I Tool si formarono a Los Angeles nel 1991, in piena era grunge. Il cantante Maynard James Keenan, il batterista Danny Carey, il chitarrista Adam Jones e il bassista Paul D'Amour riuscirono a forgiare un sound terrificante, claustrofobico, ideale colonna sonora per la pazzia di un detenuto confinato nella cella di isolamento. E' una musica altamente psicologica, che sembra voler schiudere gli anfratti più nascosti della psiche umana, dove il male cova in attesa di essere scatenato da un stimolo esterno. Il sound dei Tool non si limita riprodurre gli insegnamenti dei maestri degli anni 70 (certamente Led Zeppelin, Black Sabbath e Blue Oyster Cult), ma assimila i caratteri di un una serie di band che hanno fatto la storia degli ultimi 20 anni di rock estremo.
L'aggressività dei Metallica, la tenebrosità degli Swans, la barbarie dei primi Soundgarden, la tediosità dei Godflesh riecheggiano in un mosaico sonoro altamente spettacolare, un po' in antinomia con l'intento della band di fare musica esistenziale. Ciò che distingue i Tool dalla miriade di gruppi "duri" che popolano le classifiche in quegli anni, è il recupero di certo progressive anni 70, che si avverte già nelle prime composizioni, ma che si paleserà innegabilmente nell'ultimo album, Lateralus.
L'Ep Opiate del 1991 contiene 6 pezzi, due dei quali ("Cold and Ugly" e "Jerk-Off") sono registrati dal vivo. Il sound è ancora succube del grunge e dei Led Zeppelin, come dimostra l'iniziale "Sweat". "Part Of Me" è una cavalcata quasi progressive dove il basso è in primo piano. In generale, in questa prima uscita, più che il canto teso e vibrante di Keenan, è la sezione ritmica a farla da padrone. Carey imbastisce ritmiche a rotta di collo, mentre D'amour, in alcuni punti ("Jerk-Off") si esibisce in virtuosismi degni di John Myung (Dream Theater). Il sound è frenetico e compatto allo stesso tempo.
Con Undertow, i Tool raggiungono uno stile personale e riconoscibile. Il sound rallenta e s'incupisce ulteriormente, come dimostra "Swamp Song". L'anima blues e passionale della band è presente, ma difficilmente decodificabile, in quanto immersa in un'orgia di distorsioni e ritmi marziali, come in "4°". In "Flood" è, invece, l'anima progressive a uscire finalmente allo scoperto; per i primi 4 minuti gli strumenti disegnano un affresco di dolore e disperazione, ulteriormente scurito dal lamento metafisico di Keenan; il tutto sfocia poi in un rabbioso hard-blues. "Desgustipated" è un lungo calvario industriale alla Einsturzende Neubaten, dove clangori metallici e suoni di presse accompagnano Keenan, che più che cantare, sembra scandire i ritmi del lavoro a una moltitudine di operai alienati. E' il pezzo più originale della raccolta. "Intolerance", "Prison Sex", e "Undertow" sono, invece composizioni più convenzionali, dove a risaltare è l'aggressività dello shout portentoso di Keenan, che si avventa famelico su ogni nota, dotando il sound d'insieme di una pomposità drammaturgica.
Dopo circa quattro anni (nel mezzo dei quali D'amour venne sostituito al basso da Justin Chancellor) i Tool pubblicano il secondo album. Se Undertow aveva rappresentato l'apice formale della band, Aenima è qualcosa di diverso. Segna il superamento del classico formato di canzone rock (che pure aveva accompagnato i Tool fino ad allora), ed è l'approdo deciso verso territori più marcatamente progressive. L'angoscia e il dolore sono veicolati da lunghe suite, intervallate da intermezzi strumentali che raccordano i vari movimenti. "Third Eye" e "Die Eier Von Satan" sono l'emblema della sperimentazione a cui sono arrivati i Tool. Il singolo "Stinkfist" è l'episodio che più ricorda il vecchio stile, mentre in "Eulogy" si fatica a trovare un baricentro, tanti sono i cambi di ritmo.
