L'incontro e la nascita dei Majesty
È il 1985, e nel Massachusetts, e precisamente nel prestigioso Berklee College of Music, tre ragazzi - il chitarrista John Petrucci, proveniente da una famiglia italo-americana di New York, il bassista John Myung, di origini coreane, ma nato a Chicago, e un diciassettenne autodidatta arrivato al Berklee con una borsa di studio, il batterista Mike Portnoy, anch'egli di New York - suonano insieme nel tempo libero per ore e ore nella sala prove del college, in maniera quasi ossessiva. Quando sono soli, nelle loro stanze, continuano ad affinare la propria tecnica fino all'inverosimile (John Petrucci rivelerà in seguito che arrivò fino a sei ore supplementari di esercizio al giorno, e che tale abnegazione fu la conseguenza dell'incontro col suo chitarrista preferito, Steve Morse, fondatore dei Dixie Dregs e che in seguito sarebbe diventato il chitarrista dei Deep Purple). I tre decidono di formare una band, che prende il nome Majesty, nome a quanto pare ispirato dal finale della canzone "Bastille Day" dei Rush; durante una esibizione del trio canadese infatti, Mike Portnoy apostrofò tale canzone come "majestic", trovando così il primo nome per il nucleo di ciò che da lì a qualche anno sarebbero diventati i Dream Theater.
Preso atto della propria volontà di concentrarsi sulla band che sta nascendo e sul proprio sound, i neonati Majestydecidono di lasciare il college e cominciare a suonare in giro per New York e dintorni, unitamente a Kevin Moore, compagno di scuola di John Petrucci ai tempi del liceo (nonché prima persona a incoraggiare John ad imbracciare seriamente una sei corde per farlo suonare con lui nella sua prima band) e virtuoso della tastiera, e al vocalist Chris Collins, in seguito sostituito da Charlie Dominici.
Il gruppo riscuote un sempre maggior successo nell'area di New York e nel New Jersey, arrivando anche a produrre diverse demo in cui si cimentano in cover degli stessi Rush, uno dei maggiori riferimenti dei Dream Theater dei primi anni (tali demo verranno ufficialmente rilasciati qualche anno dopo sotto il nome di "The Majesty Demos" dall'etichetta discografica fondata da Mike Portnoy, la Ytse Jam Records).
La popolarità underground della band, che nel frattempo, per evitare beghe legali (un altro gruppo rivendicava la paternità del marchio Majesty) cambia il proprio nome in Dream Theater, cresce, e nel 1989 arrivano il primo contratto discografico (con la Mechanic Records) e il primo album di inediti, When Dream And Day Unite.
Il disco soffre forse un po' troppo il peso delle influenze di una band chiaramente ancora alla ricerca di una propria identità, ma è al tempo stesso pieno di buoni spunti. In particolare sono da sottolineare "A Fortune In Lies", che suona subito la carica in virtù della riuscita intro di chitarra di Petrucci che si poggia sui beat scanditi prepotentemente dalla batteria di Portnoy, e "Another Hand/The Killing Hand", che si distingue per il riuscitissimo mix di parti strumentali e vocali, (oltre che per il testo, atto a richiamare immagini oniriche legate a temi eterni quali il bene, il male, la ricerca, la morte).
Altri brani degni di nota sono "Afterlife", che colpisce immediatamente per il ritmo calzante che si imprime istantaneamente nella mente e nell'orecchio di chi ascolta, e ovviamente "Ytse Jam". Quest'ultimo pezzo, tra i più riusciti dell'intera carriera della prog-band newyorkese, nonché tributo dei Dream Theater al primo nome della band (scritto al contrario) è un autentico capolavoro tanto musicale quanto tecnico, con diverse sezioni perfettamente collegate (se non addirittura comunicanti) tra loro, scandite da cambi di tempo che delineano un ritmo estremamente variegato, ritmiche folgoranti e interventi solistici di livello assoluto, con John Petrucci e John Myung su tutti. "Ytse Jam" diverrà assieme a "Metropolis Pt.1" tra i pezzi più richiesti (ed eseguiti) durante i live dei Dream Theater.
L'esordio discografico mostra una band dallo stile ancora acerbo, in cui le maggiori influenze - Rush e Queensrÿche in maggior misura e Iron Maiden, ad esempio per certe sezioni ritmiche - sono ancora ben presenti, ma al tempo stesso mette in evidenza le premesse per una possibile fioritura artistica, che non tarderà a mostrarsi nel successivo lavoro in studio.
When Dream And Day Unite, inoltre, dà dimostrazione dell'impressionante livello tecnico dei componenti del gruppo, che trova eguali in questo periodo forse solo nella band di David Lee Roth, nelle cui fila militano Steve Vai e Billy Sheehan. A tal proposito è sufficiente osservare gli "strumenti" da lavoro della band: Mike Portnoy diventerà un maestro nell'uso del doppio pedale, John Myung sfodererà negli anni il suo basso Yamaha a sei corde (eccetto che per un breve periodo in cui accuserà problemi alla schiena, durante il quale passerà all'uso del basso a cinque corde), mentre John Petrucci (che dopo un sodalizio durato diversi anni abbandonerà la sua storica Ibanez JPM100 per diventare nel 1999 endorser della Ernie Ball Music Man) arriverà, specialmente (ma non solo) durante il lavoro con i Liquid Tension Experiment, a un esteso utilizzo della chitarra a sette corde. Tutti i membri della band (ad eccezione del vocalist ovviamente) pubblicheranno inoltre da qui in avanti svariati video didattici e terranno clinic in giro per il mondo, parlando a musicisti, giovani e non, delle varie metodologie che è possibile impiegare per affinare e migliorare la propria capacità sullo strumento, diventando a tutti gli effetti paladini dello shredding e della tecnica portata ai massimi livelli, e attirandosi per questo non poche critiche, soprattutto tra gli amanti del suono più "sporco" e "grezzo" (dall'altra parte dell´universo rock il grunge è ormai alle porte).
Il successo planetario
Dopo il primo disco, che pur ancora acerbo, suscita un notevole interesse, la fama della band cresce significativamente, fino al 1992, anno in cui dà alle stampe quello che è unanimemente (o quasi) considerato il suo capolavoro, ovvero Images And Words, contenente, come nel precedente lavoro, pezzi dall'altissimo tasso tecnico, come "Metropolis Part 1" o "Pull Me Under", e ballad decisamente più melodiche, come "Another Day" e "Surrounded". Il disco vede anche il debutto di un nuovo cantante, James LaBrie, immediatamente reclutato dal gruppo dopo aver ascoltato un demo tape spedito alla band dallo stesso vocalist.
Images And Words è un successo clamoroso, con un perfetto equilibrio tra parti strumentali e vocali, una spiccata vocazione al progressive più melodico (le influenze dei Rush sono ancora abbastanza evidenti, sebbene la band abbia qui una personalità molto più definita rispetto al precedente disco) senza per questo rinunciare a momenti solisti e virtuosistici di assoluto spessore. L'album rappresenta in effetti quella sintesi perfetta che forse la band di New York non riuscirà più ad ottenere (se non in Metropolis Pt.2), risultando all'ascolto molto naturale e ispirato in tutte le sue tracce.
