Tori la rossa, la peccatrice in croce, la cornflake girl, la dea del fuoco (e del rock), la ragazza del coro, la venusiana, la viaggiatrice inquieta, l'apicoltrice, la bambola americana. Tante maschere e traiettorie per un percorso che, almeno per un decennio, ha attraversato il firmamento del songwriting al femminile. La sua freschezza impudente da eterna bambina, il suo rapimento tenero e ferito e il suo immenso talento da musicista rubata alla Classica si sono ritrovati in una sequenza di magiche ballate piano/voce che riportavano dritto ai tempi d'oro di Laura Nyro, Carole King e Kate Bush.
In un caso di stupro la cosa più dolorosa è sentirsi tradita. Da un'amicizia, ma anche da te stessa.
(Tori Amos)
Quello che di Tori Amos ha sempre lasciato stupefatti è la capacità di incantare col minimo degli orpelli. Può essere un'apertura melodica improvvisa – o anche solo un sussurro - a rischiarare trame all'apparenza ostiche e monocordi. Una forza emotiva dirompente, frutto di una personalità tanto istintiva quanto complessa e contraddittoria. Già, perché la rossa damigella del North Carolina fa parte di quella genia di cantautrici senza difese, che non riescono a scindere vita e arte, e riversano nella musica tutte le loro angosce cercando, a seconda dei casi, sfogo, espiazione, consolazione, catarsi. Così anche un caso di stupro può diventare una canzone: "Erano le cinque del mattino.../ Ero io e una pistola/ e un uomo alle mie spalle.../ E io cantavo 'Santo Santo', mentre lui si sbottonava i pantaloni", rivelerà in "Me And A Gun". L'episodio accade realmente a Los Angeles, una sera del 1985: è appena finito un suo concerto, Tori dà un passaggio in macchina a uno spettatore. Qualche chilometro più in là, l'uomo le punta una pistola alla tempia. La violenterà sul retro dell'auto. "In un caso di stupro - racconterà - la cosa più dolorosa è sentirsi tradita. Da un'amicizia, ma anche da te stessa. Non riesco ancora ad accettare di aver dato al mio aggressore l'occasione di sfogare il suo odio per me, per tutte le donne". Da allora, avrà sempre rapporti difficili con gli uomini, fino al matrimonio con il suo ingegnere del suono, Mark Hawley.
L'immagine da "sullen girl" - per citare un'altra cantautrice (Fiona Apple) che ha fatto della fragilità il suo fascino - da ragazza profondamente segnata dai traumi dell'infanzia, ha indubbiamente contribuito a creare un personaggio di grande impatto, condito anche da quel pizzico di sfrontatezza sexy che non guasta mai, nei videoclip e negli act dal vivo. È nato così, al fianco dei meritati riconoscimenti alla musicista, un piccolo mito, alimentato dal morboso culto dei fan, che le è valso perfino lo smisurato appellativo di "Goddess of rock".
Suonando Beethoven, sognando i Led Zeppelin
È una storia di contrasti laceranti, quella dell'inquieta Myra Ellen Amos: tra oppressione religiosa e sesso, morale e trasgressione, amori e rancori, ma anche tra gli studi classici e la sua smania di rock. Nasce a Newton, North Carolina il 22 agosto 1963. A tre anni sa già suonare il pianoforte, a quattro compone le prime musiche. "Ero una bambina freak con un buon senso del ritmo", ricorda lei. A cinque anni diventa la più giovane allieva del prestigioso Peabody Conservatory di Baltimora, nel Maryland, dove si è trasferita con la famiglia. Ma lo abbandonerà presto, per inseguire i suoi miti: i Led Zeppelin, Jimi Hendrix, i Doors. "Eseguiva alla perfezione le sonate di Beethoven, ma poi si stancava e attaccava le sue canzoni rock; così chiamavo i miei figli ad ascoltarla: rimanevamo tutti estasiati", ricorda Pat Springer, suo maestro di pianoforte dopo il conservatorio.
Mi masturbavo nella mia stanza mentre mio padre teneva riunioni di preghiera al piano di sotto.
(Tori Amos in "Icicle")
Da bambina-prodigio ad adolescente ribelle il passo è breve per la piccola "Tori" (il soprannome - in giapponese "pollastrella" - le verrà dato da un amico). In famiglia si respira un'America profonda e opprimente: la madre è una mezzosangue cherokee bacchettona, il padre un pastore metodista ultraconservatore, la nonna una calvinista, strenua predicatrice della verginità femminile. "Mi masturbavo nella mia stanza mentre mio padre teneva riunioni di preghiera al piano di sotto", racconterà in "Icicle". Ma nessuno poteva immaginare che un giorno il reverendo Amos avrebbe accompagnato la figlia a cantare nei pub gay di Georgetown. E sarebbe arrivato a dire, in un eccesso di orgoglio paterno: "Mia figlia è geniale, è il Mozart femminile dei nostri tempi". "Sì, perché oggi mio padre è diventato una specie di liberal", chioserà ironicamente lei.
Il conflitto tra libertà e religione ricorre ossessivamente nei testi della cantautrice di Newton. Come in "God", dove il rapporto con Dio acquista una provocatoria dimensione fisica. O come in "Crucify", in cui il senso di costrizione dell'infanzia riesplode in un violento j'accuse. Eppure la Amos non ha mai perso la fede in una religione universale: "Credo in un Grande Spirito, in una divinità di cui Maometto, Buddha e il Dio cristiano siano parte". Una ricerca che passa anche attraverso i miti dell'antichità: tra le sue letture preferite c'è la "Storia delle donne della mitologia classica" e ha dedicato un album alla dea del fuoco hawaiana.
Spiriti e spettri. Sono loro, in fondo, i principali protagonisti delle sue ballate. E forse sono solo le ombre dei suoi incubi di bambina, dei tetri racconti di Edgar Allan Poe che la madre le leggeva prima di dormire, quando aveva solo cinque anni.
Musicalmente, l'opera di Tori Amos nasce da un confronto febbrile tra voce e piano, su volteggi incrociati che si inseguono e si scontrano, fino ad amalgamarsi magicamente. Le sue fughe di piano sono sempre originali, innovative. E i suoi virtuosismi vocali, sempre un'ottava più su, sono sussurri e grida, intonati in un registro fanciullesco, che riecheggia quello leggendario di Kate Bush. Con il suo strumento preferito, ha un rapporto intimo, quasi fisico: "Quando tocco i tasti del piano sento la stessa energia di quando sono innamorata. È qualcosa che mi viene dalle viscere, qualcosa più forte del sesso". E la sua caratteristica postura, a gambe aperte, con il bacino buttato all'indietro, fa scalpore, attirandole persino qualche critica dalle femministe più bigotte.
Piccoli terremoti
Capelli lunghissimi, trucco aggressivo e stivaloni di finta pelle di serpente ai piedi, Tori Amos si fa notare esibendosi nei pub di Los Angeles. La gavetta le frutta un contratto con la Atlantic, per la quale pubblica Y Kant Tori Read (1988) insieme a una band in cui figurano Steve Farris (ex-Mr Mister), Matt Sorum (futuro batterista di Cult e Guns N'Roses), Vinnie Coliauta (Frank Zappa), Peter White (co-autore per Al Stewart) e Kim Bullard (ex-Poco).
