Dream Theater

Images And Words

1992 (ATCO Records)
metal-progressive

Regola 96: nel caso te lo chiedessi, i Dream Theater sono e saranno sempre il punto di riferimento per il prog metal. Più un disco suona come 'Images And Words', più è progressive.
(da "Le 101 regole del progressive-metal")
Chi si ricorda di quel documento ironico che girava sul web una quindicina d'anni fa?
Tempi di schermaglie cruente nei forum musicali, con Facebook ancora un miraggio. Una delle battaglie più sanguinarie era di certo quella tra quanti venivano spassosamente appellati come "riccardoni" e chi certi onanismi tipici dei virtuosi dello strumento proprio non li digeriva. Chissà a quale fazione apparteneva colui che partorì quelle 101 regole, ma di sicuro conosceva bene tutti gli stereotipi, gli aneddoti e le convinzioni che circolavano intorno a quello che fu un sorprendente colpo di reni dell'ecosistema progressive: il progressive-metal.
Un boom inaspettato, perché arrivò a cavallo tra gli 80 e i 90, quando il progressive-rock era ben lontano dai fasti dei gloriosi anni Settanta. Qualcuno in precedenza si prodigò di non far spirare quella residua fiammella, grazie al cosiddetto neo-progressive degli Eighties, ma ben pochi di questi raggiunsero un successo commerciale degno di ciò che venne prima dell'anno spartiacque 1976. Tra i vari IQ, Pendragon, Pallas e Twelfth Night, i Marillion raggiunsero sicuramente la diffusione più rilevante ma, ironia della sorte, proprio con i primissimi anni 90 inaugurarono una svolta stilistica tanto interessante quanto rischiosamente lontana dagli stilemi fino ad allora rappresentati, portandoli via dai grandi palcoscenici a cui erano abituati.
I primi anni Novanta erano tempi assetati del grunge dei Nirvana, del britpop, delle cantautrici appena esplose come Tori Amos e Bjork. Andavano le sonorità sensuali del luccicante "Achtung Baby" e non di certo gli esercizi su scale o gli assoli del chitarromane di turno. Oppure c'era l'heavy metal, che di strizzate d'occhio al progressive non ne aveva fatte mancare negli anni precedenti: difficile non pensare alla solennità di "Seventh Son Of A Seventh Son" dei Maiden, ma quell'attitudine progressive che aveva raggiunto la Vergine di ferro, sebbene rimasta sempre latente, venne subito dopo brutalmente ritrattata dal deludente "No Prayer For The Dying".

Eppure il progressive dimostrava ancora una volta di non voler mai morire davvero; come l'erba cattiva, affermerebbero i suoi sempre vispi hater. Già da qualche anno i Queensryche si facevano beffe del teorema che una band di Seattle dovesse per forza fare grunge (per poi provarci fuori tempo massimo nel 1997, con "Hear In The Now Frontier"), facendo il botto nel 1988 con il concept album "Operation: Mindcrime". Ma, nonostante il grande successo dell'opera, quell'acuto non rappresentava un lavoro così sfacciatamente ispirato al rock progressivo di un tempo da farsene nuovo portabandiera. Già i Fates Warning puntavano con maggior intensità al connubio tra metal e prog, prima accennandolo nello stesso anno con "No Exit" per poi esplicitarlo da "Perfect Symmetry" in poi.
Ma mancava ancora la scintilla che avrebbe permesso al vecchio e bistrattato genere progressivo di tornare alla definitiva ribalta.