Dall'opening del pezzo forse più autenticamente prog, ovvero "Pull Me Under" (l'arpeggio di Petrucci diventa ben presto un must per tutti i fan della band che non possono vivere senza una sei corde) si passa alle godibilissime "Another Day" e "Surrounded", brani più tradizionalmente ancorati alla struttura pop strofa-ritornello, e che pertanto strizzano apertamente l'occhio al mainstream pur restando sempre spontanei e genuini. In "Take The Time" (e qui i cinefili non potranno non riconoscere una frase campionata da "Nuovo Cinema Paradiso") è di nuovo il progressive nella sua veste più squisitamente virtuosistica ad emergere, mentre "Under A Glass Moon", altro celeberrimo pezzo della band, risulta essere un ottimo compromesso tra la componente tecnica, messa al servizio del progressive, e la classica struttura melodica rock. Anche qui Petrucci lascia un'impronta importante con un incredibile assolo (inserito dalla rivista Guitar World tra i migliori 100 della storia del rock), in cui miscela perfettamente scale cromatiche, sweep picking, uso del vibrato e tapping, senza mai per questo rinunciare alla melodia.
Totalmente diverso lo stile di "Wait For Sleep", ballad sognante in cui LaBrie è accompagnato al piano dal solo Moore, seguendo un approccio che sarà riutilizzato più in avanti anche da Jordan Rudess nel disco Metropolis Pt. 2. Chiude "Learning To Live", che si apre con synth e chitarra, e che ancora una volta pone l´accento sulla crescente abilità della band nel coniugare perfettamente virtuosismi e melodie, con LaBrie a fare da ponte tra le parti strumentali, e l'applicazione della tecnica del cosiddetto dejà vu sonoro (la band riutilizzerà anche in futuro questo espediente, e con ottimi risultati, sempre nell'album Metropolis Pt. 2), che consiste nel riprendere un tema, in questo caso quello di "Wait For Sleep", e ripresentarlo in un altro brano, nella fattispecie in versione decisamente più progressive rock.
Tutti i brani di Images And Words sono eccellenti, ma è con "Metropolis Part 1: The Miracle and The Sleeper", diventato un vero e proprio classico del metal, nonché cavallo di battaglia della band durante gli show live, che i Dream Theater costruiscono la propria fama. Il pezzo è una vera e propria suite (dura circa nove minuti), con un'intro molto potente e suggestiva che lascia spazio a una spettacolare sezione strumentale in cui ogni componente del gruppo dà il meglio di sé. Ad esempio, famosissimo tra gli appassionati di basso è diventato il breve ma spettacolare assolo di John Myung, tutto suonato con la tecnica del tapping. Dopo la parte strumentale rientra grandiosamente in azione la voce di LaBrie, il brano cambia tempo e con gli altri membri della band a formare un'unica potente sezione rimica, si avvia verso la fine. Anche in questo caso, così come in quasi tutti i lavori della band, i testi (la maggior parte dei quali porta la firma di Petrucci e Portnoy), risultano essere in massima parte astratti e voluttuosi, richiamando continuamente alla mente grandi temi, come l'amore, il dolore, la vita e la morte, e seppur piacevoli, passano necessariamente in secondo piano se paragonati alle sezioni strumentali.
Images And Words vince il disco d'oro negli States e arriva al numero 61 della classifica di Billboard, mentre i membri della band diventano veri e propri idoli per i musicisti di tutto il mondo. Il 1993 vede l'uscita del primo live ufficiale della band, registrato al famoso Marquee di Londra, da cui appunto prenderà il nome Live At The Marquee. L'album, seppur di buona fattura, evidenzia uno degli aspetti spesso più criticati alla band, ovvero la scarsa vena da esperienza live delle loro esibizioni, giudicate spesso troppo "fredde", anche se tale critica trova parziale giustificazione nell'elevata dose di concentrazione necessaria per eseguire al meglio i loro brani, la maggior parte dei quali supera abbondantemente i sei minuti e possiede una struttura melodico-armonica e ritmica piuttosto complessa (molti brani presentano tempi dispari come 13/8 o 7/4 che talvolta si intrecciano tra loro).
L'elemento di spicco all'interno del Live At The Marquee è rappresentato sicuramente dalla jam improvvisativa "Bombay Vindaloo", che si apre nel segno di armonici naturali che, assieme al particolare materiale melodico suonato da Petrucci, donano al brano un'atmosfera mistica ed esotica, che lo rende probabilmente l'apice del disco.
L'abbandono di Moore e l'ingresso in formazione di Sherinian
Nel 1994 arriva Awake, che sfortunatamente non si rivela all'altezza del precedente lavoro in studio, complice anche la forte pressione che la casa discografica esercita sulla band per rilasciare il prima possibile un nuovo album. Caratterizzato da sonorità talvolta più dure, talvolta decisamente troppo morbide, il disco, nonostante alcuni brani interessanti, come "Space-Dye Vest" o "Caught In A Web, finisce con il non avere un'identità precisa, dando l'impressione di essere molto meno ispirato e spontaneo di Images And Words. Un esempio emblematico è dato dall'opening track, "6:00", in cui le parti strumentali risultano mal collegate sia tra loro che con la voce di LaBrie, dando all'ascoltatore la sensazione di trovarsi davanti a una band che non ha le idee ben chiare sulla direzione da seguire.
La situazione migliora con "Caught In A Web, in cui si recuperano parzialmente le atmosfere prog e la coesione musicale delle parti strumentali, e con "Space-Dye Vest", caratterizzata da una riuscita intro di synth, appena riverberato da parte di Moore, che viene pian piano affiancato da batteria e voce, qui particolarmente ricca di effetti, che permeano il brano di sfumature barocche e che di fatto diviene il lascito dello stesso Moore, che da lì a poco abbandonerà la band. "Erotomania" risulta invece povera musicalmente, finendo per assomigliare più a uno sterile esercizio virtuosistico per shredders che a un vero pezzo, essendo musicalmente molto scarno, e riducendosi in larga parte a una serie di scale cromatiche suonate alla velocità della luce. Decisamente meglio riuscita "The Silent Man", traccia dalla dimensione completamente acustica che risolleva, anche se in minima parte, le quotazioni del disco.
Un lavoro che entusiasma i metallari più sfegatati, ma che risulta appena sufficiente e sfigura al cospetto di Images And Words.
Il tour che segue l'uscita di Awake vede l'addio del primo e storico tastierista della band. Kevin Moore decide infatti di lasciare in quanto sente di aver maturato nel corso degli anni la volontà di intraprendere differenti strade musicali, come dimostrerà il successivo lavoro con la sua formazione, i Chroma Key. Moore viene quindi sostituito (prima a tempo determinato per l'imminente tour mondiale di Awake, e poi in pianta stabile come membro effettivo del gruppo) da Derek Sherinian, virtuoso che ha lavorato con i Kiss durante il tour di "Revenge" e la registrazione da parte della band di Gene Simmons di "Alive III".
Sherinian porta nel gruppo sonorità più tendenti all'elettronica e si distingue per il suo approccio quasi "chitarristico" alla tastiera, distaccandosi nettamente dallo stile del predecessore, per certi versi più classicheggiante, e senz'altro più ispiratamente melodico.
Ad Awake segue l'uscita di una piccola perla, ovvero A Change Of Seasons, un Ep formato da una suite di sette movimenti (in cui torna ad emergere l'equilibrio tra melodia e tecnica tanto amato dai fan), oltre che da una serie di cover di band storiche come Pink Floyd, Led Zeppelin e Genesis, realizzate durante una esibizione della band a Ronnie Scott's Jazz Club di Londra.
