Beirut

Beirut

I Balcani d'America

Globetrotter dell'universo indie d'oltreoceano, Zach Condon aka Beirut è partito da un peregrinare (reale o immaginario) per le strade polverose della vecchia Europa per approdare a una nuova formula di chamber-folk-pop. Ripercorriamo la sua storia, da Beirut a Realpeople

di Tommaso Benelli

Gli inizi

Tutto è cominciato ad Albuquerque, nel New Mexico. Non stiamo parlando della serie tv “Breaking Bad”, ma della storia di Zach Condon, classe 1986, enfant-prodige della musica folk divenuto, grazie al progetto Beirut, uno dei nomi di punta della scena indie americana.
Adolescente talentuoso e ribelle, Condon ha con la scuola un rapporto conflittuale che lo porterà ad abbandonare e riprendere diverse volte il college. Nonostante i voti siano mediamente alti, è la musica ad occupare giorno e notte i suoi pensieri, e in particolare grande è il fascino che gli strumenti a fiato esercitano su di lui.

La dolcezza malinconica dei fiati mi commuove. Dalle bande da funerale siciliane fino a quelle da matrimonio balcaniche, l’espressività emotiva dei fiati è per me meravigliosa, tanto quanto la voce umana.
(Zach Condon)

Nonostante ciò, le prime esperienze in campo musicale sono ben lontane dalla musica che contraddistinguerà i Beirut. A quindici anni, una volta preso in prestito il registratore a quattro piste del fratello maggiore, Condon inizia a comporre musica nella sua cameretta, ripromettendosi ogni sera di non andare a dormire senza prima aver composto una melodia soddisfacente. Il risultato di queste prime esperienze è un indie-pop chiaramente ancora acerbo, ma già promettente, se si considera la giovanissima età del compositore. Questi primi brani, dove a dominare è il suono lo-fi della tastiera, sono accreditati a nome Realpeople e raccolti nell’album - mai rilasciato ufficialmente - “The Joys Of Losing Weight”.

Durante l’adolescenza, Condon si trasferisce prima a Newport News (in Virginia), quindi in pianta stabile a Santa Fe. Continua, però, a sognare di viaggiare per il mondo, spinto dall’amore per la world music e per le sonorità etniche. Quando poi, per una mente creativa come la sua, la monotonia della vita ordinaria diviene insostenibile, il diciassettenne Zach decide di abbandonare nuovamente la scuola e seguire il fratello in viaggio verso l’Europa, destinazione Parigi. L’impatto che il Vecchio Continente esercita sulla personalità musicale di Condon è enorme; il nostro rimane folgorato dal suono delle brass band europee, in particolare di quelle balcaniche. In un successivo viaggio ad Amsterdam, Zach stringe amicizia con un musicista serbo, il quale gli trasmette una grande passione per la musica balcanica, come quella dei veterani contemporanei Boban Markovic e Goran Bregovic. Tornato negli Stati Uniti con un bagaglio musicale del tutto rinnovato, Condon ha ora le idee chiare sul suo futuro da musicista e sul suono che la sua musica dovrà avere.

Leggenda vuole che, a causa di un infortunio al polso subìto da bambino, Condon non possa suonare la chitarra senza che il braccio gli faccia male scorrendo lungo il manico. Da qui la scelta, o meglio la necessità, di utilizzare l’ukulele - strumento più piccolo e maneggevole - come accompagnamento alla voce. In omaggio all’amore per i territori mediorientali della sponda mediterranea, il nuovo progetto di Condon, dalle sonorità folk, prende il nome di Beirut e proprio l’ukulele, assieme all’uso estensivo degli strumenti a fiato, renderà caratteristico e perfettamente riconoscibile il suo suono. Utilizzando ancora la cameretta come studio di registrazione, Condon comincia quindi a comporre i brani che costituiranno il suo album d’esordio ufficiale.

In realtà, inizialmente il ragazzo sembra non credere troppo nelle sue possibilità; la sicurezza nei propri mezzi la guadagna, però, quando la leggenda underground della sua città natia Jeremy Barnes, leader degli A Hawk and a Hacksaw ed ex membro della cult-band Neutral Milk Hotel, ascoltati i demo, si dichiara fan della sua musica e si offre di collaborare come strumentista al completamento dell’album. La conoscenza di Barnes rappresenta anche un’importante rampa di lancio verso la scena indipendente per il talentuoso e (ancora per poco) sconosciuto Zach Condon.