Ma la confusione regna sovrana in questo pasticciato bricolage di stili, in cui Tori sfoggia un look alla Pat Benatar (guarda caso il produttore è lo stesso, Joe Chiccarelli) dimenandosi tra power-pop sguaiati ("The Big Picture", "Pirates", "You Go To My Head"), ammiccamenti alla dance ("Cool On Your Island" e "Floating City" fanno il verso a Madonna periodo "True Blue"), improbabili sconfinamenti nel rap ("Fayth"). In definitiva, solo "Fire On The Side", per quanto scipita, mostra qualche barlume di ciò che verrà.
Un colossale flop, insomma, che la stessa Amos ha poi rinnegato definendolo "Kate Bush e Madonna in rotta di collisione dopo aver mangiato funghi cattivi" (anche se oggi i suoi fan si svenano per averne una delle rarissime copie).
L'Atlantic, rimasta scottata, "esilia" temporaneamente la Amos in Gran Bretagna, per piccole collaborazioni. Per pagare l'affitto a Los Angeles, la Nostra è costretta ad accettare di girare uno spot per i cereali Kellogg's e di apparire come comparsa in qualche telefilm.
Tori però non demorde. Insieme al produttore artistico e fidanzato Eric Rosse, si rinchiude in studio e comincia ad abbozzare una serie di canzoni, suonate solo con l'accompagnamento del suo fidato piano, e poi sovraincise e arricchite con altri strumenti.
I crucify myself and nothing I do is good enough for you
I crucify myself every day
I crucify myself and my heart is sick of being
I said my heart is sick of being in chains
("Crucify")
Il vero e proprio debutto, così, avviene quattro anni dopo con Little Earthquakes (1992). La musica cambia ed è subito shock. Nonostante la veste scarna e spartana dei suoni, infatti, Tori Amos colpisce dritto al cuore, con un pugno di ballate intime e dolenti, che scoperchiano un calderone ribollente di sentimenti, passioni e rancori.
È stupefacente la compostezza con la quale la cantautrice di Newton allestisce le sue confessioni a cuore aperto, condensando in un sospiro, in una melodia, in una frase di piano, ciò che altre non riuscirebbero a esprimere con un'intera valigia di trucchi da palcoscenico. Questa pulsione drammatica covata sottopelle, quasi sempre inesplosa, unita alla peculiare sensibilità nel raccontare i piccoli e grandi traumi femminili, avvicina la Amos alle vette liriche alla somma Lisa Germano e alle contorte introspezioni psicologiche di Joni Mitchell. Ma il disco è anche la conferma di un vocalismo acrobatico e versatile, in cui il falsetto sublime di Kate Bush riaffiora spesso, ma ammantato da un ulteriore velo di sensualità e dolcezza.
Il diario delle confessioni di Myra Ellen si apre alla pagina 1 con il singolo "Crucify", la canzone che la farà scoprire al mondo. Una bomba infilata sotto i tasti del piano, dove a deflagrare non è la solita vena anticlericale di cui sono piene le fosse del rock, ma una dimensione quasi fisica della religiosità, opprimente e al tempo stesso irrinunciabile, che fa affiorare tutte le costrizioni e i fantasmi dell'infanzia vissuta all'ombra del padre-pastore: "Ogni giorno mi crocefiggo.../ ma niente che io faccia è abbastanza per te/ E il mio cuore è stufo di stare in catene". Musicalmente, è uno spiritual d'intensa drammaticità, trascinato dalle figure vorticose del piano e lasciato cullare su melismi quasi orientali (le vocali strascicate in libertà, a mo' di opera cinese). L'altra confessione-shock è "Me And A Gun", spietato resoconto a cappella dello stupro avvenuto a Los Angeles, che la Amos racconterà di aver trovato la forza di scrivere dopo aver visto il film "Thelma & Louise".
Poi, però, c'è la Tori musicista classica, che cesella la piece austera di "Silent All These Years" e l'incantevole "Winter", una delle sue ballate più memorabili: un carillon di piano, le volute eleganti degli archi, un canto di sirena, insieme tagliente e dolcissimo, e la progressione verso un'apertura melodica talmente struggente da spezzare il fiato in gola. In "Girl" e "China" affiora la vena più prettamente pop della Amos che troverà miglior espressione nei lavori successivi, mentre l'incalzante "The Happy Phantom" sprigiona inaspettate bollicine jazzy.
Se "Lether" e "Mother" spingono, rispettivamente, sul tasto della sensualità blues e dello scavo psicologico à-la Mitchell, brani come "Precious Things" - il più "rock" del lotto, con piano, batteria, basso e chitarra distorta - e "Tear In Your Hand", dall'accattivante riff di piano, lasciano aperti nuovi scenari a un songwriting che, pur ancora in via di perfezionamento, dimostra già tutto il suo eclettismo. La title track, infine, omaggia espressamente la musa Kate Bush nelle parti vocali, attingendo anche al suo immaginario etno-tribale ("The Dreaming"?), tra percussioni africane, ronzii di chitarre e cori da rituale voodoo.
Album innovativo, coraggioso, colmo di ambizione e talento, Little Earthquakes vende un milione di copie e proietta Tori Amos nell'olimpo del songwriting in rosa, catapultandola anche alla testa di quella carovana Lilith Fair che ne sarà l'espressione più popolare del decennio, almeno negli Stati Uniti. E pensare che il lavoro inizialmente era stato bocciato dalla Atlantic...
Nello stesso anno, sulla scia del successo, viene pubblicato l'Ep di Crucify, contenente quattro brani: la versione "remix" di Crucify, un altro brano estratto dal precedente disco ("Winter") e tre cover: "Smells Like Teen Spirit" dei Nirvana, "Thank You" dei Led Zeppelin e una "Angie" dei Rolling Stones rapinosamente sensuale.
Tori è ormai consapevole del suo Dna di cantautrice forbita e matura. Quando un presentatore tv le chiede di definire con poche parole la sua musica, risponde coniando una definizione singolare: "È molto simile a un miscuglio di peperoncini bollenti e yogurt alla vaniglia".
God, sometimes you just don't come through
Do you need a woman to look after you
("God")
Sotto il vestito, rosa
È così una grande attesa a precedere l'uscita di Under The Pink (1994), il disco della definitiva consacrazione sulla ribalta mondiale. Il titolo nasce da un'idea scherzosa - "Sotto i vestiti siamo tutti rosa" - ma i contenuti sono tutt'altro che rosei e spensierati.
Tori è ormai cantautrice e personaggio insieme: la sfrontatezza sexy, l'immagine da ragazza fragile e passionale hanno forgiato una figura di eroina rock (post)romantica che non può passare inosservata, specie in un'epoca musicale disperatamente a caccia di icone.
Nasce così la leggenda della "Goddess of rock", una divinità dalla chioma fulva, sensualmente avvinghiata al suo pianoforte e pronta a soddisfare la bramosia dei suoi sempre più numerosi fan. Sua più prosaica incarnazione è la "Cornflake Girl" che dà il titolo al fortunato singolo (e video) di traino dell'album: una ballata pop scandita da un piano sovreccitato, sghembo, irrefrenabile, che contrappunta i vocalizzi spericolati della chanteuse. Ma fin da qui emergono chiaramente i progressi in sede di produzione e di arrangiamento: suoni più ricchi e pastosi innervano le trame esili disegnate dal Bosendorfer a gran coda (da ora in poi vero feticcio della Amos), in un susseguirsi di trovate ed effetti sonori. Il sound scheletrico dell'esordio, insomma, non perde il suo fascino ancestrale, ma si arricchisce e decolla in veri e propri inni, come "God", nuova delirante invettiva sulla religione vissuta in una dimensione carnale ("God, sometimes you just don't come through/ Do you need a woman to look after you"), tra chitarre distorte e ritmi sincopati, o come "Past The Mission", dove un sinistro giro di piano e un organo quasi gospel allestiscono un clima teso e solenne (nel ritornello del coro, un cameo dell'amico Trent Reznor).
