconclusionato.

I Mars Volta hanno realizzato un disco rassicurante, seppur divisivo, ma che non prescinde dal comprendere tonnellate di classe e qualità. Non c'è una traccia che possa definirsi fine a se stessa, perché il concetto di base che lega “The Mars Volta” esula, questa volta, da velleità forzatamente di ricerca e di esperimento.
Questa nuova incarnazione della band è diametralmente opposta alla precedente, ma in grado di regalare un disco che - sia consentito usare questi termini per Omar e Cedric – appare più fruibile e se vogliamo più ordinario, conservandosi di livello superiore alla media.

A distanza di qualche mese, nell'aprile del 2023, Omar e Cedric mettono sul piatto un'ulteriore, inconsueta, prova dall'alto gradiente d'audacia.
In Que Dios Te Maldiga Mi Corazon, i tredici brani che avevano composto l'omonimo album del 2022, vengono completamente rivisitati in chiave acustica, con forti venature latineggianti, con chiaro riferimento alle radici dei due artisti.
Si prenda ad esempio la title track, un brano che esplica alla perfezione la strategia stilistica dell’intero progetto. Una salsa disaccoppiata, che già aveva fatto capolino nell’adattamento originale, è qui allargata a tutti i più ballabili aromi caraibici.
In fraseggi tecnici di questo tipo, le percussioni occupano obbligatoriamente un ruolo trainante: congas, clave, timbales, tamburelli, djembes e bonghi, si avvicendano alle costruzioni pilotate dalla chitarra acustica di Rodriguez-Lopez, talvolta anche dal pianoforte (“Shore Story”).
Istanze quali “Blank Condolences” e “Equus 3“, sono adattate su ritmiche asincrone intersecate in modo irregolare da fiati, archi digitali e mellotron governati dallo stesso Omar e da suo fratellino Marcellus, oltreché dai tocchi del contrabbasso di Eva Gardner, protagonisti che vanno a completare un telaio sonoro che gronda di passione e solo apparentemente appare più semplificato rispetto alle versioni originali.
Que Dios Te Maldiga Mi Corazon è l’ennesimo audace esempio dell’arte sciorinata dai Mars Volta, sempre più lontani da ciò che li ha resi il riferimento assunto nel tempo, ma non meno arditi nel presentare con personalità una propria attuale visione artistica e comunicativa.

 

Contributi di Michele Palozzo ("Octahedron"), Francesco Nunziata ("Nocturniquet") e Cristiano Orlando ("The Mars Volta" e "Que Dios Te Maldiga Mi Corazon")