Beghe legali ritardano l'uscita dell'album, e ci vogliono cinque anni per ascoltare il nuovo dei Tool, ma l'attesa non è tradita. Lateralus (2001) è un album tanto perfetto quanto profondo. I ragazzi sono all'apice della forma e la scintillante produzione di David Bottril riesce a far risaltare il suono di tutti gli strumenti, anche nelle fasi più caotiche. Lateralus è un album di puro progressive rock; è l'album che porta il progressive rock nel 2000, che tenta di svecchiarlo, donandogli una nuova veste, quella del metal alternativo. Pensate alle suite dei King Crimson trasfigurate da suoni metallici, ritmi devastanti, accordi dissonanti; quello che ne risulta è la fine del modo, e Keenan ne è il profeta. Ciò rende la filosofia dei Tool più vicina al pessimismo esistenziale dei Van Der Graaf Generator che al romanticismo esotico dei King Crimson.
L'album si apre con l'imponente "The Grudge", che cresce lentamente per per poi esplodere. Gli strumenti producono una ritmica tribale su cui si innesta la voce di Keenan, prima calma, poi arrabbiata, poi feroce. "The Patient" e "Schism" hanno la stessa struttura: inizio calmo, costante crescita, esplosione e cambi repentini di ritmo, catarsi finale. Sembra che Keenan voglia penetrare nell'animo umano per poi rivoltarlo dall'interno. "Parabol" è il lamento di un monaco tibetano, e prepara il terreno a "Parabola", che invece martella dall'inizio alla fine. "Disposition", è la più calma del lotto, ma allo stesso tempo la più minacciosa; Keenan biascica parole su un tappeto melodico tessuto dall'intreccio dei vari strumenti, che sembrano dialogare tra loro. Nonostante la lunghezza complessiva e la non facile assimilazione dei brani, il disco si lascia ascoltare, in quanto ogni composizione prepara il terreno alla successiva, destando curiosità per ciò che verrà dopo.
Lateralus è il capolavoro dei Tool, un album distante anni luce dalle premesse iniziali, il disco che dimostra il talento e la creatività dei musicisti.
Nel frattempo è nato il progetto A Perfect Circle, nato dalla mente del tecnico del suono Billy Howerdel (già dietro a Smashing Pumpkins e Nine Inch Nails) e dal suo incontro con Maynard. Il supergruppo viene completato da Troy Van Leeuwen (ex Failure), Josh Freese (già con Paul Westerberg) e dalla bassista Paz Lenchantin. Pubblica nel 2000 Mer de Noms, un album di grunge futuribile, dove i richiami agli stilemi del genere sono evidenti, ma dove il tutto è immerso in ritmiche industriali, sonorità avant-garde e atmosfere progressive-rock, e nel 2004 Thirteenth Step, maggiormente raffinato e influenzato sia dal progressive che dai Tool.
Nel 2006 il nuovo capitolo della saga-Tool, con 10000 Days. La forma caotica e circolare viene aggredita da un'urgenza espressiva che nei dischi precedenti non si era mai incontrata in modo così chirurgico come nella traccia d’apertura: "Vicarious" si accosta a un turbine in crescendo, in un'apocalisse che si manifesta nella spietatezza retorica (ma non banale) del testo, un j’accuse sullo scempio mediatico del dolore. La religiosità di Keenan che cozza contro la brutalizzazione, per coniugarsi con un’aggressività strumentale più secca e nuda, un vortice potente che stupisce laddove la voce scandisce come un motivetto pop "La, la, la, la, la, la-la-lie", portando sullo stesso piatto il ridicolo e la stupidità. La ruvidezza del suono e la continua costruzione-decostruzione ricorda i Meshuggah tanto quanto gli Slint e il movimento "post"; e se i primi possono essere chiamati in causa per "Jambi", sorta di "Pushit" del nuovo millennio, carica di aggressività animale e ambivalenza tra rabbia e amore, tutta l’esperienza post-rock viene invece riletta dai Tool nella title track (in due movimenti), che rappresenta uno dei picchi artistici ed emotivi del gruppo.
"10000 Days": diecimila giorni per 27 anni di dolore. Un brano incentrato sul profondo rapporto di Keenan con la madre Judith, con la voce sussurra e scandisce i versi intrisi di gratitudine e disperazione: "Didn’t have a life. But surely saved one". La rarefazione degli strumenti ricorda le atmosfere eteree dei Labradford, che vengono poi caricate di pathos nella seconda parte, in cui il ritmo diventa nervoso e incalzante; il pulsare di batteria e basso in crescendo assieme alla chitarra di Adam Jones costruiscono un ambiente paranoico e claustrofobico, in cui si dibatte la necessità di riappacificazione con il proprio passato da parte di Maynard. È questa la chiave di lettura per ciò che precede e segue nel disco; appare chiaro come tutto sia volto a celebrare e ritualizzare un rapporto madre-figlio difficile e turbolento, e per la prima volta i testi mostrano chiaramente un lato umano estremamente sensibile, un impatto emotivo violento e senza compromessi lirici.