2006: “Postcards From Italy”

È la primavera del 2006, quando per i principali blog musicali americani comincia a circolare “Postcards From Italy”, la prima canzone di Condon sotto lo pseudonimo di Beirut. Il brano, romantica folk-song che è anche un tributo a un’Italia del tutto immaginaria (Condon visiterà il nostro paese per la prima volta solo nel 2011), inizia con un semplice giro di ukulele per poi dischiudersi in un’esplosione di trombe spagnoleggianti, che guidano il brano verso il melodico e dolce finale. Il pittoresco connubio di gioia e trattenuta malinconia è sufficiente per fare breccia nel cuore di decine di migliaia di ascoltatori. “Postcards From Italy” è un piccolo gioiello, semplice e genuino, e inevitabilmente porta Beirut ad essere la scoperta musicale dell’anno. Non è un brano dalle sonorità di tendenza, ma è accattivante quanto basta da conquistare il gradimento e l’affetto di una schiera di fan che mai prima d’ora si era trovata ad ascoltare musica del genere e per la quale la canzone in questione è una vera e propria rivelazione.

E così, ottenuto il consenso sia del pubblico che della stampa specializzata, a maggio del 2006 esce per l’etichetta BaDaBing Gulag Orkestar, l’eclettico album d’esordio di Beirut, un lavoro che attinge tanto alla world music, quanto alla tradizione cantautorale americana. Il risultato è un meraviglioso tripudio di trombe, flicorni, ukulele e fisarmoniche, dove a dominare è uno stato d’animo ballerino, sempre in bilico tra euforia e riflessione, entusiasmo e introspezione, sullo sfondo di una perenne e immaginaria festa di paese esteuropea. La stessa voce di Condon è un elemento di grande importanza nel suono dei Beirut, con un timbro a metà strada tra Rufus Wainwright e Morrissey, aggiornato in versione folclorica.
In Gulag Orkestar si possono ascoltare gloriosi valzer e marce - sempre dominati da arrangiamenti per fiati - come “Prenzlaurberg”, “Bratislava” e la title track. I Beirut si presentano come una versione indie-rock e bevuta dell’orchestra di Bregovic, ma il meglio di sé Condon lo concede quando dà prova delle sue eccelse doti di melodista in brani quali “Mount Wroclai (Idle Days)”, accompagnata da una travolgente fisarmonica, e “Scenic World”, forse l’unica a ricordare i primi esperimenti chamber-pop di Condon ai tempi di Realpeople.
Nel disco c’è spazio anche per ritmi più blandi e decadenti, come in “Rhineland (Heartland)” o in The Canals Of Our City”, dove a spiccare è una struggente tromba solista mentre il tono diventa più elegiaco e malinconico. I solenne synth-pop di “After The Curtain”, tra pianole lo-fi e ariosi vocalizzi, chiude dignitosamente l’album.
Capolavoro è sempre una parola grossa da utilizzare e probabilmente inappropriata, soprattutto quando si parla di un disco d’esordio. È certo, però, che con questo album Condon abbia avuto la capacità di crearsi una personalissima e originale identità musicale, diversa dalla restante parte delle band in circolazione. Gulag Orkestar suona, oggi come allora, come un brillante debutto, ma ascoltandolo alcuni anni dopo si può anche notare come, grazie anche alla meritata popolarità guadagnata, abbia contributo in maniera decisiva al revival folk che abbiamo vissuto nei primi anni Dieci; questo è vero soprattutto per quanto riguarda la riscoperta dell’ukulele, diventato ormai un feticcio tra le nuove folk-band e impiegato di recente anche da artisti già affermati (si pensi a Eddie Vedder o Lisa Hannigan, per fare due nomi).

Nell’estate del 2006 Zach Condon si avventura assieme a un collettivo di musicisti nel primo vero tour mondiale a supporto di Gulag Orkestar. Sfortunatamente, lo stress dovuto alla forte pressione mediatica sulla band e all’impreparazione nel sostenere una tournée di tali dimensioni, costringe Condon a interrompere in anticipo la serie dei concerti. 