Tra i metallari di scuola "pensante" sopracitati, c'era un gruppo ancora acerbo e dal futuro incerto. Tre studenti della Berklee College Of Music di Boston, John Petrucci, John Myung e Mike Portnoy, insieme all'amico d'infanzia Kevin Moore, un introverso pianista/tastierista figlio di studi classici, avevano già nel curriculum un interessante esordio datato 1989. Quel lavoro, "When Dream And Day Unite", mostrava già doti tecniche notevoli unite a un'insana passione per tutti quei dinosauri che andavano forte negli anni Settanta, ma non evitò loro di venir scaricati dalla Mca Records.
Fu solo separandosi dall'allora vocalist Charlie Dominici, ritenuto non adeguato alle prospettive della band, e trovando dopo ben due anni di ricerche l'urlatore perfetto per i loro scopi, il canadese Kevin James LaBrie, che stupirono con un demo la ATCO Records ed ebbero l'opportunità di cambiare finalmente la loro vita.
In quei tempi non andava molto di moda roba come gli assoli di chitarra e avevamo una sensazione del tipo "Oh, siamo arrivati troppo tardi!". Ma in qualche modo l'album decollò e riuscimmo a sfondare.
(John Petrucci)
"Images and Words" uscì il 7 luglio del 1992. Le sue otto tracce, lunghe, alcune molto lunghe, portavano con loro tutti i trucchi ad effetto imparati dal trio di studenti della scuola di Boston insieme al tocco espressivo del classicista Moore e alla potenza da tenore di LaBrie. Brani che rapinavano a man bassa dal repertorio dei Rush - con quella batteria pestona del giovane Mike che seguiva il suo idolo Neil Peart - e da certo Aor fatto da Kansas e Journey, in tutta la sua pomposa sinfonia. Questo non escludeva, tuttavia, abbondanti riff figli di Metallica, Megadeth e compagnia metallara, così come power ballad ammiccanti.
Un disco che in fondo non inventava un bel nulla, riproponendo soluzioni già ideate da tempo immemore su altri lidi, in primis proprio dai Rush, unendole al metal come già avevano sperimentato i sopracitati Queensryche e Fates Warning. I molteplici tributi proposti in sede live dalla band sono del resto una sorta di candida e fiera confessione di questo fatto.

Quindi, perché proprio l'artefatto "Images and Words" di questi insolenti americani ha così prepotentemente imposto la sua influenza su tutto il prog-metal dei successivi venticinque anni, tanto da meritare un tour commemorativo proprio in questo 2017?
Il segreto di questo disco, la cui formula è ambita da tutti i suoi numerosi epigoni, risiede piuttosto nell'aver saputo riassumere con strabiliante efficacia tutti gli stereotipi dei suoi generi di riferimento in una formula accattivante: la velocità e lo strapotere fisico del metal, il guitar hero di turno Petrucci, le architetture contorte dell'art-rock, le orchestrazioni e i volteggi tastieristici del prog sinfonico, la potenza vocale scomposta dell'Aor e l'orientamento melodico-centrico dell'hair-metal a cavallo tra anni 80 e 90. Il tutto con un equilibrio miracoloso tra tutte queste componenti, ciascuna con i suoi riferimenti al rispettivo mostro sacro del passato, ma con quel tocco personale che riusciva ad andare oltre la mera citazione; una magia che si sarebbe gradualmente persa negli anni successivi.

Nonostante il tecnicismo sfacciato e ostentato, "Images and Words" offre un lotto di otto canzoni degne di esser chiamate come tali. Non quindi un informe pastone di scale, assoli e ampollosità varie, come sarebbe lecito ipotizzare a un primo distratto (o disgustato?) ascolto, bensì un progetto che lascia ben poco al caso. L'idea che certe scorribande siano aleatorie è meramente illusoria: i cambi di mood repentini, lo sfiancante contrappunto tra sezioni ricche di tempi dispari e chicche a sorpresa (fra episodi funky e chitarre spagnolesche), le aperture melodiche e i lenti languidi si alternano con naturalezza, mostrando una fluidità delle composizioni che difficilmente ci si aspetterebbe da una tale entropia di soluzioni stilistiche.
Abbiamo quindi brani fortemente distinti, ciascuno con la sua personalità: dall'inno metal di "Pull Me Under" alla ballatona epica e teatrale che piace alle ragazze "Another Day"; dalla schizofrenia funkeggiante di "Take The Time" alla suite intellettuale (e rushanissima) "Learning To Live"; dal finto pop sentimentale di "Surrounded", a tradimento claudicante e caratterizzata dallo squisito gioco di prestigio ritmico "Light to dark/ dark to light/ light to dark/ dark to light", al (ma tu pensa) minimalismo di "Wait For Sleep" che, a dispetto della sua veste distinta, va a intitolare il platter.
Ma la quintessenza del cliché sta tutta in "Metropolis: Part I", titolo scherzoso che solo il grande successo della band ha portato a un vero seguito (il buon "Scenes From A Memory" del 1999). "Metropolis" è forse il testamento più rappresentativo dell'estetica dei principi del prog-metal, per via della sua epicità tronfia e dell'immensa sezione strumentale che ha fatto allenare al basso, alla chitarra e alla tastiera legioni di giovani aspiranti virtuosi. A tal proposito, un altro equilibrio che ha motivato il successo di questo lavoro si regge nell'apporto tecnico dei cinque componenti, ciascuno con un'abbondante ed equa fetta di gloria a testa, neanche fosse un saggio di fine anno.