Amos padroneggia queste partiture con classe da consumata performer: emancipatasi dal nume-Bush, ne rinnova l'infervorato eclettismo a cavallo del suo piano, spaziando da piece di solenne classicità ("Pretty Good Year", "Icicle", "Baker Baker") a spiazzanti affabulazioni rock ("Space Dog", squassata da ritmi tribali), da saggi di folk-pop raffinato ("Cloud On My Tongue") all'apoteosi orchestrale della conclusiva "Yes Anastasia", lunga ballata epica dedicata alla Granduchessa di Russia uccisa dai bolscevichi insieme al padre, alla madre e alle sorelle.
Ma se tutti questi brani dimostrano la crescita della Amos-musicista, chi è rimasto rapito dalla sirena incantatrice dell'esordio non potrà non subire il fascino di due semplici perle, nascoste sul fondo di questo scrigno: la filastrocca di "Bells For Her", cantilenata con un filo di voce su un pianoforte-carillon modificato (primo esperimento in tal senso, che verrà sviluppato meglio sui dischi successivi), e la struggente ode di "The Wrong Band", numero da cabaret che si scioglie in una umile, struggente apertura melodica. Resta meno a fuoco, invece, l'esperimento di "The Waitress", in cui Tori prova a iniettare qualche dose di elettronica nel suo suono.
A favorire l'exploit dell'album, che venderà oltre tre milioni di copie nel mondo, sono anche i testi, molto personali, diretti e vibranti, che si colorano di tutte le sfumature dell'animo femminile, esorcizzando ancora una volta i traumi del passato e i fantasmi di una religiosità morbosa e soffocante.
Se il piano tornerà a occupare un ruolo consistente in tanto songwriting a venire, sarà anche merito di queste dodici ballate in rosa.
Con "Boys For Pele" ho attraversato il fiume Styx. Mi ha portato a migliorare il mio rapporto con gli uomini
(Tori Amos)
Due anni intensi e sofferti traghettano Tori Amos verso la fatidica opera terza.
Boys For Pele (1996), inciso in Irlanda, nella cattedrale di Delgany, porta le cicatrici della separazione dal fidanzato-produttore Eric Rosse: "Ho attraversato il fiume Styx con quell'album - spiega la cantautrice americana - mi ha portato a migliorare il mio rapporto con gli uomini". In realtà, leggenda vuole che risalga all'epoca anche la fine della presunta storia con Trent Reznor e la rivalità con Courtney Love, cui sarebbe "affettuosamente" dedicata "Professional Widow". Fatto sta che la tenera cornflake girl ha tirato fuori gli artigli, iniziando a menare fendenti a tutti i "Judas" di questo mondo, tra invettive al vetriolo e amarezze celate dal disincanto.
Si respira un clima inquieto e misterioso fin dalle foto che accompagnano il cd: la copertina ritrae Tori versione cowgirl, sporca di fango e seduta davanti a una capanna di legno imbracciando un fucile, con la selvaggina appesa al soffitto (immagine che susciterà l'indignazione dei movimenti animalisti americani); nel booklet si susseguono ombre, spettri e figure di bambini dietro le finestre della capanna, la stessa Amos che allatta un maialino (!) e un vecchio piano a coda in fiamme, riflesso in una pozzanghera.
Intitolato alla dea hawaiana del fuoco, Boys For Pele è il suo lavoro più ermetico, con brani scarni, oscuri, di ostica, impenetrabile bellezza. Nei suoi 70 minuti, però, emerge anche per la prima volta il difetto che macchierà molte produzioni future: la tendenza a una prolissità che rasenta spesso l'autocelebrazione. Insomma, stavolta i riempitivi non mancano, pur restando sempre pochissimi rispetto a quanto accadrà in seguito.
"Caught A Lite Sneeze" è il singolo che dovrebbe rinnovare l'appeal electro-pop di "Cornflake Girl", ma rivela subito strutture più complesse: un drumming tumultuoso, armonie sconnesse di clavicembalo (lo strumento-rivelazione del disco, suonato quasi come una chitarra elettrica) e un filo di melodia, tenuto in piedi dal vocalismo spericolato della Amos. "Professional Widow" osa ancora di più, scatenando un boogie selvaggio per piano e clavicembalo, lanciato al galoppo dalle percussioni e mandato in gloria dal gospel finale, dove ad assecondare un canto sempre più distorto resta solo il piano. E persino un interludio come "Mr. Zebra" diventa l'occasione per uno spettacolare numero da musichall tra trombe e tromboni.
La baby-prodigio della Classica riemerge dietro il clavicembalo rinascimentale di "Blood Roses" ma il trait d'union con le produzioni precedenti è ancora una volta nelle ballate pianistiche, sempre intense e struggenti. L'iniziale "Horses" è un sogno rinchiuso in un carillon di cristallo; la meravigliosa "Hey Jupiter" decolla su un'altra delle sue melodie mozzafiato, in uno stillicidio di malinconie e livori, scatenati dall'indifferenza dell'amato di fronte al trauma della separazione; il madrigale di "Father Lucifer" inventa un coro a tre voci sovrapposte dove la Myra Ellen bambina fa il controcanto a se stessa, tra rintocchi distorti del piano e lievi inserti di tromba e chitarra; "Doughnut Song" ripete l'esperimento della voce trina virando verso languori soul; la tenera "Muhammed My Friend" sfodera un'intro pianistica ad effetto e un altro testo provocatorio su temi religiosi ("Muhammed, è tempo di dire al mondo che si trattava di una ragazza laggiù a Betlemme"); la suicide-story di "Marianne" è un abisso di mestizia scavato attorno a sparute frasi di piano.
In pieno delirio di onnipotenza, la Amos si fa prendere la mano dalla voglia di strafare, mescolando addirittura cadenze techno-rock e fughe barocche ("Talula"), afrori gospel-blues, clavicembali classicheggianti e cornamuse celtiche ("In The Springtime Of His Voodoo"). Fino a ritrovarsi sola accanto al suo Bösendorfer a bisbigliare la litania di "Twinkle", che chiude l'album nel segno di una (forse) ritrovata serenità.
La perdita della bambina che aspettavo è stata il seme della mia musica: mi ha riempito di dolore, ma, paradossalmente, mi ha anche dato il coraggio di parlare della vita e della sua forza.
(Tori Amos)
La ragazza del coro
Il "Pele tour" che ne segue è un altro successo, ma la vita riserva a Tori una nuova ferita: la perdita della bambina che aspettava, al terzo mese di gravidanza: "Non puoi tornare a essere la persona che eri prima di aver portato la vita dentro di te. Passavo dalla rabbia al dolore. È stato il seme della mia musica, mi ha riempito di dolore, ma, paradossalmente, mi ha anche dato il coraggio di parlare della vita e della sua forza", racconterà presentando From The Choigirl Hotel, il disco che nel 1998 suggellerà il suo decennio magico. Ma il trauma lascerà il segno e due brani del disco faranno riaffiorare i sensi di colpa: "Lei sa muoversi come un ghiacciaio/ ma non riesce a far vivere una bambina" ("Spark"), "Non giudicarmi così severamente, piccola, hai una mamma playboy" ("Playboy Mommy").
