A guardarla da fuori, la storia di Damien Rice appare il cliché dell'artista dei secoli scorsi: vent'anni, un futuro discretamente lanciato nel mondo musicale con una casa discografica che lo sorregge alle spalle, la sensazione di burnout provocata dalle logiche commerciali a cui deve sottostare, la scelta quindi di allontanarsi da tutto, conducendo una vita nomadica tra l'Islanda, la Spagna e le campagne del Centro Italia, pubblicando di tanto in tanto album che accolgono successo di pubblico e critica, centellinando tuttavia al minimo la produzione e l'esperienza live - ridotte all'osso giusto per poter sopravvivere, verrebbe quasi da dire. Come spesso poi accade nella vita, se guardata con maggior attenzione e minor superficialità, la storia personale e artistica di Damien Rice appare ben più complessa di così.
"Damien Rice walked so Justin Vernon could run", si leggeva tempo fa su un social media. E potrebbe essere un buon modo di introdurre Damien Rice - per quanto il primo possa essere classificato ben più agilmente del secondo all'interno della scena del cantautorato folk, accanto a nomi come Sufjan Stevens, Beirut, Josè Gonzalez, Hollow Coves, Kevin Morby, un rinato e meno catartico Jeff Buckley (come lo descriveva VH1 all'inizio degli anni Duemila), mentre il canadese appartiene a una dimensione più nebulosa, cerebrale, sperimentale, a tratti ineffabile. Tuttavia, proprio come l'anima di Bon Iver, anche Damien Rice è stato caratterizzato, durante la carriera, dal rifiuto delle logiche discografiche, ed è stata proprio questa la sua fortuna e uno dei driver del suo successo - anche se, a differenza di Vernon, l'apice l'ha raggiunto con il primo disco, e non ha saputo convincere la totalità del pubblico indie dell'epoca, ancora pervaso dai pregiudizi di fine 900 e poco incline a novità nell'ambito.Damien Rice, musicalmente, contiene al suo interno la vocazione al racconto scarno e sincero di vicende private, che rimanda nitidamente a Elliott Smith, la capacità di elevare il personale a universale servendosi di archetipi mitologici, che rimanda a Bob Dylan, e la tacita pretesa di raccontare storie che più che di uomini parlino di umanità, che strizza l'occhio a Bruce Springsteen.
Damien Rice nasce a una ventina di chilometri da Dublino nel 1973, e muove i primi passi nel mondo musicale a metà degli anni 90 con i Juniper, band con cui raggiunge un discreto successo soprattutto grazie al singolo "Weatherman". I Juniper sono una band indubbiamente figlia del britpop anni 90, con un sound a metà tra i Blur e i Green Day, e con la voce di Rice che appare, già dai primi demo, estremamente riconoscibile.
La PolyGram, casa discografica che oggi è stata inglobata da Universal, li nota e offre loro un contratto di sei album, dal quale Damien Rice scapperà, oppresso dalle logiche discografiche e dal controllo artistico che le etichette spesso esercitano sui talenti. All'epoca, Damien Rice è giovane, inesperto, e per quanto la sua pars costruens artistica sia ancora in via di definizione, la pars destruens è già chiara: i Juniper non sono la sua strada, come non lo erano gli imperativi categorici dell'industria discografica.
In seguito al suo abbandono, i Juniper diventeranno i Bell X1, ancora attivi oggi con nove album pubblicati, in grado di spaziare tra folk rock, lo-fi, synth-pop fino ad arrivare alla new wave e all'elettronica, ispirati dai Talking Heads e dai Radiohead di "In Rainbows", e fino a scorgere, nei lavori più recenti, chiare tracce dei Coldplay.
Negli anni successivi all'uscita dal gruppo, Damien Rice vive in Italia, dove lavora come contadino nelle campagne toscane. Si prende del tempo per girare l'Europa e inizia a registrare i primi pezzi solisti e a mandarli a produttori alla ricerca di finanziamenti: a credere in lui è David Arnold (compositore, tra le altre cose, di varie colonne sonore dei film di James Bond e cugino alla lontana di Rice), che lo aiuta a comporre un essenziale studio domestico dove poter incidere i nuovi brani cesellandone il suono.
Nel 2002 esce il primo album solista, e a oggi maggior successo discografico, di Damien Rice, O. Dieci brani e nessuna major discografica a supporto. Il disco è una dedica all'amico e cantante Mic Cristopher, che era morto l'anno precedente, e come il titolo fa presagire - nonché, come esplicitamente raccontato in "Amie" - trae ispirazione dal celebre romanzo "Histoire d'O".