Il lavoro è molto interessante sia perché rappresenta il primo esperimento (particolarmente riuscito) in termini di vera e propria suite della band (che presenterà da qui in avanti lavori sempre più complessi e ambiziosi come Metropolis Part 2 e Six Degrees Of Inner Turbulence), sia per l'ottima fattura delle cover realizzate nel "Big Medley". A convincere, in particolar modo, sono proprio la suite omonima, che da una intro dal sapore quasi acustico passa poi a un'incalzante e riuscitissima sezione centrale dominata da John Petrucci, protagonista di una serie di pattern, efficaci tanto ritmicamente quanto melodicamente, suonati nel registro medio-alto della sua Ibanez, salvo poi chiudersi così come era iniziata, con l'arpeggio dello stesso Petrucci che simbolicamente completa il ciclo (coerentemente con il significato del titolo dell'Ep).
Rispetto ad Awake il sound generale è qui molto più fresco e accattivante, e riesce ad attrarre l'ascoltatore per tutti i 24 minuti d'esecuzione. Altro elemento che giova molto al suono di A Change Of Seasons è dato sicuramente da un LaBrie più limpido che nel precedente disco, in cui invece forzava un po' la propria voce (con risultati dall'alterna fortuna). Molto convincenti anche le cover "In The Flesh" dei Pink Floyd (riuscendo nella non semplicissima impresa di rendere giustizia al brano della band di Waters e soci) e "Carry On Wayward Son" dei Kansas. Si fa inoltre evidente, da qui in avanti, una crescente volontà da parte della band di allargare la propria base di follower, con una maggior dose di accessibilità alla propria musica che non tarda però a scontentare i fan di vecchia data.
A conferma di questa volontà, più o meno esplicita, arriva nel 1997, dopo varie vicissitudini con la casa discografica (la band chiedeva da tempo di poter pubblicare un doppio album, con la Atlantic Records che si opponeva per ragioni commerciali), Falling Into Infinity, che ancora di più rispetto ai precedenti lavori segna la svolta verso sonorità più morbide, e pertanto maggiormente commerciali, e che forse proprio per questa ragione sembra deludere le aspettative di un'ampia frangia di sostenitori della band. È forse questo il motivo per cui il disco viene accolto piuttosto freddamente, (arrivando comunque alla posizione numero 52 di Billboard), così come sono in molti a non essere convinti appieno dall'amalgama musicale formatasi con Sherinian, il cui succitato approccio chitarristico fa storcere il naso a più di un fan. Risulta in effetti troppo forte la differenza di sonorità rispetto alla prima fase di vita del gruppo; ne è un esempio evidente la traccia di apertura, "New Millennium", troppo distante dal classico sound della band, così come risulta artificiosa e troppo missata la voce di LaBrie con conseguente perdita di spontaneità.
"You Not Me"lascia perplessi per la struttura decisamente troppo pop-metal che di fatto la svuota di ogni attrattiva, così come troppo leggere risultano essere "Hollow Years" e "Anna Lee". Va meglio con "Peruvian Skies" (miglior pezzo dell'album), che non può istantaneamente non rimandare la mente (e il cuore) ai Pink Floyd, e in particolar modo alla loro "Have A Cigar", tanto per il riff iniziale, quanto per il bridge e per l'uso del synth, che trae evidentemente ispirazione dal sound psichedelico di Richard Wright (e il tributo al brano dei Floyd verrà reso ancora più forte nella versione presente in Once In LiveTime, in cui la band inserirà parti del pezzo della band di Gilmour e Waters).
Altro episodio degno di nota è certamente "Hell's Kitchen", strumentale dalla struttura lineare in cui Petrucci, supportato ampiamente dalla solida base ritmica rappresentata da Myung e Portnoy, si rende protagonista di uno degli assolo più melodicamente ispirati e riusciti dell'intero disco. Puro prog-metal è quello che si respira in "Lines in The Sand", (che a tratti ricorda per le ritmiche sincopate "Take The Time") in cui alla sezione progressive segue in maniera molto naturale una ballad trascinante dominata da un LaBrie molto convincente. Chiude l'album "Trial Of Tears", che, come suggerito dal titolo, è una minisuite composta da tre movimenti in cui è presente (soprattutto da parte di Petrucci) materiale melodico molto interessante, che forse non viene sfruttato qui a dovere, ma che troverà una valvola di sfogo di lì a poco nella seconda reincarnazione dei Liquid Tension Experiment, mentre in questo caso la combinazione con la forma-canzone non dà risultati esaltanti, complice anche un non riuscitissimo cantato di LaBrie, talmente melodico che finisce per l'essere banale e pertanto privo di qualunque mordente all'orecchio dell'ascoltatore.
In definitiva, sebbene non sia un lavoro da snobbare del tutto, Falling Into Infinity soffre da un lato di mancanza di ispirazione e dall'altro della presenza di troppi pezzi che, nel tentativo di essere più accessibili, finiscono per essere banali, con la conseguente penalizzazione della qualità dell'intera opera. La band sembra aver smarrito la propria direzione di ricerca musicale e con essa la propria identità; è forse questo uno dei motivi che porta all'allontanamento di Derek Sherinian, che lascia i Dream Theater dopo circa quattro anni di militanza nelle file del quintetto newyorkese. Sherinian fonderà quindi la propria band, i Planet X, assieme al batterista Virgil Donati e al chitarrista Tony McAlphine, il cui sound si discosterà significativamente dal progressive metal puro, avvicinandosi più alle atmosfere fusion.
I progetti paralleli, Metropolis Part. 2 e l'inizio dell'era Rudess
Il 1998 vede inoltre la pubblicazione di un altro live, (Once In LiveTime) che non ottiene grande successo, complice anche una lavorazione non riuscitissima, nonostante il disco riservi alcune chicche come l'inserimento di "FreeBird" dei Lynyrd Skynyrd alla fine dell'esecuzione di "Take The Time" o di "Enter Sandman" dei Metallica all'interno di "Peruvian Skies".
Dopo l'uscita del live la band si concede un anno di riposo, dedicato a vari progetti paralleli. Petrucci e Portnoy danno vita, assieme a Tony Levin, ex-bassista dei King Crimson, e al virtuoso della tastiera Jordan Rudes, al progetto Liquid Tension Experiment, che darà come frutti due album (in realtà quattro, includendo anche quelli legati al Liquid Trio Experiment, "Spontaneuous Combustion" del 2007, registrato durante alcuni giorni di assenza di Petrucci, e "When The Keyboard Breaks: Live In Chicago", registrato, come suggerisce il titolo, senza l'apporto di Rudess) dalle sonorità molto sperimentali, che dividono critica e fan, ma che appaiono indubbiamente di altissimo livello tecnico. Se da un lato il sound sembra brillare di luce propria in virtù della dimensione jazzisticadell'occasione (brani puramente strumentali, parti improvvisate, mancanza di pressioni dovute al nome Dream Theater etc.), con la tecnica del quartetto spinta al limite, e proiettata su diversi generi (dal progressive di "Paradigm Shift" al "metal psichedelico" di "Osmosis", per fare un paio di esempi), dall'altro le critiche generalmente rivolte ai Dream Theater (mancanza di emozioni e contenuti musicali validi, pura tecnica fine a se stessa e così via) si amplificano a dismisura.