Da qui si snoda un percorso di autoanalisi, in cui vengono rivissuti tutti gli ostacoli e le difficoltà di relazione, ed è emblematico l’esempio di "The Pot" in cui lo stesso Keenan fa il verso alla madre in apertura di canzone, per poi scendere in un inferno sonoro che strizza l’occhio al post-core e ad accelerazioni vicine, per irruenza, a Lateralus. Proprio dal disco precedente sembra essere uscita la base costruttiva di "Rosetta Stoned", dove il drumming torna a essere potente e continuo, alternando, con modalità forse un po’ troppo di maniera, momenti di tensione con dilatazioni ritmiche, sui cui fluiscono come un magma le parole e i riff serrati della chitarra di Adam Jones.
Il trittico finale, come da prassi, rappresenta un leggero distacco sonoro dal resto dell’album. La litania di "Intension" è un lento addio agli incubi che avvolgevano le precedenti tracce. Percussioni africane e un basso morbido costruiscono un tappeto per la nenia recitata: il distacco avviene totalmente, e proprio nell’ottica del tornare in sé stessi si sviluppa "Right In Two", la parte razionale cerca i perché di tutto quel che è successo; in un crescendo parallelo tra consapevolezza e potenza del suono, vengono riprese le percussioni e il panorama sonoro si dilata, divenendo una scia in cui Keenan ripete la frase "cutting our love in two", a simboleggiare la necessità dell’abbandono. La chiusura è affidata all’indecifrabile "Vigenti Tres", nella quale si rinnovano rumori somiglianti a un respiro affaticato e stanco, o forse altro. Su questo si sveneranno i cervelli dei codificatori tooliani, sebbene questo disco si presenti molto meno ermetico dei precedenti.
La svolta verso un suono più diretto e comunicativo è palese, così come la capacità di creare una proposta unica sul panorama musicale attuale. A evolversi è il modo di comunicare, e con questa ennesima svolta i Tool marchiano a fuoco una decade esatta, cominciata nel 1996 con Ænima.
Tra cause legali, annunci di rinvii, varie conferme poi smentite sulla data di uscita, velati attriti tra Maynard e il resto del gruppo e una certa goliardia nell'uso dei mezzi social per comunicare con i fan, i Tool ci mettono ben tredici anni prima tornare sulle scene con Fear Inoculum (2019).
L'album è corposo e mastodontico, con ben 86 minuti di durata, articolati in dieci canzoni di cui oltre metà oltre i 10 minuti e il resto composto quasi esclusivamente da interludi ambientali. Questa volta il gruppo si dedica a briglie sciolte a un sound meno alternative-metal e squisitamente in linea con il progressive-metal, cosa che gli americani non avevano mai fatto così esplicitamente. Il risultato è un lavoro cerebrale, articolato, fumoso e avvolgente. Nei pezzi chitarristici più stratificati si sente anche l'influenza del Dave Navarro dei primi due dischi dei Jane's Addiction. La produzione cerca di suonare oscura e secca, purtroppo rendendo compressi i suoni di chitarra e batteria, ma non troppo.
A farla da padrone sono lunghi intrecci strumentali, ai quali dà il La un Adam Jones mai tanto maturo e solido nelle parti soliste e che traina le canzoni. Jones è perfettamente in sintonia con il mood riflessivo e oscuro dell'album, ma all'occorrenza tira fuori riff più aggressivi che risultano vicini ai momenti più pesanti di 10,000 Days, prima di riabbracciare un sound maggiormente sofisticato. Justin Chancellor e Danny Carey invece sfoggiano una sezione ritmica mostruosa, tecnicissima ma sempre contenuta, senza divagare in virtuosismi sbrodolati. In generale il disco è guidato e dominato da Adam Jones, con Danny Carey spesso a rubare i riflettori con la sua disinvolta maestria e a riempire la sezione ritmica con performance percussive variegate e sperimentali, a volte ancora più creative nei suoni, negli incastri e nei numerosi cambi di tempo rispetto ai dischi precedenti, con giochi dinamici imprevedibili e al solito complessi e non scontati. Non è esagerato considerarlo uno dei migliori batteristi viventi. I tre sono il nucleo portante di tutto il disco e agiscono in sinergia come un corpo unico, anche se Chancellor stavolta compie un passo verso la penombra se paragonato a quant'era importante il suo apporto nei dischi precedenti.