Benché nella narrazione fin qui prodotta Damien Rice tenda ad apparire come solipsista, l'imperfetta perfezione acustica di O è frutto di diverse collaborazioni: su tutte, quella con Lisa Hannigan, seconda voce e fidanzata di Damien, che sarà parte fissa del progetto fino al 2007, in frequente dialogo con l'artista nel cantato dei brani, ma non solo. In O sono presenti altri dieci musicisti, con una posizione di risalto per la violoncellista Vyvienne Long e il chitarrista e co-produttore Mark Kelly.
O è un album crudo, scarno, quasi interamente privo di orpelli produttivi e di effetti. La maggior parte dei pezzi è acustica, con la chitarra a disegnare la linea melodica e le atmosfere sempre sospese, inizialmente quasi austere, poi, man mano che il disco scorre, più familiari e rassicuranti. È un album, tutto sommato, accessibile e semplice, senza però risultare scontato o commerciale - ed è stata proprio questa la fortuna del disco, che lo ha reso una pietra miliare della cultura pop, dalle sale concerti, a quelle cinematografiche (diversi brani sono stati scelti come colonna sonora di film o serie tv) fino ad arrivare a X Factor Uk, dove nel 2011 ha ottenuto una nuova linfa vitale.
Ma procediamo con ordine. L'album si apre con "Delicate", che inizia con un arpeggio di chitarra acustica e dopo circa trenta secondi accoglie la voce di Rice che canta "We might kiss when we are alone/ nobody's watching". Colonna sonora di "Lost", "Dr House", "Dawson's Creek" - per citarne alcuni - "Delicate" è un brano cantato a mezza voce, che rimanda esplicitamente a Jeff Buckley nell'ossessivo ripetersi dell'hook "Why do you sing halllelujah/ if it means nothing to you", e che lo ricorda nell'utilizzo del canto sussurrato interrotto da fraseggi a piena voce, fungendo da manifesto programmatico dell'intera raccolta.
A seguire, un trittico sparato a mezz'aria: per prima "Volcano", bedroom-song chitarra-violoncello-percussioni dialogata con Lisa Hannigan; per secondo "The Blower's Daughter", singolo d'apertura e probabilmente brano più conosciuto dell'artista irlandese, in parte anche per l'inserimento nella colonna sonora di "Closer". Il pezzo si apre a due interpretazioni; The blower's daughter come la figlia dell'istruttore di flauto del cantante, di cui si innamorò perdutamente, o come la figlia del blower, il telefono delle cabine, così come veniva chiamato in slang, che il cantante vide una sola volta, appostandosi fuori dalla sua dimora e nascondendosi dietro un cespuglio per l'imbarazzo. "The Blower's Daughter" è proprio come il film di cui è colonna sonora: lento ma sempre elegante e a ritmo, disperatamente romantico, profondamente minimalista, a metà tra l'amore eterno e l'odio viscerale (per sé e per gli altri). Terza prodezza è "Cannonball", che si apre nuovamente con un arpeggio alla chitarra acustica diventato riconoscibilissimo e che nel 2011 le Little Mix hanno cantato a X Factor Uk, portando la loro versione al n.1 in Uk e Irlanda. Il pezzo racconta di ossimori e contrapposizioni ("Stones taught me to fly/ love taught me to lie/ life taught me to die") e si sviluppa in un crescendo vocale cantato in un continuo scambio tra minore e maggiore all'interno delle strofe, che culmina nel "Come on courage/ teach me to be shy" in chiusura.
L'album procede tra "Older Chest", "Amie", dove è presente un riferimento esplicito all'"Histoire d'O" che dà il titolo a tutto quanto, "Cheers Darlin'", ballata sull'amore non corrisposto costruita su percussioni esotiche e ancestrali, fino ad arrivare a "Cold Water" (parte della colonna sonora di "ER - medici in prima linea"), dove il violoncello di Long e la voce di Hannigan sono protagonisti assoluti di un pezzo spirituale, che sembra quasi una premonizione di "Illinoise", il capolavoro di Sufjan Stevens che uscirà tre anni dopo, dove gli effetti applicati alla voce e la ieraticità di certe canzoni rimanderanno nitidamente all'ascensione vocale ma soprattutto produttiva dell'inciso di questo brano.