La verità sta probabilmente nel mezzo, data la qualità non eccelsa di alcuni pezzi come "The Stretch" o "Chewbacca", che fanno da contraltare ad altri estremamente interessanti, come "Acid Rain" (in cui il chitarrista di Long Island dimostra di essere un virtuoso a 360 gradi anche della 7 corde), "Biaxident" (tra i pezzi più melodici in assoluto della produzione dei Liquid Tension Experiment, con tanto di assolo dal sapore blues) e "Universal Mind". Di lì a poco lo stesso Jordan Rudess entrerà a far parte dei Dream Theater in pianta stabile, riempiendo il posto vacante lasciato da Sherinian. Rudess apporterà un contributo fondamentale al sound della band, e per certi aspetti rappresenterà un ritorno al lirismo di Moore.
È la svolta. Il cambiamento che si avverte all'interno della band è molto forte e la chimica con Rudess è da subito quella giusta, come dimostrerà Metropolis Part 2: Scenes From A Memory, l'album della rinascita, pubblicato nel 1999.
Primo vero concept-album della band, dopo il riuscito esperimento di A Change Of Seasons, il disco rappresenta il ritorno alle sonorità di Images and Words, arricchita per l'appunto dalle raffinate linee melodiche di Rudess, che funge da vero e proprio collante sonoro per la band, la cui alchimia risulta qui fulgida e ricca di interplay, con stupendi passaggi all'unisono tastiera-chitarra e un ritrovato dialogo tra quest'ultima e le linee di basso disegnate da John Myung.
Già l'apertura del disco, "Regression", scandita da un ticchettio di orologio e da una voce ipnotica, cui segue l'entrata della chitarra di Petrucci, dà un'idea del forte livello evocativo raggiunto nel disco. Ne sono un ulteriore esempio la sontuosa "Overture 1928", pezzo che raggiunge un lirismo forse mai toccato prima dalla band e "Strange Dejá Vu". "Through My Words" propone uno stupendo duetto voce-piano classico, forma già sperimentata con successo dalla band in "Wait For Sleep", mentre "Fatal Tragedy" capovolge con maestria l'atmosfera, sterzando verso atmosfere decisamente più rock, così come in "Beyond This Life", in cui la band riesce a dare efficacemente ritmo alla storia che sta raccontando, sincronizzando il proprio sound in maniera perfetta con lo stato d'animo indotto all'ascoltatore, e avendo l'abilità di non risultare mai fuori luogo, nonostante l'enorme distanza tra le diverse situazioni musicali che si vengono a creare.
La prima parte del disco si chiude con la struggente "Through Her Eyes", perfettamente interpretata da un LaBrie limpido come non lo si ascoltava da tempo. La seconda parte del disco si apre quindi con la mistica "Home", magistrale pezzo che si caratterizza per il notevole interplay tra Petrucci e Myung, che intrecciano con maestria le linee melodiche dei propri strumenti, costruendo assieme a Portnoy un solido tappeto sonoro dal quale si leva altissima la voce di LaBrie, e per il materiale melodico (con tutta probabilità scale modali) che conferisce al pezzo un colore e una sonorità a tratti orientaleggianti. Segue "The Dance Of Eternity", pezzo strumentale chiaramente appartenente al progressive metal - scuola Dream Theater, che richiama (volutamente) in più di un momento Metropolis Pt.1, e che risulta ancor più memorabile in virtù del riuscito intervento solista di John Myung al basso. Il brano, inoltre, ben rappresenta la dimensione della complessità dell'opera: vede infatti al suo interno l'alternarsi di tempi di 3/8, 5/8, 7/16 e 6/8, il tutto condito da autentiche raffiche di grancassa di Portnoy e di potentissimi power chords di Petrucci, confermando ancora una volta il carattere quasi orchestrale dell'album.
"One Last Time" riporta il disco a una dimensione più evocativa ed eterea (soprattutto in virtù del lirico intervento iniziale di Rudess al piano) per poi chiudere idealmente e musicalmente il cerchio riprendendo nel finale la struttura di "Strange Dejà Vu", e condurre quindi per mano l'ascoltatore verso la fine dell'esperienza onirica attraverso la melanconica ballad "The Spirit Carries On", stupendamente intonata dalla voce di LaBrie, qui calda e ispirata, così come ispirato e lirico risulta l'assolo di Petrucci, qui più sobrio, e con un minor numero di note, che ne intensificano il significato.
Il disco si chiude con "Finally Free", giocata sull'alternanza di sezioni acustiche e amplificate. E' l'epilogo del racconto, che fa da sottofondo alla musica, come se fosse un accompagnamento alla stessa (a tal proposito, nel tour che segue il disco la band allestirà sempre un maxischermo per proiettare alcune scene della stessa storia, quasi a spingersi in una multimedialità che esula dalla sola esperienza musicale).
In generale l'intero album è, da un punto di vista puramente tecnico, molto più complesso dei precedenti due, ma al tempo stesso profondamente melodico e naturale, rappresentando di fatto una sorta di "riappacificamento" con la base di fan storici della band, rimasta perplessa di fronte ad Awake prima e Falling Into Infinity dopo. Comincia inoltre qui la serie di "collegamenti musicali" tra album, quasi a voler stabilire un filo conduttore tra i vari lavori. Da questo disco, infatti, e per i successivi tre, la band comincerà sempre l'opera successiva con un elemento (una nota o un rumore particolare) presente nell'ultima traccia della precedente. In questo caso, tale elemento di congiunzione è dato dal fruscio di fondo alla fine di "Finally Free", che viene ripreso all'inizio di "The Glass Prison", opening track del successivo Six Degrees Of Inner Turbulence.
A Metropolis Part 2 segue un tour mondiale (durante il quale la band proporrà per intero l'album) e un triplo live, Live Scenes From New York, finalmente degno della fama del gruppo e noto anche per la macabra coincidenza che lo ha visto uscire l'11 settembre 2001 con una copertina in cui delle fiamme attorniavano New York e le torri gemelle (cover che venne prontamente ritirata e cambiata).
In questo live sono presenti ovviamente brani tratti anche dai precedenti lavori, come Metropolis Pt. 1 e Another Day, oltre ad alcuni pezzi dei Liquid Tension Experiment e a un medley, "Caught In A New Millennium", in cui i Dream Theater rendono omaggio ad alcune delle loro band preferite, come Nine Inch Nails, Tool e Alice in Chains.
Non mancano in questo periodo, così come già accaduto in passato, progetti paralleli da parte dei membri della band, con Petrucci impegnato più volte nei G3 (Guitar Three) di Joe Satriani, al fianco di altri shredder come lo stesso Satriani, Steve Vai e Paul Gilbert, e altri musicisti di livello assoluto come Dave LaRue o Billy Sheehan. È proprio durante gli show dei G3 che il chitarrista comincia a presentare in pubblico il materiale che verrà rilasciato poi nel 2005 nel suo primo (e finora unico) disco solista, "Suspended Animation", le cui sonorità ricordano da vicino il lavoro con i Liquid Tension Experiment.