Tuttavia l'arte barocca di "Images and Words" non si consuma esclusivamente nel virtuosismo, ma anche nello spartito densissimo di decorazioni: le pennellate sparse ovunque da Petrucci, il continuo borbottare del basso di Myung, la batteria sovrastante di Portnoy e la tastiera di Moore, protagonista tanto quanto la chitarra e uno dei maggiori tratti distintivi di questi americani nei confronti della concorrenza del tempo.
Una nota a parte la merita Moore, portatore del lato romantico del gruppo la cui partenza a sorpresa nel 1994 inaugurerà per la sua ex-band una progressiva discesa verso quello che assumerà negli anni i contorni di un mero circo virtuosistico, contrapposta alla crescente gloria commerciale. Nel mentre, il pianista di Long Island getterà via gli eccessi "proggaroli" per tuffarsi nelle ataviche passioni elettroniche e amosiane, sfornando come Chroma Key il suo capolavoro personale "Dead Air For Radios" (impossibile non sentirci dentro un po' del "From The Choirgirl Hotel" da pochi mesi pubblicato dalla goddess of rock). In seguito i Fates Warning, probabilmente influenzati dal suo lavoro in "Images and Words", punteranno forte sulle sue tastiere per toccare il loro apice creativo con "A Pleasant Shade Of Gray" e "Disconnected", due lavori che entrano di diritto nell'olimpo del progressive.

L'approccio maniacale ed esagerato di "Images and Words" va comunque oltre l'aspetto strettamente musicale: notiamo la copertina fastosa, i testi astratti e zeppi di simbolismi, il divertissement nel booklet dove musica e testi diventano "images" e "words", l'uso massiccio di sample cinematografici, come la famosa "Ora che ho perso la vista, ci vedo di più" (da "Nuovo Cinema Paradiso") che impazzava nei licei dei neo-ascoltatori adolescenti italiani del tempo. Tutti segni dell'entusiasmo bruciante e giocoso di chi voleva sfondare a ogni costo e di una creatività mai più così viva e spumeggiante. Un'opera uscita nel peggior momento, tremendamente old-fashioned. Eppure a gran sorpresa di successo, anche per il modo in cui lo raggiunse: non fu la ruffiana "Another Day" a fare da cavallo di battaglia, come i cinque giovanotti pensavano, bensì toccò proprio al radio edit castratissimo di "Pull Me Under" di andare in rotazione su Mtv e contribuire all'agognato disco d'oro.
È evidente come "Images and Words" riuscì a colmare un apparente vuoto con una formula vendibile e accattivante, in buona parte replicata anche nell'Ep del 1995 "A Change Of Seasons", contentente la mastodontica suite omonima scartata in extremis dalla tracklist di questo album.
Il successore "Awake" seppe pure fare di meglio sotto molti aspetti, in primis quello della produzione, vero e proprio tallone d'achille di questo gioiello degli anni 90, pegno del difficilissimo rapporto con l'allora produttore David Prater. Come Mike Portnoy non manca mai di ricordare:
Io glielo avevo detto a Prater che odiavo i suoni campionati, lui ha fatto tutto di testa sua e ha triggerato la mia batteria in 'Images and Words'. Un suono senza dinamica, come di sua abitudine e tutta la finezza e il tocco sono spariti durante il missaggio. Molti hanno creduto che la mia batteria sia stata programmata, mentre in realtà è tutta suonata!
Ma "Awake", pur invecchiando meglio grazie a una produzione stellare e molti tra i migliori brani della storia della band, perde per un millesimo il confronto, raggiungendo la sua maturità e consapevolezza al prezzo di una verginità ormai perduta: quella impertinente, vulcanica e variopinta sfacciataggine che con "Images and Words" ha dettato il canone del progressive-metal, oltre a ottenere lo spiacevole side-effect di generare una legione di talebani del pentagramma che avrebbe presto reso i Dream Theater una delle band più amate e più odiate al tempo stesso, nel panorama musicale odierno. Più miliare di così...

22/10/2017

Tracklist

  1. Pull Me Under
  2. Another Day
  3. Take the Time
  4. Surrounded
  5. Metropolis, part I: "The Miracle and the Sleeper"
  6. Under a Glass Moon
  7. Wait For Sleep
  8. Learning to Live




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