Forse proprio per scuotersi dal dolore e dall'autocommiserazione, l'ex-"ragazza al piano" imprime una nuova svolta alla sua musica, spingendo forte sul pedale del ritmo: "Non volevo più essere isolata, volevo suonare con altri musicisti, con la chitarra, il basso, la batteria. Volevo usare il ritmo in modo inedito". Per questo l'album viene registrato con una tecnica curiosa: in una stanza Tori al pianoforte, in un'altra il batterista Matt Chamberlain. I due dialogano da un monitor, ma lavorano in ambienti separati. Il resto della strumentazione viene aggiunto in seguito.
I rischi di un'operazione simile potevano essere due: affogare il sound di Tori in un guazzabuglio caotico e frastornante, lasciare briglie sciolte al suo talento di musicista privilegiando versatilità (e prolissità) all'affinamento della scrittura. Fortunatamente, invece, entrambi i pericoli vengono scongiurati grazie a un miracolo d'equilibrio che non si ripeterà più nei dischi successivi.
Ecco così le pulsazioni martellanti di "Spark" a introdurre uno spietato autoritratto illuminato dalla consueta radiosità melodica, la techno vorticosa di "Raspberry Swirl" per uno dei pezzi più travolgenti del suo intero repertorio, la danza tribale e distorta di "Iieee" o ancora le cadenze trip-hop della sofisticata "Cruel" e della sensuale "Liquid Diamonds". Brani aggiornati al suono più avanzato e cool di fine decennio, eppure sempre animati da quel pathos ancestrale, da quella tenera sfrontatezza di bambina che avevano scatenato i "piccoli terremoti".
Resta l'ombra confortevole di Kate Bush ad accarezzare il falsetto di "Black Dove", seppur dietro coltri di elettronica e muraglie di percussioni. Si rinnovano i raffinati numeri da piano-cabaret ("Playboy Mommy"). Ed è ancora viva la capacità di incantare senza trucchi: pochi rintocchi di piano, il respiro magico dei violini, un canto che è prodigio allo stato puro e una capacità melodica che ha pochi eguali nel songwriting femminile contemporaneo, ed ecco "Jackie's Strength", dedicata al mito di Jacqueline Kennedy, e la non meno commovente "Northern Lad", due delle sue ballate più belle di sempre.
Tori Amos si conferma musicista di razza prima ancora che cantautrice e vince a mani basse la scommessa più azzardata della sua carriera: rivoluzionare il suo sound senza minimamente snaturarlo. Purtroppo, però, sarà anche l'ultima prodezza di una carriera che da qui in poi si aggroviglierà sempre più, imboccando una brusca discesa.
I primi segnali di confusione arrivano un anno dopo con il doppio To Venus And Back, un collage di pezzi inediti, b-sides ed esibizioni live, registrato nello Studio Martian, in Cornovaglia, e in giro per il mondo durante il tour "Plugged '98". La miracolosa misura trovata all'albergo Choirgirl è solo un ricordo e quel rischio di "dissociazione" di Tori dalla sua musica scongiurato nell'album precedente diviene qui triste realtà: prendono il sopravvento i suoni, gli arrangiamenti, i sessionmen. E resta ben poco di personale e originale alle corde di una Amos che non rinuncia a esplorare i suoi tormenti (l'autoritratto di "Bliss" e la sconvolgente "Juarez", cronaca di uno stupro collettivo nel deserto messicano) ma appare ormai spaesata e, per la prima volta, incerta in fase di scrittura. Quando si ritrova, davanti al suo piano ("1000 Oceans"), o alle prese con l'amato clavicembalo ("Glory Of The 80's"), il suo talento di balladeer risplende ancora ("1000 Oceans"), e nel cd live si conferma performer di tutto rispetto, ma Tori sembra davvero aver smarrito la sua formula magica.
Paradossalmente, alle esitazioni sul piano artistico fa da contraltare una ritrovata serenità nella vita privata: sposata dal 1998 con il suo tecnico del suono, Mark Hawley, Tori sembra aver superato il trauma dell'aborto e si avvia a una felice esperienza familiare.
"Ho pensato a come alcuni uomini odiano davvero le donne e ho voluto costruire una specie di ponte tra questi due universi.
(Tori Amos)
Nel 2001 Tori Amos torna con Strange Little Girls, un album di cover in cui reinterpreta da par suo brani di Tom Waits, dei Beatles, di Eminem, di Neil Young, di Lou Reed e altri. "In Florida - ha raccontato la cantautrice statunitense - stavo ascoltando un sacco di artisti maschi nelle cosiddette radio alternative e alcuni di loro cantavano di odiare veramente le donne. Ho pensato a quello che gli uomini dicono delle donne e ho voluto costruire una specie di ponte tra questi due universi, pensando che fosse il solo modo per entrare nella testa di questi uomini".
Nascono così dodici storie al femminile che Tori fa rivivere in chiave appassionata e sensuale. Non si tratta, comunque, di un disco riuscito e la sensazione predominante che suscita è il desiderio di nuove composizioni originali (non il massimo per un disco di cover).
Il nuovo flop spinge la Atlantic a dare il benservito alla Amos, che passa alla Sony/ Epic. Ultimo atto del sodalizio burrascoso, ma tutto sommato fortunato, con la Atlantic sarà Tales Of A Librarian (2003), una raccolta (non proprio esaustiva) dei suoi successi.
La protagonista del disco incontra sulla sua strada vari personaggi, che interpretano l'America stessa e offrono spunti di riflessione in un mondo che ha perso il suo senso etico.
(Tori Amos)
Viaggi a colori
Chiusa una pagina cruciale della sua carriera, Tori si rintana in studio per incidere Scarlet's Walk, concept-album ideato quando era incinta della figlia Natashya e subito dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre. Ispirato in parte ai racconti della madre sulla storia della sua famiglia Cherokee e in parte alla crisi d'identità dell'America di oggi, è un romanzo in musica, un viaggio epico e simbolico. La protagonista Scarlet incontra sulla sua strada vari personaggi, che "interpretano l'America stessa e che mutano da tappa a tappa - spiega Tori Amos - offrendo spunti di riflessione e di scoperta di se stessi in un mondo che ha perso il suo senso etico". Da Los Angeles all'Alaska, fino a Little Big Horn (ultime propaggini della civiltà dei nativi) e alle Bad Lands, si delinea così una serie di figure: dalla prostituta Amber alla maniaca depressiva "Carbon", fino all'affascinante e pericoloso "Crazy".
Colpisce subito il non aver concesso troppo al protagonista degli album precedenti: il pianoforte. Fin dai brani iniziali, "Amber Waves" e "A Sorta Fairytale", infatti, lo strumento principe viene tenuto a bada per non appesantire la limpida linea melodica e per far risaltare i cori, mai così presenti in un lavoro della Amos. È un viaggio e quindi musicalmente lo si deve "accompagnare". Dalla gioia iniziale dei primi brani, con l'ammiccamento swing di "Wednesday", il tono diventa già cupo in "Strange" e ancor di più in "Carbon" e "Crazy". Man mano che si procede si incontrano varie culture e influenze. Ecco, così, le percussioni e i ritmi in "Don't Make Me Come To Las Vegas" e in "Sweet Sangria". Poi, le soste rilassanti di "Your Cloud" e "Pancake", prima della drammatica "I Can't See New York", che risente inevitabilmente del clima post-11 settembre. L'atmosfera è resa dolorosa dal pianoforte in crescendo, che accompagna la sua voce. Necessaria la sosta nella città che deve andare avanti. Ma è lo stesso viaggio di Scarlet che deve andare avanti e non fermarsi alla tragedia.