Invece, a sentirsi poco è Maynard James Keenan, sia quantitativamente perché sono relativamente pochi i passaggi in cui interviene, sia qualitativamente perché la sua voce ha un'estensione più ristretta ed è molto meno potente che in passato, anche quando cerca di sfoderare urla impetuose. Occasionalmente Maynard cerca di seguire tonalità più soffuse ed effettate, per certi versi vicine alle linee vocali di "Eat The Elephant". In generale, l'impressione degli ultimi tempi è che il rapporto tra lui e il resto del gruppo si sia un po' raffreddato, o meglio che Maynard sembri più disinteressato e meno dedito ai Tool (preferendo concentrarsi sui Puscifer o sui redivivi A Perfect Circle). Ciò si ripercuote sull'espressività complessiva dei brani, dato che tutti sono ottenuti a partire da composizioni a sé stanti sulle quali l'istrionico frontman americano aggiunge poi la sua interpretazione canora, qui meno coinvolta rispetto agli standard del gruppo. Maynard suona molto più distaccato rispetto ai dischi precedenti, e in molte parti in cui la musica chiamerebbe la voce, preferisce stare in silenzio e far parlare gli altri strumenti, una scelta che molto più raramente aveva operato in precedenza. Con l'eccezione di "Culling Voices", pezzo che perderebbe tutta la sua potenza espressiva senza le grandiose linee vocali orientaleggianti e melodicamente cangianti, "Fear Inoculum" è decisamente un disco non incentrato su Maynard e in questo squilibrato rispetto ai precedenti. Eppure, gli esempi di "Pneuma" e "Invincible" in particolare mostrano come funzionare alla grande anche con questo schema, e le loro parti vocali, scelte tatticamente e con parsimonia, entrano immediatamente in testa. Rimane un eccellente vocalist, semplicemente nella sua carriera questa è tra le sue performance meno convincenti. I suoi testi sono particolarmente criptici, la tematica ricorrente sembra essere il 7, e per lo meno sono inclusi per la prima volta nella release.
La title track è in teoria anche il singolo d'anticipo del disco, resa disponibile tre settimane prima dell'uscita. Le atmosfere sono esotiche e vagamente psichedeliche, ricordando in questo i momenti più tribali di Lateralus (come la lunga "Reflection"). Si tratta di una meditazione buddhista zen sulla conquista del nemico (in questo caso la paura) senza ucciderlo, ma riconoscendolo e guardandolo fuggire. La progressione, che si svolge lenta e inesorabile come le spire di un serpente, viene enfatizzata dai rintocchi etnici di Carey e dalla voce delicata di Maynard, e sbocca poi in "Pneuma", meditata e cadenzata, fedele ai canoni dei Tool più riflessivi prima di sfociare in un prog-metal più bruciante, con gli ultimi 4 minuti (dallo stacco esotico elettro-etnico al climax cantato, il tutto percorso da un Carey al di là dell'umano) a costituire uno dei vertici compositivi ed emotivi del disco. I suoi iniziali umori tenui anticipano "Invincible", rarefatta e dalle percussioni ipnotiche e inesorabili, inizialmente mesmerizzante per poi susseguirsi in un crescendo lisergico che lascia il posto ai filtri vocali di Maynard e nella conclusione a un climax di riff distorti. La canzone parla di un vissuto guerriero, tornato sul campo di battaglia e "struggling to remain consequential", il che può essere letto come metafora del gruppo, o del fare arte in generale. Dopodiché evolve in una lenta, eccezionale progressione fino alla super-catchiness del riff tritasassi in cavalcata e poi dei fuochi artificiali chitarristici di Adam Jones. La maniera con cui la band sviluppa in crescendo i primi 8 minuti è magistrale, e trova un perfetto climax nel modo in cui poi stacca con l'intermezzo semi-sintetico e riattacca con calcolata furia. Così come nella title track, ipnotizza qui specialmente il lavoro di basso di Chancellor, che altrove in questo disco (al contrario che in 10,000 Days) ruba raramente la scena a Jones e Carey.