L'album si conclude con ben tre ghost track: "Prague", che parte lentissima alla chitarra e cresce sorretta dalle percussioni che la accompagnano in un intermezzo elettrico distorto, con la voce lontana e urlata (ripreso quasi tale e quale da Mitski nell'outro di "Drunk Walk Home", brano contenuto all'interno di "Bury Me At Make Out Creek" del 2014); "Come All Ye Lost" e "Silent Night", variazione sul tema originale scritta e cantata da Lisa Hannigan.
O è un disco che non ha vinto Grammy, non è stato nemmeno candidato e benché sia stato incluso in colonne sonore e diventato una pietra miliare della cultura pop, non ha raggiunto un successo unanime planetario: rimane, però, un memento anacronistico di produzione musicale estranea alle logiche commerciali, basata sul togliere anziché sull'aggiungere (brani alla tracklist; produzioni, effetti e sovrastrutture computerizzate al suono naturale degli strumenti; archi se non giustificati e parte della linea melodica; orchestrazioni fini a se stesse; special acchiappa-pubblico; e così via).Dopo l'uscita di O, Rice intraprende un tour europeo, arriva a partecipare a programmi tv come David Letterman Show, si imbarca in un tour al fianco di Fiona Apple, pubblica un Ep di B-Sides, fino ad arrivare al temuto e rinomato "sophomore album", 9, uscito nel 2006.
Che non sia necessario trasformarsi radicalmente tra un disco e l'altro risulta evidente guardando proprio Rice. Quantomeno nei suoni, in 9 il musicista irlandese appare perlopiù minimalista, rassicurante, low-to-midtempo, così come l'avevamo lasciato in O - al netto di qualche eccezione, e al netto di una generale onda sperimentale più spiccata in questo album. Ci sono ancora Vyvienne Long e Lisa Hannigan, ma non c'è più Mark Kelly, sostituito in buona parte da Joel Shearer, che dal 2003 apriva i concerti di Rice, e che si è unito in 9 alla band e alla squadra di produzione e arrangiamento.
Il pezzo d'apertura è "9 Crimes", che si apre con un arpeggio al piano, e non alla chitarra come ci eravamo abituati ad ascoltare in O. Il brano, sublimato dalla voce eterea di Lisa Hannigan e inserito in un'atmosfera quasi boschiva che rimanda a certe produzioni di Enya, racconta di nove crimini commessi, a cui Rice rimanda, accenna, ma sempre in modo vago, approssimativo, talvolta definendosi a cheat, a liar - ma senza mai offrire fondamento o verità. "The Animals Were Gone" è il secondo pezzo, una ballata lenta dove Rice canta "I love your depression/ and I love your double chin", che strizza l'occhio in modo evidente, ma a parti invertite, all'indimenticabile "You told me again you preferred handsome men/ but for me you would make an exception" di "Chelsea Hotel #2" di Leonard Cohen (presente in modo chiaro come riferimento anche nei suoni e nell'arrangiamento del pezzo) - e in ugual modo, "The Animals Were Gone" risulta penetrante, sincera e pervasa da un'ampia dose di tenerezza romantica.
In "Elephant", Rice disegna una contrapposizione tra "I am lately lonely/ I am lately horny", e offre una chiave di lettura spirituale all'album, come se i crimini cui accenna fossero peccati carnali, da espiare con una Passione che richiama quella di Gesù Cristo. E in questa chiave di lettura è facile leggere "Me, My Yoke And I" proprio come il compimento fisico di questa passione; è un pezzo sperimentale, doloroso e martellante, con arpeggi di chitarra elettrica, batteria, basso come strumento principale, suoni distorti e un hook ripetuto fino allo sfinimento, quasi fosse una produzione industriale seriale, che ricorda, nella voce e nel pedale della chitarra elettrica, certi pezzi degli Spin Doctors - e che è, di gran lunga, il brano più sperimentale del disco.
Al di là di questa lettura sacra dell'album (i cui indizi sono, ad ogni modo, numerosi), rimangono la catartica "Rootless Tree", ballata che inizia ingannevolmente dolce e melliflua, per esplodere nel "fuck you" ripetuto del ritornello, liberatorio, che richiama pezzi come "The Sky Is A Landfill" di Jeff Buckley nella teatralità, e la sublime, sussurrata, sviluppata su un'unica scala di pianoforte "Accidental Babies", con la voce di Rice rotta dal pianto mentre supplica "I know I make you cry/ I know sometimes you wanna die/ But do you really feel alive without me?/ If so be free/ If not leave him for me/ Before one of us has accidental babies".