Parallelamente, John Myung inciderà due dischi ("When Pus Comes To Shove" e "Ice Cycles") con i Platypus (band progressive che fonderà assieme all'ex compagno di band Derek Sherinian, al cantante e chitarrista Ty Tabor dei King's X e al batterista dei Dixie Dregs Rod Morgenstein) e due con i Jelly Jam, ovvero la stessa formazione dei Platypus, a eccezione di Sherinian. James LaBrie, invece, inciderà quattro dischi come solista, mentre Mike Portnoy fonderà il supergruppo progressive Transatlantic, autore di ben sei album.
La svolta "oscura"
Nel 2002 la band torna con un doppio album molto atteso, Six Degrees of Inner Turbulence, in cui finalmente trova lo spazio necessario per realizzare un progetto che inseguiva da tempo (la richiesta di un doppio album era stata più volte negata da parte della casa discografica negli anni precedenti). Nel primo disco compaiono cinque brani separati, in cui lo stile è più oscuro e duro rispetto ai predecessori. Una svolta artistica che si farà sempre più netta nei successivi lavori. L'opening track, "The Glass Prison", magistrale pezzo di tredici minuti che si apre con un cupo arpeggio di Petrucci in sweep picking, rende subito chiaro che il sound della band sta cambiando, esplorando nuove direzioni, (in parte ancora ignote alla stessa band probabilmente) affiancando all'approccio più squisitamente orchestrale di Metropolis Pt. 2 (e comunque in larga parte presente anche in Six Degrees Of Inner Turbulence) elementi più cupi, in cui diventa se non dominante, ben più presente l'oscurità. "Misunderstood" e "The Great Debate" mostrano come la band sia anche in grado di incorporare nuovi ingredienti nel proprio sound, come ad esempio campionamenti più vasti e articolati ed effetti più marcati in fase di missaggio, come nel caso della voce di LaBrie, resa in alcuni frangenti particolarmente metallica.
Il primo disco si chiude con un pezzo più propriamente ancorato alla tradizionale struttura-canzone, "Disappear" che risulta però un po' evanescente.
Nel secondo disco compare la suite omonima, composta da otto brani di stampo più puramente progressive rock, il cui tema portante è rappresentato dalla malattia mentale (i "Sei gradi di Turbolenza Interiore", per l'appunto). Questa seconda parte è inoltre caratterizzata da un suono decisamente più orchestrale, come si evince sin dalle primissime note della "Overture", la cui marcia militaresca non può non far pensare a un inno nei confronti di un paese colpito da poco al cuore, quel cuore pulsante, New York, che è anche la città natale della band. Suoni sapientemente riverberati uniti a una certa sobrietà stilistica fanno dell'"Overture" un pezzo notevole che introduce piacevolmente l'ascoltatore alla suite, che prosegue poi con "About To Crash", più prossima a territori propriamente prog-rock, che richiama alla mente alcuni momenti del precedente disco, come "The Dance Of Eternity", e che vede protagonisti Petrucci e Rudess, che si lasciano andare a momenti solistici in cui i loro virtuosismo, a differenza di quanto accadeva in passato, tende a non debordare, inseguendo la misura più che il numero di note. È il disturbo da stress post-traumatico il tema portante di "War Inside My Head", episodio breve ma efficace, giocato tutto sulla pura potenza delle ritmiche e della voce di LaBrie piuttosto che sui momenti solistici, qui assenti, data anche la brevità. È invece un vortice di note quello che apre "The Test That Stumped Them All". Pezzo cupo, al limite del thrash metal, che lascia intravedere le possibili direzioni del futuro della band, che si chiariranno maggiormente da Train Of Thought in poi.
L'atmosfera si alleggerisce con "Goodnight Kiss", ballad sognante in cui la band mette da parte la propria furia strumentale per avvolgersi prima attorno alla voce di LaBrie, riuscendo a esaltarne le qualità timbriche e la pulizia, salvo poi riproporre il tema anticipato nell'"Overture". Ci pensa poi Petrucci a fare da ponte sonoro attraverso le note della sua Music Man verso "Solitary Shell", che suona però piuttosto debole, in quanto sfacciatamente melodica e orecchiabile, forse addirittura troppo, ma che almeno gode di un riuscito finale strumentale, atto a preparare la strada per "About To Crash (Reprise)", nella quale il grintoso riff di Petrucci rimette subito le cose a posto. L'interplay è qui molto forte, con gli strumenti che si intrecciano per creare un unico, spesso muro sonoro. "Losing Time", che poggia prevalentemente sulla voce di LaBrie, (in questo caso spalleggiato abilmente dal resto della band), funge quindi da momento di transizione,che fa da preludio al finale che, aulico e carico emotivamente così come nell'"Overture", chiude il disco.
Se da un punto di vista commerciale Six Degrees Of Inner Turbulence è un successo, in termini musicali rappresenta l'inizio di una nuova fase per la band; un disco di transizione verso una nuova direzione, a metà strada tra le melodie di Metropolis Part 2 e i lavori che verranno nel successivo decennio. Altro elemento d'interesse qui è forse il definitivo recupero di LaBrie, totalmente ristabilitosi da una vecchia lesione alle corde vocali (causata da un'intossicazione alimentare durante una vacanza a Cuba) che aveva inevitabilmente minato le sue performance negli ultimi otto anni (più volte sono circolate voci di un cambiamento di vocalist, sempre smentite dalla band), e che per questo aveva attirato molte critiche dai fan, scontenti per la sua resa live, significativamente differente dalle registrazioni in studio.
Dopo un tour mondiale che segue l'uscita dell'album, viene pubblicato, a distanza di un anno, Train Of Thought, che contiene ottimi pezzi come "As I Am", che strizza apertamente l'occhio ad alcuni lavori dei Metallica o "In The Name Of God", dalla metrica più lineare e regolare (la band più volte negli anni ha composto e suonato pezzi in tempi dispari e composti) e che mette in evidenza la volontà da parte del gruppo di approfondire e incorporare nel proprio sound, e in maniera sempre maggiore, sonorità oscure e pesanti, fino a scivolare in alcuni frangenti nel puro thrash metal. "This Dying Soul", momento di autoanalisi di Portnoy relativamente ai suoi problemi di alcolismo, si caratterizza invece per sonorità più esotiche, specialmente per quanto concerne il contributo di Petrucci, e per il massiccio drumming dello stesso Portnoy, oltre che per l'uso di campionamenti, sempre più presenti.
La ricerca dell'oscurità, così come in As I Am, si fa qui più pressante ed evidente, specialmente nella seconda parte del brano, che risulta comunque piuttosto piacevole. Un maestoso arpeggio apre "Endless Sacrifice", in cui luce e oscurità si alternano continuamente, fino alla lunga sezione centrale strumentale, in perenne bilico tra progressive e thrash, e in cui alla fine prevale quest'ultima componente. Convince meno "Honor Thy Father", ironico tributo di Mike Portnoy nei confronti dell'odiato patrigno, brano confuso e senza un'identità precisa. Progressive, thrash, nu-metal e addirittura in alcuni frangenti death metal: sono molti, forse troppi gli ingredienti che, gettati nella stessa pentola, finiscono col non dare al piatto sonoro un sapore preciso. Senza infamia e senza lode, "Vacant", che cerca di utilizzare ancora la ben nota formula voce-piano, arricchendo ulteriormente il suono attraverso l'utilizzo del violoncello (suonato da Eugene Friesen, ospite del disco), finendo però per generare l'effetto opposto e svilendo l'originale idea intimistica alla base del brano. Segue la strumentale "Stream Of Consciousness", che riprende il tema di "Vacant"trasportandolo in chiave decisamente più heavy, donandogli tutt'altro appeal, e recuperando in questo brano la propria anima progressive, con chitarre sovraincise e una notevole presenza melodica da parte del synth.