Il viaggio finisce con il compleanno della figlia di Tori, con il messaggio di speranza che questo comporta. Una speranza resa anche dalla tecnica vocale, che non si concede al virtuosismo, ma è diretta, quasi sottovoce e malinconica. Attenta a tutte le sfumature. E anche dalla scelta della direzione artistica. Da Boys For Pele del 1995, colori scurissimi avevano caratterizzato tutti i suoi lavori. Esemplare la cover dark di To Venus and Back. La copertina di Scarlet's Walk è invece un bellissimo e gioioso trionfo di colori.
Verboso polpettone on the road, l'album concede comunque qualche episodio di pregio e denota se non altro le intatte ambizioni della Amos, vogliosa di uscire dal cul de sac in cui è rimasta intrappolata. Al suo arco, però, cominciano a mancare le frecce: le canzoni.
Moglie felice e finalmente mamma, Tori Amos appare in splendida forma nel reportage fotografico che le ha dedicato un mostro sacro della fotografia musicale come Mick Rock. Sul versante artistico, però, le idee restano poche e confuse. E anche il nuovo album The Beekeeper (2005) è una delusione. Eppure non mancavano i motivi d'interesse attorno al nuovo progetto dell'ex-cornflake girl. A cominciare dalle fascinazioni irlandesi che l'avevano irretita, spingendola a comprare una villa georgiana nella contea di Cork (la sua residenza attuale è però in Cornovaglia, Inghilterra) e a collaborare con il cantautore Damien Rice, astro nascente dell'Isola verde, appena reduce dall'exploit di "O". C'era poi la curiosità di vedere Amos alle prese con il suo personale amarcord, tra cori gospel, percussioni afro-cubane e tastiere vintage. E intrigava lo stesso spunto narrativo dell'album: il racconto delle atrocità della guerra filtrato dal rapporto materno di Tori con la piccola Natashya.
The Beekeeper (2005) propone 19 tracce che scorrono piatte, senza il minimo guizzo, affogate in arrangiamenti bolsi e stucchevoli. Tori canta col freno tirato, lontana dai gorgheggi acrobatici che l'hanno resa celebre. Piano e organo tessono il canovaccio di base, con inserimenti sporadici degli altri strumenti, percussioni in primis. Dominano le tinte calde e i timbri soffusi, con aromi funky e jazzy sparsi e un retrogusto vagamente soul-gospel. La voce di Tori è spesso doppiata, ma con esiti dubbi, come nell'iniziale "Parasol", che cerca invano di ritrovare quell'equilibrio tra ritmo e melodie che aveva fatto la fortuna di From The Choirgirl Hotel. Nel voodoo-boogaloo di "Hoochie Woman" l'ex-soprano azzarda perfino un registro profondo alla Chrissie Hynde che non le è congeniale.
Delude anche l'episodio più atteso, il duetto con Damien Rice in "The Power Of Orange Knickers", piatto e monocorde. Amos torna a graffiare per un attimo quando si cala nei panni della gatta sensuale di "Sweet The Sting", con cori gospel sudisti a far da contorno a un accattivante ritmo funky-soul: è l'unica traccia che potrebbe meritare un posticino in un suo ideale "Best Of". Gli strateghi della Sony, però, le hanno preferito come singolo una delle ballate più ottuse del lotto, quella "Sleep With Butterflies" che occhieggia maldestramente ai Coldplay. "Jamaica Inn" prende il nome dall'omonimo romanzo di Daphne Du Maurier, mentre l'ode di "Ireland" non ha alcuna parentela con il folk celtico, ma vira semmai verso il più banale easy listening, impantanandosi in una nenia biascicata con coretti "sha-la-la" di contorno.
Cinque bambole americane
Testardamente decisa a portare avanti questo sciagurato programma di megalomania autodistruttiva, Tori Amos sforna ben ventitré brani nuovi per un nuovo, ambiziosissimo concept-album: American Doll Posse (2007). Per l'occasione si moltiplica in cinque, inventandosi altrettanti figure femminili/divinità (Isabel/Artemide, Clyde/Persefone, Pip/Atena, Santa/Afrodite e Tori/Demetra) che si contrappongono al bieco universo maschilista incarnato dall'America teo-con di George Bush, cui viene rifilata anche l'esplicita invettiva che apre il disco ("Yo George").
Inutile dire che il passo è decisamente più lungo della gamba: il filo del discorso "politico" si ingarbuglia presto, ancor più della traballante struttura musicale. Ma in fondo è di quest'ultima che importa di più e, nonostante la concentrazione estenuante di riempitivi, non tutto è da buttar via. Va in primo luogo riconosciuto il piglio battagliero con cui Tori allestisce questo torrenziale "musical", destreggiandosi tra piano, piano elettrico, wurlitzer e clavicembalo, e cantando anche tutti i cori. Per cercare di corroborare un sound che stava ormai agonizzando, poi, sceglie di farsi accompagnare da una band robusta - chitarra, basso, batteria - che porta in dote un'impronta più marcatamente rock. Le chitarre di Mac Aladdin, in particolare, donano energia ai brani più aggressivi, anche se non sempre l'esito è felice.
Brani taglienti e aggressivi come "Bouncing Off Clouds", "Fat Slut" e "Smokey Joe" tentano di ritrovare la verve smarrita all'hotel della ragazza del coro. "Code Red" prova a riscaldare l'atmosfera spingendo sulle tonalità più calde della voce. Altrove, però, Tori appare palesemente a disagio, come quando gioca alla rocker facendo la voce grossa su "Teenage Hustling" (costruita su un muro elettrico di chitarre) e scimmiottando PJ Harvey su "Body And Soul". E a un'attrice fuori parte assomiglia anche la pre-war folkster persa tra gli arpeggi di "Devils And Gods".
Meglio, semmai, numeri più "teatrali" come "Programmable Soda", breve pantomima che fa il verso ai Beatles con tanto di tuba ed eufonio, "Velvet Revolution", una imprevedibile mazurca balcanica con mandolini e ukulele, e "Mr. Bad Man", che gioca la carta (invero un po' abusata) del musichall gigionesco.
Anche sul fronte delle ballate, Tori segna il passo ("Roosterspur Bridge", "Almost Rosie"), tornando a brillare solo nel respiro lirico di "Digital Ghost" (forse il vero acuto del disco) e nell'altrettanto ariosa "Girl Disappearing", sospinta dagli archi d'atmosfera arrangiati e diretti da John Philip Shenale.
Dannatamente prolisso e pretenzioso, American Doll Posse appare come un disperato tentativo di uscire da un impasse artistico che dura ormai da quasi dieci anni. Un tentativo tanto generoso, quanto pasticciato, ma quantomeno un segno di ritrovata vitalità dopo l'encefalogramma piatto dell'Apicoltore.
Non c'è verso, però, di arginare la prolificità fuori controllo della Amos del 2000. Così, dopo i diciotto brani di Scarlet's Walk, i diciannove di The Beekeeper e i venti (più tre) di American Doll Posse, eccone altri diciassette e altrettanti visualette (filmati d'accompagnamento diretti dal regista Christian Lamb e inclusi nel Dvd dell'edizione deluxe) per Abnormally Attracted To Sin (2009), suo decimo lavoro sulla lunga distanza, nonché debutto per la Universal.