I toni enfatici esplodono poi nella maestosa "Descending", che per come inizia potrebbe essere un pezzo degli A Perfect Circle, salvo poi entrare in territori epici e trascendenti, con un uso delle progressioni armoniche a creare un picco di drammaticità forse anche fin troppo esplicito, ma se non altro con un Jones ancora una volta stratosferico. Come in "Pneuma", anche qui gli ultimi 4 minuti sono la parte migliore, e hanno dell'incredibile. È in effetti uno dei picchi compositivi di tutta la carriera per Jones, con le lunghe parti in cui si ritaglia un ruolo in primo piano e di cui ha chiaramente studiato in dettaglio maniacale ogni nota, dando vita a una prestazione d'impatto emotivo e con un'attenzione al dettaglio ai livelli di Lateralus e dei Jane's Addiction dei tempi d'oro.
"Culling Voices" rientra nei binari dei Tool più riflessivi e malinconici, con tonalità minimaliste e umori psicanalitico-esistenzialisti prima che subentri una chitarra cadenzata e psichedelica.
Il vertice del disco è indubbiamente la sezione "Pneuma-Invincible-Descending", il cuore espressivo e compositivo dell'opera. Domina lungo tutto il disco un mood che forse è il più maturo e oscuro di sempre del gruppo, perfino in confronto al precedente 10,000 Days - che, tolte le sue due title track, finisce incredibilmente per suonare post-adolescenziale in confronto a "Fear Inoculum".
"Chocolate Chip Trip" è invece un lungo intermezzo ethno/ambient, con un giro di sintetizzatore da atmosfera cyberpunk che apre e viene ripetut in loop, poi raggiunto da un lungo assolo di batteria di Carey, con tappeti percussivi minimalisti alla Steve Reich sfocianti in un fiume di rullate al cardiopalma.
"7empest", infine, è la suite più lunga dell'album (15 minuti) e mostra il lato più aggressivo dell'album: aperta da un arpeggio che ricorda "Frame by Frame" dei King Crimson, ha il climax in uno strepitoso assolo allucinogeno di Jones, che, tra riff semi-sludge e fraseggi effettati, si muove per tutto il pezzo tra King Buzzo e Vernon Reid; ma a parte questo, il brano suona come un patchwork di riff e idee mancante della scintilla compositiva unificatrice che gli dia un'anima: sembra voler andar incontro al manierismo e al fan service (con tentativi fin troppo espliciti di replicare ora "Vicarious" ora metà dei pezzi di Undertow) più che essere genuina, col risultato che dal basso alla voce, nonché in questo caso perfino al testo, ci sia una sensazione di stanchezza e compito per casa, rischio che a dirla tutta molti si aspettavano da questo comeback, ma in realtà fortunatamente assente dagli altri brani.
Dei brevi intermezzi ambient/elettronici, il dark-ambient thriller di "Legion Inoculant" si amalgama bene nel flusso e funzionerebbe bene nella colonna sonora di un lavoro di Lynch, mentre sono decisamente trascurabili "Litanie contre la Peur" e la conclusiva "Mockingbeat".
In tutto questo, però, manca un elemento importante: la portata rivoluzionaria, che aveva reso alcuni dei precedenti album dei Tool delle pietre miliari a cavallo tra i due secoli, qui lasciata stare a favore di un raffinato e sapiente consolidamento delle coordinate più complesse del gruppo. Fear Inoculum da questo punto di vista non soprende, risultando piuttosto un ottimo seguito dei momenti più progressivi di Lateralus e della compattezza adulta e oscura che domina su una buona parte di 10,000 Days. Una conferma che le doti compositive ed esecutive del quartetto non si sono affievolite con gli anni.
Contributi di Matthias Stepancich e Alessandro Mattedi ("Fear Inoculum")
Opiate EP (Zoo, 1992) | 6 | |
Undertow (Zoo, 1993) | 7 | |
Ænima(Volcano, 1996) | 7,5 | |
Salival (Volcano, 2000) | 6 | |
Lateralus (Volcano, 2001) | 9 | |
10,000 Days (Volcano, 2006) | 8 | |
Fear Inoculum(Volcano, 2019) | 8 |
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