Chiude l'album "In The Name Of God", più solida e lineare, che mostra LaBrie e il resto della band viaggiare nella stessa direzione. Una direzione fatta di riff ritmicamente efficaci, interventi solistici riusciti, (ma che forse vanno a ledere l'interplay del sound globale, qui meno forte che in passato).
Train Of Thought è un buon successo commerciale e raggiunge la posizione n. 53 della classifica di BillBoard. L'album raggiunge nel complesso la sufficienza, ma non riesce a toccare minimamente le vette raggiunte nei precedenti lavori, complice probabilmente una maggior voglia di sperimentare da parte della band, che si traduce però in un approccio più confuso e indefinito. Si comincia infatti a fare piuttosto evidente la differenza di suono rispetto a soli tre anni prima, e come quasi tutti i lavori della band, il disco divide fan e critica, tra entusiasti delle nuove sonorità "alla Metallica" e nostalgici della combinazione melodie progressive/virtuosismi del vecchio periodo.
A Train Of Thought segue nel 2004 Live At Budokan, un triplo live registrato nello storico auditorium giapponese, che contiene materiale derivante essenzialmente dagli ultimi due album; notevole l'"InstruMedley", che - come suggerisce il titolo - ripassa e condensa il repertorio storico degli strumentali della band in poco più di dodici minuti.
Nel 2005 arriva Octavarium, che segna un ulteriore, eccessivo passo verso quella direzione oscura, distorta e pesante che la band sta percorrendo. Ne sono un esempio lampante "Never Enough" e "The Root Of All Evil", mentre "I Walk Beside You" cade ancora una volta nell'eccessivamente melodico (se non nel melenso).
La sensazione che si avverte è quella di un equilibrio rotto, con la band che nel tentativo di raddrizzare la rotta genera risultati diametralmente opposti. I risultati migliori si ottengono nella suite di ventiquattro minuti che dà il nome al disco, più propriamente progressive rock, ma che in generale risulta meno convincente dei precedenti tentativi analoghi.
In assoluto Octavarium non convince e rappresenta un'involuzione, anche piuttosto evidente, del sound della band. Si ha ad esempio più volte la netta sensazione che le parti strumentali siano allungate a dismisura per riempire un vuoto compositivo che si sta facendo sempre più evidente.
Può essere letta in questa chiave, ovvero come la ricerca di nuove idee, la pubblicazione nel 2006 in forma di bootleg della riproposizione per intero del leggendario "The Dark Side Of The Moon" dei Pink Floyd, suonato comunque in maniera piuttosto efficace.
Nello stesso anno (a dimostrazione della verve commerciale che da sempre caratterizza l'attività della band) esce anche Score: 20th Anniversary World Tour - Live With The Octavarium Orchestra, registrato al Radio City Music Hall di New York come chiusura del tour mondiale per festeggiare i venti anni di attività della band, che nei tre cd ripercorre la propria storia musicale e dà vita a un interessante esperimento sinfonico, suonando per la prima volta assieme a un'orchestra sinfonica, ribattezzata, come suggerisce il titolo del live, Octavarium Orchestra. Decisamente d'impatto la versione sinfonica di "Metropolis Part 1" che chiude il disco.
Nel 2007 è il turno di Systematic Chaos, nono lavoro in studio dei Dream Theater, che segna l'inizio dell'avventura della band con la nuova etichetta discografica, la RoadRunner Records, che nel frattempo ha rimpiazzato la Atlantic.
Systematic Chaos conferma i problemi già evidenziati in Octavarium, ovvero la scarsa vena compositiva del gruppo. Il disco risulta sgradevolmente forzato; si ha letteralmente la sensazione che molti brani siano "trascinati" dai membri della band per far scorrere i minuti senza comunicare nulla di significativo musicalmente; è una sensazione che si avverte ad esempio molto chiaramente nelle due "In The Presence Of Enemies", che aprono e chiudono la raccolta, o "The Ministry Of Lost Souls". Più indovinata, invece, "Prophets Of War", in cui il mix parti strumentali/parti cantate si rivela ben più solido e musicalmente valido.
Systematic Chaos,così come il precedente Octavarium, risente di un evidente calo di ispirazione. Se i più accaniti fan parlano di nuove direzioni di ricerca o persino di un suono più intenso, per tutti gli altri è evidente che la band comincia ad accusare il peso degli anni che passano. Sono soprattutto le melodie che mancano, e questa carenza può essere nascosta solo parzialmente dalla straordinaria capacità tecnica dell'ensemble. Il suono, che a un primo ascolto può sembrare effettivamente più intenso, finisce alla lunga con il mostrare la corda, tradendo la mancanza di idee valide.
La band comunque va avanti per la propria strada e nel 2008 pubblica Best Of, Greatest Hit... and 21 Other Pretty Cool Songs, contenente materiale remixato e rimasterizzato (nelle intenzioni ufficiali più che un vero e proprio Greatest Hits è piuttosto una panoramica sul lavoro della band, mancano infatti all'appello veri e propri mostri sacri, come "Metropolis Pt.1" e "Ytse Jam"), e un altro live, Chaos In Motion: 2007-2008, tratto dall'ultimo tour mondiale della band, che però sembrano motivati più da fini commerciali che artistici, dando ulteriore credito alle voci relative al momento di stanca che la formazione newyorkese sta attraversando.
Nel 2009 arriva Black Clouds And Silver Linings, ancora (purtroppo) più cupo e meno ispirato di Systematic Chaos, che lascia interdetti anche alcuni dei fan più accaniti. L'esempio più significativo è forse rappresentato da "A Night To Remember", contraddistinta da una prima parte composta da parti strumentali ripetute all'eccesso, che lascia poi spazio a una sezione centrale in cui la band ritrova, anche se solo a sprazzi, la capacità melodica ed evocativa che ne ha contraddistinto la produzione per oltre un decennio, per poi scivolare nuovamente in un vuoto virtuosismo e in un lungo abuso di sezioni thrash che, così diluite, perdono inesorabilmente di energia ed incisività. "A Rite Of Passage" soffre della stessa, eccessiva diluizione: un buon giro melodico e ritmico che, ripetuto ad oltranza, perde mordente.
Ciò che lascia perplessi è non tanto il materiale in sé, quanto come esso sia stato assemblato. Una lavorazione meno frettolosa, forse, avrebbe portato migliori risultati. "Wither"è una ballad tirata su di mestiere, che all'ascolto non ha niente che non vada, ma allo stesso tempo non lascia nulla a chi ascolta, finendo con suggellare l'ennesimo saggio metal-pop che lascia il tempo che trova. Con "The Shattered Fortress"va in scena lo stesso spettacolo: ritmica a 300bpm, voce thrash, super-assolo e cambio di timing con sezione semi-acustica. Non cambia ovviamente nemmeno il risultato, eccetto che per il tocco di classe (anche se magari un tantinello autocelebrativo) legato alla conclusione del brano, che si chiude con l'apertura di "The Glass Prison".