Il "concept" stavolta è la definizione di "potere e di successo nelle relazioni interpersonali", in un mondo "capovolto dalla crisi economica", aggiunto alle solite ossessioni sessuali e religiose. Fil rouge già di per sé esile e che non può non sfrangiarsi nell'arco dei settantatré minuti di un disco che regala comunque qualche accento lirico degno di nota, soprattutto nei bozzetti femminili. Musicalmente, invece, siamo al cospetto dell'ennesima abbuffata di stili, scandita da batterie elettroniche downtempo e dal drumming di Chamberlain. Anche gli arrangiamenti sono sempre un po' saturi - archi, piano chitarre, elettronica - con la voce che ne esce a volte offuscata, quasi fosse trattenuta rispetto ai voli epici dei tempi d'oro.
La partenza però, a dirla tutta, è delle più convincenti dai tempi di From The Choigirl Hotel: il trip-hop à-la Portishead di "Give" è una folgorazione elettrica che ridesta da anni di torpori, col suo possente drumbeat e i volteggi vocali della Amos a planare su un robusto tappeto di piano, synth e chitarre. Anche il singolo "Welcome To England" si mantiene a galla, tra interplay synth-piano e un refrain di facile presa. Ma già "Strong Black Vine" scivola in un'aggressività sopra le righe, enfatizzata dagli archi e dalla batteria. E da qui in poi l'ascolto si fa sempre più laborioso...
A uscire dal limbo dell'anonimato sono quei brani in cui Tori va alla ricerca di soluzioni nuove: il musichall di "That Guy", il cabaret di "Mary Jane" e soprattutto il soft-jazz ipnotico di "Lady In Blue", con il trascinante crescendo finale di piano e chitarra elettrica. Anche la Tori balladeer fatica a estrarre dal cilindro quei prodigi melodici che l'hanno resa celebre: fanno eccezione la struggente "Maybe California", che costruisce attorno agli archi e al dramma di una madre californiana suicida il brano migliore del disco, e la title track, forte di un bel giro di Hammond e di una interpretazione vellutata.
Non mancano, purtroppo, oltre ai tanti riempitivi, alcune clamorose scivolate nel kitsch: pezzi come "Not Dying Today", "Police Me" e "500 Miles" forse non sarebbero riusciti a entrare nemmeno nella tracklist del famigerato Y Kant Tori Read.
In definitiva, sarebbe bastato semplicemente dimezzare i brani, per ottenere un disco, se non memorabile, quantomeno sufficiente.
Nello stesso anno, la Amos si gioca anche la carta dell'"album invernale", particolarmente in voga negli ultimi anni come surrogato più nobile del classico disco natalizio usa e getta, come testimoniano anche gli esperimenti recenti di Sting ed Enya.
Midwinter Graces (copertina più brutta dell'anno, secondo Pitchfork) è un prodotto ben calibrato, coi suoi lambiccati e barocchi arrangiamenti (pianoforte, fiati, archi, clavicembalo, campane...), col suo ripescare brani tradizionali risalenti prevalentemente dal quindicesimo al diciottesimo secolo e spesso fondendoli tra loro per crearne degli inediti da affiancare a brani composti appositamente per l'occasione. La Amos svolge con eleganza il suo compitino, sussurrando e accarezzando, finendo però per somigliare più a un'adulta cantautrice folk stile Loreena McKennitt che a quella ribelle pianista rock che duettava con Trent Reznor e musicava private confessioni. Insomma, la Amos è ben lontana dal raggiungere le vette espressive del passato e, per forza di cose, l'album suona un po' noioso e a tratti lezioso (con tanto di duetto con la figlia).
Si salvano alcuni arrangiamenti più classici che non inseguono goffamente l'hit da classifica e che a sprazzi fanno tornare in mente certe atmosfere "fredde", certe ninne nanne degli esordi ("Winter's Carol"). Certo, sono ancora latitanti la sua voce più squillante e tagliente, la tensione drammatica che da questa scaturiva e le sfuriate al pianoforte a cui ci aveva abituato ma forse questo non era il progetto più adatto per sfoderare queste armi e ahimè, dopo anni di delusioni, basta un solo momento davvero brutto, ovvero il trattamento riservato a "Harps Of Gold", spaventosamente kitsch, per piombare nuovamente nello sconforto e temere che "quella" Tori Amos non tornerà più.
Sempre più levigata, smussata d'ogni asperità, la musica di Tori Amos sembra seguire sinistramente la stessa piega del suo aspetto fisico, di quei suoi capelli ch'erano rosso fuoco e riccioli incolti e sono diventati innaturalmente ramati o parrucche lisce come la seta, di quel suo bel volto sexy e sbarazzino, oggi tirato a lucido come una bambola di porcellana. Ma sotto la cenere cova ancora il fuoco di un talento unico che, se saprà ritrovarsi con la giusta convinzione (e misura), potrà ardere ancora.
Our language of love
The Battle of Trees
We fought side by side
No one had more
("Battle Of Trees")
Abbandonata ogni tentazione pop da classifica, in Night Of Hunters, uscito nel 2011 per la prestigiosa Deutsche Grammophon, la Amos costruisce i brani su un'impalcatura classica, col suo Bösendorfer in primo piano, finalmente, e nuovamente, arioso e avvolgente, e un quartetto d'archi, più legni assortiti, quale ricco contorno.
Le partiture consistono tutte in variazioni di note arie classiche (Schubert, Chopin, Bach, Satie e Debussy tra i tanti compositori selezionati) e l'aspetto musicale è quello più riuscito, con arrangiamenti eleganti e perfettamente cesellati che creano quasi un lungo continuum, un piacevole ma a tratti narcotizzante flusso sonoro in cui però le nuove melodie della Amos, stavolta troppo lente e mutevoli, quasi inafferrabili ai primi ascolti, finiscono col perdersi un po', diluendo la loro tensione emotiva (succede nelle comunque affascinanti "Battle Of Trees" e "Star Whisperer" o nella vibrante apertura di "Shattering Sea"). Non è il caso, però, degli squarci emotivi di "Fearlessness", di diritto tra le sue composizioni migliori, o di altri brani che resistono al confronto col passato come la dondolante "Nautical Twilight", "The Edge Of The Moon" e l'agrodolce "Your Ghost".
Completamente fuori luogo, invece, la scelta di lasciar cantare la figlia nemmeno adolescente in ben quattro brani: una voce è ancora troppo acerba e infantile per sposarsi con un progetto così serioso. Eppure uno dei brani in questione, l'orecchiabile "Job's Coffin" (unico interamente originale, tra l'altro), nel quale Natashya si atteggia a novella Adele, vanta una delle melodie più leggiadre.
Night Of Hunters è un disco più importante che bello, perché dietro c'è comunque più mestiere che istinto, perché forse necessitava di qualche sussulto in più, perché a volte pecca di presunzione e non sempre regala canzoni davvero memorabili, però ci restituisce un'artista che sembrava ormai svanita e che adesso ritroviamo, sì, più adulta e addomesticata, ma ancora capace, fortunatamente, di regalare qualche brivido.