Passano così alcuni mesi, nei quali, però, Zach non rimane con le mani in mano; già a novembre dello stesso anno, infatti, viene pubblicato l’inedito “Interior Of A Dutch House” in uno split in 45 giri coi Calexico, in chiosa a un 2006 assolutamente memorabile.

2007: “Lon Gisland” e “The Flying Club Cup”

Forte del successo riscosso con l’album d’esordio, a gennaio 2007 Condon entra a far parte del roster della 4AD, storica etichetta indie britannica. A fine mese, è quindi il turno di Lon Gisland, Ep di cinque brani trainato dal singolo “Elephant Gun”. A differenza dell’album d’esordio, composto interamente da registrazioni casalinghe, questa produzione è la prima ad essere incisa in un vero studio con una band al seguito. Da qui in avanti, avrà senso parlare di Beirut non più come di un progetto solista, ma come una band a tutti gli effetti, con musicisti quali Perrin Cloutier alla fisarmonica, il batterista Nick Petree, la violinista Kristin Ferebee, oltre ovviamente all’inossidabile Zach Condon, leader assoluto nonché polistrumentista. 


In “Elephant Gun”, ancora introdotta da un giro di ukulele, è come se tutta la gioia presente allo stato di potenza in Gulag Orkestar, improvvisamente si manifestasse nel tripudio glorioso di fiati che accompagna il brano, donandogli un carattere maggiormente trionfale rispetto a qualsiasi altro pezzo dei Beirut finora sentito. Da molti, questa è ritenuta la canzone migliore composta da Condon; in effetti, oltre al sontuoso arrangiamento di fiati, non si può rimanere insensibili alla bella melodia e alle enigmatiche liriche del brano, per la prima volta elemento di rilievo e non confinato al solo ruolo di accompagnamento musicale agli strumenti.
È evidente come Zach Condon sia un compositore in stato di grazia: anche quando attinge smaccatamente al suono del disco d’esordio, come nella polka di “My Family’s Role In The World Revolution” o nel valzer di “Carousels”, il risultato è sorprendentemente trascinante. Il nuovo arrangiamento di “Scenic World” (da qui in poi adottato nei live) sostituisce alla tastiera la fisarmonica, dando vita a un brano dall’andamento più lento, ma in fin dei conti meno incisivo rispetto alla versione originale. “The Long Island Sound”, breve reprise strumentale di “Elephant Gun", accompagna l’Ep verso la sua conclusione, affidata alla già citata “Carousels”. 

Con i suoi alti e bassi, Lon Gisland Ep rappresenta comunque un interessante lavoro di transizione, un allettante preludio al nuovo album in procinto di uscire: il meglio, sembra voler dire Condon, deve ancora arrivare.

Nel frattempo, a febbraio dello stesso anno, viene rilasciato l’Ep Pompeii, contenente due inediti registrati l’anno precedente, “Fountains And Tramways” e “Napoleon On The Bellerophon”. A luglio, invece, è il turno dell’Elephant Gun Ep, pubblicato in occasione dell’uscita del video dell’omonima traccia e comprendente l’inedito “Transatlantique”.

I Beirut sono ormai una delle band più chiacchierate del panorama indie, apprezzati in lungo e in largo per le loro doti compositive e forti di un’estetica vintage di grande impatto.
 L’attesa per il seguito di Gulag Orkestar viene esorcizzata in data 9 ottobre 2007, con la pubblicazione dell’attesissimo secondo album, The Flying Club Cup. Stavolta Zach non fa tutto da solo e il suo collaboratore è davvero d’eccezione: si tratta del visionario Owen Pallett, già noto per il progetto baroque-pop Final Fantasy e reclutato qui come produttore artistico. 