Va decisamente meglio con "The Best Of Times", che rappresenta senza alcun dubbio il momento migliore dell'album, con un prima parte dall'atmosfera più voluttuosa ed eterea (complice anche il violino di Jerry Godman, leggendario componente della Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin) e una seconda sezione, questa sì dichiaratamente progressive, in cui la band torna a fare quello che sa fare meglio e per cui è diventata giustamente famosa: miscelare alla perfezione, e con il giusto mood, parti virtuosistiche e temi melodici, il tutto sapientemente guidato dalla voce di LaBrie e dalla chitarra di Petrucci, che qui si produce anche nel miglior solo del disco.
Stranamente la band sembra cominciare a ritrovare la strada di casa verso la fine del disco, che si chiude con un altro riuscito pezzo, "The Count Of Tuscany", in cui le raffiche ritmiche, questa volta più che convincenti, della chitarra di Petrucci e della batteria di Portnoy sembrano quelle dei tempi d'oro. Anche Rudess offre il proprio notevole contributo, giocando con intermezzi musicalmente distanti dal plot del brano, atti a creare tensione e variazione, mentre John Myung tesse la propria tela armonico-melodica in modo meno vistoso che in passato, ma apportando al contempo grande solidità e ricchezza ritmica.
In definitiva, nonostante due buoni brani e qualche notevole spunto qua e là, Black Clouds And Silver Liningsnon riesce a convincere, mettendo in evidenza forse addirittura più del precedente Systematic Chaos gli attuali limiti della band, che si ostina a perseguire una strada che non le appartiene naturalmente: la conseguenza è la mancanza di spontaneità che affligge il nuovo materiale.
I Dream Theater sembrano ormai lontani dalla verve che aveva caratterizzato i lavori del decennio precedente e i riusciti mix di melodie progressive e parti strumentali, marchio di fabbrica dei precedenti dischi, sembrano essere un ricordo sbiadito.
Una drammatica serie di eventi
Nel 2010 Mike Portnoy, co-fondatore e membro storico della band, annuncia la fine, almeno per il momento, della sua avventura con i Dream Theater, complice un discorso musicale ormai logoro e la voglia di cambiamento. I suoi rapporti con il resto della band restano comunque, almeno per quanto riguarda le dichiarazioni ufficiali, ottimi.
Dopo circa sette mesi e varie audizioni, (raccolte e pubblicate nel documentario "Dream Theater 2011 - The Spirit Carries On") la band annuncia l'ingaggio ufficiale di Mike Mangini come nuovo batterista. Mangini, proveniente da varie esperienze discografiche (Annihilator, Extreme, collaborazioni con Steve Vai e lo stesso LaBrie, con il quale ha registrato il terzo lavoro solista del vocalist dei Dream Theater, "Elements Of Persuasion") detiene tra l'altro vari record come batterista più veloce del mondo.
Nel frattempo Mike Portnoy prende parte all'ultimo album degli Avenged Sevenfold, Nightmare, a causa della prematura scomparsa dello storico batterista della band, James "The Rev" Sullivan, morto a soli ventotto anni per overdose.
Contemporaneamente i Dream Theater annunciano di aver completato le registrazioni del nuovo lavoro, A Dramatic Turn Of Events, pubblicato nel settembre 2011. Un drumming più leggero e un LaBrie dalla voce più pulita sembrano aggiustare leggermente il tiro rispetto alle precedenti uscite discografiche, come dimostrano "Far From Heaven" e "Beneath The Surface", ma alcuni buoni spunti non sono sufficienti a cancellare i limiti che negli ultimi sette anni (ovvero a partire da Octavarium) caratterizzano le produzioni del quintetto newyorkese, come ad esempio le ritmiche ossessive che celano malamente la vacuità d'intenti.
L'album è pertanto un lavoro riuscito a metà, capace a tratti di riportare alla mente e all'orecchio momenti melodici che ricordano il sound di un decennio prima e dall'altro di evidenziare il momento compositivo effettivamente non felicissimo che la band si trova ad affrontare ormai da tempo. Un esempio è rappresentato dagli assolo di Petrucci, meno ispirati del solito (se non in "On The Back Of Angels", ad esempio) e talvolta nemmeno collegati al brano in questione, e dalla quasi totale assenza di John Myung per quel che riguarda gli interventi solistici o comunque più squisitamente melodici. Tutto ciò finisce con il ridurre fortemente la potenza comunicativa del gruppo.
A Dramatic Turn Of Events segna qualche progresso rispetto alle uscite che lo hanno immediatamente preceduto, ma non trova ancora la via d'uscita da quell'impasse che sta frenando da anni la creatività più autentica dei Dream Theater. Non resta che sperare che, pur con tutti i suoi limiti, il disco rappresenti per i capostipiti del progressive metal una tappa di avvicinamento verso nuova, ennesima rinascita, augurandoci che in fondo le ultime produzioni non siano altro che una drammatica serie di eventi.
Due anni dopo, è la volta dell'omonimo Dream Theater (2013).
Il nome dell’album non è l’unico aspetto autocelebrativo del disco, vista la forte componente nostalgica presente in esso, la quale, miscelata con alcune ottime soluzioni concentrate nelle primissime fasi del platter, crea l’effimera illusione di un grande ritorno: “The Enemy Inside” scioglie subito le briglie al cavallo pazzo Mangini, nuovo addetto alle pelli, il quale offre una intro di impatto per poi prendere a braccetto Petrucci in una cavalcata dal groove spiazzante. “The Looking Glass” è la vera sorpesa dell’album, nonché il suo zenit. Bisogna sicuramente accettare la sensazione di “viaggio nel tempo” che dona il brano, per iniziare ad apprezzarlo: sembra estirpato dal repertorio dei demo di epoca “Images & Words” e “Falling Into Infinity”, per non parlare di quanto forti si sentano i Kansas, dichiarato antico amore della band.
Il problema è che le buone notizie sono grosso modo finite qui e per il resto dell’album la luce si spegne. Emblematica è la strumentale del disco, un tempo fiore all’occhiello degli ex-maestri del progressive: “Enigma Machine” è un’accozzaglia di riff ed esercizi allo strumento che sembra riportare Petrucci e soci a un freddo saggio di fine anno alla Berklee.
Il resto non migliora la situazione: “Surrender To The Reason” prova ad ammiccare a sonorità anni 70 ma manca totalmente di mordente; “Behind The Veil” rilancia con un bridge e ritornello catchy, guastato dalla solita sezione strumentale schizofrenica prima dell'ultimo chorus, ricadendo quindi nell'abusato canovaccio degli ultimi anni; “Along The Ride” spinge ancor più su una melodia ruffiana, intervallata da inconsistenti fraseggi alla sei corde del guitar-hero Petrucci, concludendo in maniera quasi grottesca con l'assolo di Jordan Rudess. Proprio quest’ultimo conferma una preoccupante involuzione in fase di songwriting che ormai rende i suoi fantasiosi contributi presenti fino a “Six Degrees Of Inner Turbulence” un vago ricordo.
La band non risponde agli stimoli neanche in occasione dell’ambiziosa suite finale, “Illumination Theory”, brano che avrebbe dovuto in principio donare il titolo all’album: la magia dura pochi minuti, proponendo prima un interessante sound barocco seguito da una sezione centrale orchestrata sufficientemente suggestiva, poi crollando nella seconda parte con un’accademica dimostrazione di forza, assai kitsch.