Il 2012 è la volta di Gold Dust, una raccolta comprensiva di 14 vecchie composizioni riarrangiate in studio con l’immancabile pianoforte e l’ausilio della Metropole Orchestra. “Le canzoni presenti hanno cambiato la mia vita, e io ho cambiato la loro” ha detto Tori “questa è un’occasione per ricantarne alcune con una prospettiva moderna, e vedere come sono cresciute nel corso degli anni”. La varietà dei pezzi prescelti è ottima e tutt’altro che scontata: uno sguardo quasi completo alla carriera (si va da Little Earthquakes del 1992 fino al penultimo Midwinter Graces del 2009) che raccoglie brani noti (non solo pubblicati come singoli) ma anche diverse rarità’ e b-side.
Tuttavia una cosa la si nota subito: la stragrande maggioranza dei brani presenti appariva già in versione “orchestrale” nella forma originale. Si nota giusto un’interpretazione vocale più matura e ingentilita (sempre d’effetto), ma pur con tutta la buona volontà che possiamo metterci i nuovi arrangiamenti aggiungono zero a ciò che già conosciamo: “Jackie’s Strenght”, “Cloud On My Tongue”, “Winter”, “Girl Disappearing”, lo stacchetto di “Programmable Soda”, quella “Silent All This Years” che ancora manda brividini lungo la schiena, la quasi bollywoodiana “Star Of Wonder”, “Marianne” (che si salva giusto per un rinnovato intermezzo che fa balzare dalla sedia) o la stessa “Gold Dust” suonano praticamente identiche a prima. Due violini in più e una batteria in meno non fanno primavera, e tralasciamo poi il fatto che la sezione di fiati (che era a disposizione lì accanto e avrebbe magari potuto aggiungere qualcosa d’inedito) viene tenuta talmente a freno che si sente su pochissimi brani. In poche parole, qualunque nuova maturità abbiano raggiunto queste canzoni nella mente di Tori non viene tradotta per le nostre orecchie. Sono sempre belle, pure, ma oltre all’autrice stessa chi può veramente riuscire a coglierne il nuovo “significato”? Ma, soprattutto, chi ne sente il bisogno?
Pertanto la rivisitazione funziona un po' meglio su un pezzo come “Precious Thing”, lasciato curiosamente in sospensione senza le sfuriate ritmiche del passato, e sulla suite “Yes, Anastasia” che, pur dimezzata di durata, mostra un impasto orchestrale sempre ricalcato dagli spartiti originali ma notevolmente più denso e drammatico. Il pezzo più riuscito è probabilmente il nuovo singolo “Flavor” (da Abnormally Attracted To Sin) che, spogliato della velleitaria ritmica pseudo-elettronica dell’originale, infila una sezione d’archi lanciati in uno spettacolare volo cinematografico dai toni bondianisul quale la voce di Tori va in ascesa verso le glorie del passato. Tuttavia dall’altro lato ci sono anche episodi piuttosto deludenti, come “Snow Cherries From France” e “Flying Dutchman” che con tutti quei tappeti d’archi in sottofondo finiscono col perdere di fascino.
Gold Dust rimane un passaggio a vuoto. Sarà un disco utile giusto per lei, che può tener d’occhio le sue creature mentre muovono i primi passi verso l’eta adulta, e forse piacerà all’affiatata cerchia dei fan più stretti, ma il dubbio sull’utilità della sua stessa esistenza è un macigno che pesa e a tratti sa quasi di presa in giro.
Conclusa l'esperienza con Deutsche Grammophon, Tori Amos si prepara ad affrontare nel 2014 una prova senza appello dopo la tiepida risalita con Night Of Hunters: tornare a produrre lavori convincenti dopo ben cinque anni dall'ultimo album di inediti.
Unrepentant Geraldines (2014) è un passo felice in questa direzione, proponendo un riuscito mix di melodie catchy, spezzate da intuizioni ispirate e finalmente libere dai bolsi arrangiamenti della precedente decade. Il tutto con una ritrovata naturalezza e sobrietà che sembravano ormai perdute per sempre. Tori è ora una donna cinquantenne che, forse consapevole degli errori del passato, decide di fare marcia indietro e tornare alle proprie origini. Ma il ritorno è interiore ancor prima che stilistico, mirato più a ripristinare il dialogo personale con il suo Bösendorfer che a inseguire facili autoreferenzialismi. Non mancano anche sperimentazioni elettroniche ("16 Shades Of Blue") e sorprendenti omaggi ai primi Police ("Unrepentant Geraldines"). In ogni caso, il meglio arriva proprio quando Tori resta sola con il suo Bösendorfer, come la "girl with the piano" di un tempo: "Weatherman", "Selkie" e sopratutto "Oysters" spiccano, dimostrando che la rossa cantautrice è ancora capace di incantare con apparente semplicità, con il minimo degli orpelli.
Unrepentant Geraldines, tuttavia, è macchiato da ingenuità ed errori facilmente evitabili con una produzione e revisione più curata. In una tracklist finalmente contenuta e con una coerenza stilistica fedelmente perseguita, una composizione come “Promise” difficilmente trova un senso: la banalità dello scambio tra Tori e sua figlia Tash (stavolta ospite per un solo brano) è aggravata da un lavoro di produzione davvero sciatto, tra percussioni plasticose ed effetti al limite dell’amatoriale. Altro errore maldestro sta nell’inserire la frivola e barcollante “Rose Dover” tra “Oysters” e la toccante conclusione “Invisible Boy”, spezzando in malo modo un possibile continuum emotivo che avrebbe posto un sigillo perfetto sull’opera.
Tuttavia, dopo album in cui erano i brani da salvare quelli ghettizzati, queste cadute non pregiudicano la sensazione generale di un lavoro che finalmente ha qualcosa da dire e sopratutto di un trend positivo oramai evidente.
Dopo la parentesi musical di "The Light Princess", Tori Amos torna con un album che a prima vista sembra inserito nella vague politica e di impegno sociale che anima ultimamente molti artisti in maniera trasversale. Native Invader (2017), quindicesimo lavoro della sua carriera, è infatti animato da quell'afflato polemico e di protesta che già infondeva la materia di American Doll Posse del 2007, in piena era Bush. Ma c'è di più. È vero che l'elezione di Trump ha contribuito in parte alla nascita di un album non esattamente pianificato ma scaturito spontaneamente dopo un viaggio nelle Smoky Mountains, facenti parte del sistema degli Appalachi nel sudest degli Usa, dove risiedono anche le radici Cherokee della sua famiglia, ma anche il privato ci ha messo del suo: la madre di Tori, infatti, ha sofferto seri problemi di salute che l'hanno costretta alla paralisi. Un disco che è anche una forma di terapia, perciò, per trovare sollievo e scampare la tempesta dentro la quale questi tempi grami ci hanno cacciato.
I timori di un passo indietro erano in parte corroborati da una cartella stampa di presentazione piuttosto confusa e da un singolo di lancio, "Cloud Riders", che parte con attacco a tinte blues che sembra una citazione di "Strange", e difatti prosegue come una ballad estratta dall'era che va da Scarlet's Walk a The Beekeper, con contrappunti della chitarra a sprazzi e un andamento ritmico un po' bolso.