9 termina, e con lui termina anche la collaborazione artistica ma anche di vita (per quanto il termine "collaborazione di vita", per intendere storia d'amore, sia in effetti tremendo) con Lisa Hannigan, che nel 2007 decide di lasciare il cantautore per proseguire una carriera (e, più in generale, una vita di coppia) solista.Tra 9 e My Favorite Faded Fantasy passano otto anni di avvicendamenti, in cui Damien Rice compie un viaggio in macchina per andare in Spagna a sentire i Radiohead, scrivendo un brano ogni giorno per tutti i dieci di viaggio, e un ritiro spirituale in Islanda, ma in cui rimane anche, molto, in silenzio. Finché, nel 2014, giunge il terzo disco in studio, il primo senza Hannigan.
La potenza narrativa di My Favorite Faded Fantasy appare maggiore rispetto ai lavori precedenti, e Rice introduce un'orchestra che accompagna diversi pezzi, donando loro una solennità e una fatalità senza precedenti nella sua produzione.
La title track, nonché pezzo di apertura, è un brano morbido che sembra uscito da "Sketches For My Sweetheart, The Drunk", album postumo di Jeff Buckley (viene subito in mente un pezzo come "You & I"), nell'utilizzo sussurrato della voce come un filo di seta sorretto da poche note di chitarra elettrica - fino all'entrata maestosa della band (con basso, batteria e tastiere elettriche) e dell'orchestra, che accompagnano sfumando le note cantate da Rice sul ripetersi dell'hook "I've never loved".
Il secondo pezzo, "It Takes A Lot To Love A Man", dura ben nove minuti, parte al piano ed è quasi subito raggiunto dal violoncello che echeggia "Volcano", per finire con una completa orchestrazione. Rice, per l'occasione, si serve di un espediente compositivo più volte esplorato nei dischi precedenti, il giustapposto lirico per dare drammaticità ("It takes a lot to know a man/ it takes a lot to know a woman"), e porta così a compimento una canzone che suona come la colonna sonora di un fantasy drama.
L'album scorre con una serie di lettere dedicate a un ex-amore, e giunge in contemporanea ad alcune dichiarazioni rilasciate dall'artista in merito al pentimento per la separazione da Lisa Hannigan.
In "Colour Me In" si ritrova il Damien Rice scarno e privato di O, mentre su pochi ed essenziali arpeggi canta "Almost drove myself crazy and these words led to you"; in "The Box" lancia una provocazione che può facilmente essere indirizzata al mondo della discografia, mentre sussurra "Don't give me love with a whole bunch of rules/ 'cause that kind of love is just for fools"; e infine, l'epilogo "Long Long Way" è un brano sospeso, un titolo di coda in musica, con i fiati che intervengono sulla base d'archi mentre sfumano i contorni e le note suonano sempre più rarefatte.
My Favorite Faded Fantasy è un lavoro coerente, con una serie di espedienti ripetuti - il testo che cambia alla fine del brano sul medesimo tema musicale, l'entrata maestosa degli archi e dell'orchestra nel momento di massima tensione, la voce sussurrata in un semi-falsetto raramente impiegato nei dischi precedenti - che rompe un silenzio durato otto anni, ma che, con buona probabilità, sancisce il termine della produzione discografica di Damien Rice, che proprio quell'anno approda anche sugli schermi degli italiani partecipando come ospite internazionale al Festival di Sanremo.
A nove anni dall'ultimo disco, infatti, di un quarto non v'è traccia: nel mentre, qualche concerto, qualche sporadico Ep live, una cover di "Chandelier" di Sia che mette in risalto la drammaticità del testo, che racconta di alcolismo e depressione, e che non fa rimpiangere i sintetizzatori e le tastiere elettriche dell'originale.
Damien Rice, nel panorama musicale contemporaneo, rappresenta una specie in via d'estinzione: un artista estraneo alla sovrapproduzione, lontano da qualunque logica commerciale e discografica, il cui processo creativo è mosso da esigenze molto personali e non scandite dal tempo del successo. Damien Rice scrive, canta, pubblica quando sente che è il momento, ma non accetta interferenze nel mentre - senza essere austero o inavvicinabile, ma a protezione della verità.
Il prezzo da pagare - piuttosto alto - è che ogni disco potrebbe in effetti essere l'ultimo. E che, più passa il tempo, più ci si convince che è così.
O (Vector/14th Floor, 2002) | |
Live From The Union Chapel (Ep, Vector, 2003) | |
B-Sides (Ep, Vector, 2004) | |
9 (Heffa, 14th Floor. 2006) | |
My Favourite Faded Fantasy (Atlantic, 2014) |
Sito ufficiale | |
Testi |