Dopo esser stati un tempo architetti di squisite e spesso memorabili composizioni progressive, oggi più che mai i Dream Theater sembrano cinque bolsi e svogliati
travet, intenti ad assemblare meccanicamente riff e sezioni strumentali, senza una visione di insieme del loro creato: quella “Bigger Picture” che paradossalmente tentano di descrivere in una delle tracce del loro album omonimo. Una grigia catena di montaggio nella quale sono probabilmente ormai cronicamente auto-relegati.
Opera rock in 34 attiIl nuovo
The Astonishing (2016) viene lanciato da una campagna pubblicitaria senza precedenti; l'attesa è tanta, tutto sembra pronto per grandi spettacoli live e per iniziative di merchandising; il grande carrozzone prog-metal, brand esportato in ogni angolo del globo, lavora a pieno regime. I Dream Theater trovano il coraggio di registrare più di due ore di musica per 34 brani e di creare una storia molto complessa che ha certamente richiesto un sforzo non indifferente. Purtroppo l'audacia può non bastare se non è accompagnata da grandi idee. Il disco appare troppo pomposo e ridondante, prolisso e ripetitivo; dietro questo grande spettacolo c'è sempre la solita carenza - ormai cronica - di idee e capacità di innovarsi. Il cambiamento in effetti c'è stato, ma è solo apparente. Questo sta nell'ipersempliflicazione del vecchio stile "Dream Theater", scrematura di gran parte dei lunghissimi assoli tanto amati/odiati, ridotta durata dei brani (tutti intorni ai quattro minuti), decisa propensione verso la forma
ballad e - in pratica - la creazione di una sorta di
mainstream pop-prog-metal di cui non si sentiva la mancanza. Più che un viaggio nel futuro assomiglia più a un viaggio nella preistoria. In ben 130 minuti era lecito attendersi grande varietà di suoni e stili, ma l'album non riesce mai a sorprendere. E i testi sembrano rivolti più che altro a un pubblico di adolescenti appassionati di giochi di ruolo.
La piattezza dei brani è molto spesso disarmante; "A Savior in The Square", "The Answer", "Act Of Faythe", "The X Aspect", "When Your Time Has Come", "Begin Again", "Losing Faythe", "Hymn Of A Thousand Of Voices", "Wispers On The Wind" sono esempi (non gli unici) di semplici cloni del formato
ballad di tre-quattro minuti, che risultano spesso stucchevoli, ridondanti e per nulla all'altezza di musicisti tanto dotati. Interessante la strumentale "Dystopian Overture" che, pur non aggiungendo nulla alla storia dei Dream Theater, ne conferma le grandi capacità tecniche. "Three Days" è uno dei momenti più evocativi e tragici dove melodia e pathos trovano un punto di congiunzione; l'
intro di "A Life Left Behind" è l'unico momento davvero diverso dal resto dell'album, peccato che dopo poco più di un minuto si perda nella solita ballata sdolcinata. Molto potenti e tipicamente "Dream Theater" sono "Moment Of Betrayal" e "The Walking Shadows". Il tutto si chiude con il
riff liberatorio di "Our New World" e con la
title track, un tentativo mal riuscito di brano epico, che illude con una
intro solenne ma che si risolve nell'ennesima melodia già sentita.
Dop il tonfo di The Astonishing i Dream Theater avevano un grosso vantaggio. Era quasi impossibile fare di peggio. Il nuovo amletico
Distance Over Time ritorna al progressive metal e in effetti risale parzialmente la china, mostrando che nel quintetto potrebbero esserci ancora barlumi di vita e forse di speranza. L'album trova nuova vitalità nelle tracce più complesse, in quei vortici di tempi dispari che sono i momenti di maggiore libertà compositiva della band. “Pale Blue Dote” e “At Wit’s End”, con le loro fughe strumentali iper tecniche, rappresentano probabilmente il meglio che oggi la band di Petrucci può regalare. Ma anche quando il riff di “Fall Into The Light” ricorda da vicino i Metallica siamo a buoni livelli anche emotivi, ma il brano sarebbe stato ottimo se fosse finito al quinto minuto, prima del forzatissimo assolo di Rudess. Per il resto il sound è quello tipico dei Dream Theater post 2000, con buone parti strumentali e la voce di La Brie che non dà l’impressione di aggiungere granché. Ascoltare brani come “S2N” (finalmente si sente il basso di Myung) fa sorgere il dubbio che se i Dream Theater si dedicassero maggiormente a brani esclusivamente strumentali (come nel vecchio progetto Liquid Tension Experiment) forse non farebbero male. Discorso simile si potrebbe fare per l’iniziale “Untethered Angel” che si salva dal terzo minuto nella parte centrale strumentale.
A View From The Top Of The World (2021), dopo vari ascolti mette in evidenza diversi aspetti che hanno segnato la recente discografia del quintetto americano. Il principale è che i Dream Theater sono chiaramente ingabbiati in un suono che hanno elaborato dopo anni di sacrifici da
Metropolis Part II (1999) in poi e dal quale non sembrano più in grado di uscire, riproponendo ormai da più di vent’anni, e in particolare dall'abbandono di Portnoy stilemi già noti. Ciò nonostante parliamo sempre di musicisti dotati di un talento assolutamente straordinario. Dopo vari ascolti sembra emergere sopratutto una presenza meno ingombrante delle tastiere di Rudess, mentre quello che storicamente è il grande assente - cioè il basso di Myung - si sente più frequentemente e più nitidamente. Petrucci domina come al solito incontrastato insieme alla batteria dell'uomo-macchina Mangini.
Sette brani lunghi dove la quantità di materiale già sentito è maggioritaria, ma in cui spicca la lunga suite finale, la
title track di venti minuti che ci fa sentire qualcosa della storia dei Dream Theater di un tempo. Di certo non regge il confronto col “la” suite per eccellenza della band (“A Change Of Seasons”), né con altre successive come “
Octavarium” o “In the Presence of Enemies Part. II”, ma grazie alla sua varietà e alla giusta miscela di assoli, melodia, tecnicismi non portati all'estremo, un coinvolgentissimo riff dal minuto quattordici e il consueto finale sinfonico, non lascia indifferenti anche da un punto di vista emotivo.
Andrebbero dette anche due parole sul singolo "The Alien” che sembra contenere gran parte dei difetti della band. Suona subito alla velocità della luce con un’intro che sembra provenire dal progetto Liquid Tension Experiment (con quello che ne comporta), poi improvvisamente un cambio con un assolo melodico di Petrucci, poi entra la voce di LaBrie. Tutto però sembra scollegato, come se i Dream Theater costruiscano parte dei loro brani con slot di musica precostituita messa insieme forzatamente. Una parte metal, una lenta, una melodica, l’assolo di Rudess e quello di Petrucci, in una sorta di Tetris musicale che suona più artificioso che spontaneo e non convince. Il resto dei brani percorrono la strada che la band segue testardamente da ormai vent'anni, con tratti interessanti (alcuni momenti strumentali) sparsi in una lunghezza eccessiva. Forse è in “Transcending Time”, una ballata dove la voglia di strafare non è dominante e dove le influenze degli
Yes sono più evidenti, che si raggiunge l'equilibrio migliore.
La sensazione che un talento così grande sia in fin dei conti sprecato e che potrebbe essere indirizzato verso strade più innovative o artisticamente valide, resta comunque molto forte.
Contributi di Michele Bordi ("Dream Theater"), Valerio D'Onofrio ("The Astonishing", "Distance Over Time", "A View From The Top Of The World")