Il senso profondo di Native Invader, come ha ammesso la stessa Amos, è quello della riappropriazione del proprio spazio creativo ormai inquinato dalla rabbia scatenata dal mondo in cui viviamo, con una forte componente legata alla natura, al mondo incontaminato come prova una delle canzoni-simbolo, "Up The Creek" (in cui si cita una "militia of the mind" diventata tormentone tra i fan) un brano dall'inedito sound electropop scandito dalla frase "Good lord willing and the creek don't rise" (all'incirca "a Dio piacendo e il torrente non tracima") che ripeteva spesso il nonno di Tori Amos - sì, quello di origine nativa americana. Aperto da un sorprendente riff e contraddistinto da una elettronica con beat in levare altrettanto inattesa per gli standard di Tori che fa riportare le lancette dell'orologio al 1998-1999 di From The Choirgirl Hotel e To Venus And Back", con il fedele piano che si inserisce a mo' di assolo nel bridge, "Up The Creek" è un manifesto ambientalista con i cori della figlia Natasha.
Come nel resto della sua produzione, i testi sono popolati da immagini oscure, riferimenti a miti e archetipi che da sempre contraddistinguono il suo modo di scrivere come rivelava nella sua autobiografia "Piece By Piece". Una simbologia che si staglia già nella perfetta apertura di "Reindeer King", 7 ammalianti minuti di piano, voce e inserti drone vibranti, a tratti inquieta e inquietante, minimale quanto basta e armonicamente seducente. Il pianoforte domina anche in brani come "Breakaway", "Climb", dal sapore folk e con delicati inserti di chitarra acustica, e la conclusiva "Mary's Eyes" su cui torneremo più avanti. E se "Up The Creek" rappresenta l'episodio più ritmato dell'album, nel disco Amos privilegia le ballad, come il trittico "Wings" (che sembra uscita dalla sua produzione anni 90, con accenni calypso), "Broken Arrow" (in cui ricorre il riff wah wah e spiccano interessanti sprazzi ritmici nell'arrangiamento della coda finale) e la già citata "Cloud Riders", brani inseriti tra la più minimale apertura e "Breakaway". Quando infatti non privilegia piano e voce, Tori e la fidata supervisione del produttore e marito Mark Hawley creano stratificazioni sonore, aggiungendo e non sottraendo. "Wildwood" è un altro esempio, con molte chitarre riverberate. E poi "Bang", anch'essa molto stratificata e molto politica.
Native Invader, in sostanza, dà l'impressione di proporre una summa della sua produzione, musicalmente divisa tra anni Novanta (il j'accuse di "Benjamin") e anni Zero (l'ecologista "Bats"). E poi arriva la conclusione "Mary's Eyes", in cui si affronta il male che ha colpito la madre, un altro tipo di invasore nativo che viene da dentro e non da fuori e che la imprigiona: straordinariamente delicato e controparte femminile di "Winter", brano dei suoi esordi dedicato al padre, e la cui cristallina bellezza tocca corde profonde, con tanto di citazioni del lavoro dell'amico fraterno Neil Gaiman. È un disco personale e politico al tempo stesso, molto diretto come nella bonus track "Russia" che nella apparente leggerezza del piano e voce lancia sospetti pesanti sui rapporti tra la Casa Bianca e Mosca. Un disco che non rivoluziona lo stile compositivo o gli arrangiamenti a cui Amos ci ha abituati, ma testimonia il coraggio di un'artista che non scende a compromessi e resta fedele al proprio stile.
Tori Amos è Tori Amos e non potrà mai essere nessun'altra, né nessun'altra potrà mai essere come lei: traguardo non indifferente per un'artista.
Dopo l'EP natalizio Christmastide di fine 2020, un buon episodio contente almeno un paio di brani di buon livello, probabile sintomo di come Tori Amos possa ormai a questo punto della carriera giovare di un formato così ristretto, esce nel 2021 Ocean to Ocean
Composto durante il lockdown causato dalla pandemia Covid-19 del 2020, è un disco che tratta il tema del distacco della relativa sopravvivenza ad esso. Rispetto a "Native Invader" l'opera appare leggermente più ispirata, probabilmente anche grazie al ritorno dopo 12 anni degli storici collaboratori Chamberlain ed Evans a batteria e basso. Il risultato è un lavoro meglio prodotto, seppur sempre con mezzi relativamente modesti, e leggermente più ambizioso.
L'impressione è che ormai Tori Amos non abbia più l'urgenza e il coraggio di mettersi in gioco completamente, affidandosi a una produzione che sappia supportarla nel processo di scrematura delle buone idee che ancora riesce a proporle (brani come "Metal Water Wood", "Spies", "Birthday Baby" e la titletrack sono comunque ben più che degni di nota) dai riempitivi che ancora affliggono i suoi dischi. Tuttavia la ritrovata sobrietà gradualmente recuperata negli ultimi anni la portano a proporre album relativamente solidi e privi degli scivoloni di un tempo, anche se da un'artista come la rossa di Newton ci si aspetterebbe sempre qualche guizzo memorabile seppur rischioso.
Contributi di Francesco Serini ("Scarlet's Walk") Stefano Fiori ("Midwinter Graces", "Night Of Hunters"), Damiano Pandolfini ("Gold Dust"), Michele Bordi ("Unrepentant Geraldines", "Christmastide" e "Ocean to Ocean"), Luca Santoro ("Native Invader")
Y Kant Tori Read (Atlantic, 1988) | 4 | |
Little Earthquakes (Atlantic, 1992) | 7,5 | |
Under The Pink (Atlantic, 1994) | 8 | |
Boys For Pele (Atlantic, 1996) | 7 | |
From The Choigirl Hotel (Atlantic, 1998) | 8 | |
To Venus And Back (Atlantic, 1999) | 4 | |
Strange Little Girls (Atlantic, 2001) | 5 | |
Scarlet's Walk (Epic, 2002) | 6 | |
Tales Of A Librarian (antologia, Atlantic, 2003) | ||
The Beekeeper (Epic, 2005) | 4 | |
The Original Bootlegs (box set - 6 cd, Epic, 2005) | ||
A Piano: The Collection (antologia, Warner, 2006) | ||
American Doll Posse (Epic, 2007) | 5 | |
Live at Montreux 1991/1992 (cd+dvd, Eagle Records, 2008) | ||
Abnormally Attracted To Sin (Universal, 2009) | 5 | |
Midwinter Graces (Universal, 2009) | 5,5 | |
Night Of Hunters (Deutsche Grammophon, 2011) | 6 | |
Gold Dust (Deutsche Grammophon/ Mercury Classics, 2012) | 5 | |
Unrepentant Geraldines (Mercury Classics, 2014) | 7 | |
Native Invader (Decca, 2017) | 6,5 | |
Christmastide (EP, Decca, 2020) | 6,5 | |
Ocean To Ocean (Decca, 2021) | 6 |
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Crucify (live al David Letterman Show, da Little Earthquakes, 1992) | |
Winter (live, dal Dvd Montreux 1991/1992, da Little Earthquakes, 1992) | |
Cornflake Girl (live al David Letterman Show, da Under The Pink, 1994) | |
Past The Mission (live, da Under The Pink, 1994) | |
Hey Jupiter (live da Boys For Pele, 1996) | |
Beauty Queen/Horses (live da Boys For Pele, 1996) | |
Father Lucifer (live al David Letterman Show, da Boys For Pele, 1996) | |
Spark (live da From The Choigirl Hotel, 1998) | |
Jackie's Strength (live da From The Choigirl Hotel, 1998) | |
Northern Lad (live da From The Choigirl Hotel, 1998 - sul Dvd Tales of a Librarian special edition, 2003) | |
A Sorta Fairytale (live, da Scarlet's Walk, 2002) | |
Sweet The Sting (live, da The Beekeeper, 2005) | |
Welcome To England (videoclip, da Abnormally Attracted To Sin, 2009) |