In questo disco, l’epicentro della musica di Condon abbandona i Balcani per spostarsi nell’Europa continentale: è ora la tradizione melodica francese, quella degli chansonnier decadenti e passionali, a rappresentare la fonte d’ispirazione. Al cambio di prospettiva, si accompagna una maggior cura negli arrangiamenti, con una sezione di fiati ancor più ricca e il frequente intervento degli archi (fondamentale in questo senso l’apporto di Pallett). Messo da parte il gusto naïf per i suoni lo-fi, The Flying Club Cup è un album ambizioso e prodotto impeccabilmente, più organico e maturo rispetto al già ottimo predecessore.
La magnificente coralità della title track, il funebre lamento per fisarmonica di “Cliquot” (cantata da Pallett), la circolare e memorabile melodia di “Nantes” (brillantemente riarrangiata nella successiva “Cherbourg”), la dolce nostalgia in valzer di “A Sunday Smile", vanno a definire quelle che ancora oggi rimangono tra le migliori canzoni mai composte da Zach Condon. Ma i Beirut dimostrano di essere altrettanto fertili e ispirati anche quando rivisitano territori già esplorati nel disco d’esordio, come nei tormentati fiati di “St. Apollonia”, in quelli ebbri e ciondolanti di “La Banlieue”, nel gitano sinfonismo di “Forks And Knives (La Fête)” e nel lento crescendo di “The Penalty”.
Persino brani meno caratteristici come “Guyamas Sonora” e “Un Dernier Verre (Por La Route)”, entrambi investiti da un solenne intervento di ottoni, mostrano una vena melodica ispirata e di cristallina classe; ma c’è spazio anche per un altro riuscito esperimento, definito dall’incalzante e arabeggiante melodramma di “In The Masoleum”.
Gioiosa quanto malinconica, dimessa quanto trascinante, retrò eppure fresca e originale: la musica di cui Condon e i Beirut fanno mostra in The Flying Club Cup è di una bellezza commovente, proprio per il suo autentico anacronismo, che la porta a suonare sincera e sentita. In altri termini, unica.

Il nuovo album non ha quindi deluso e i Beirut si sono confermati come una delle band più calde della seconda parte di decennio. Come ciliegina sulla torta di quello che è senza dubbio il periodo d’oro del gruppo, il noto regista di videoclip indipendenti Vincent Moon, famoso per il video-blog La Blogothèque, firma il film “A Cheap Magic Inside”, nel quale la band viene ripresa a suonare per intero The Flying Club Cup tra le strade di San Francisco.
Nonostante l’ottima risposta di critica e di pubblico ai primi due dischi, da qui in avanti l’attenzione attorno al progetto di Condon diminuirà sempre di più, sia per una certa riservatezza del frontman nel mostrarsi in pubblico, sia per la sempre meno frequente pubblicazione di nuova musica (che d’ora in poi conoscerà periodi di gestazione sempre più lunghi), sia per l’effettiva minore qualità messa in mostra nei lavori successivi.

2009-2011: Il ritorno di Realpeople e “The Rip Tide”

Nel febbraio 2009, viene pubblicato un doppio Ep, March Of The Zapotec/Holland. La pubblicazione viene accreditata a due nomi: il solito Beirut per March Of The Zapotec, e Realpeople per Holland. In quest’ultimo, Condon torna quindi nei panni del suo moniker adolescenziale, ripercorrendo le linee chamber-pop già abbozzate a inizio carriera.
Da considerarsi complessivamente un esperimento minore, Holland contiene comunque musica gradevole, oltre che a “My Night With The Prostitute From Marseille”, un brano tra i favoriti dei fan e ancora oggi spesso proposto nei concerti.

In March Of The Zapotec, invece, i Beirut appaiono come una brass-band a tutti gli effetti, ora più che mai. La melodia vocale è di rilevanza secondaria (fatta eccezione forse per “The Shrew") e sono i fiati a delineare in tutto e per tutto la struttura della canzone: distesi e dolci nel tracciare l’armonia, sornioni e percussivi a dettare il ritmo. Tuttavia, anche questo Ep, come il compagno, non aggiunge nulla di particolarmente memorabile a quanto fino ad oggi dimostrato dai Beirut.

Nello stesso anno, un nuovo brano, “Mimizan”, viene incluso nella tracklist di “Dark Was The Night”, compilation di beneficenza per la raccolta di fondi contro l’Aids, curata da Aaron e Bryce Dessner dei National. Oltre a quello dei Beirut, la compilation raccoglie contributi di alcuni dei principali protagonisti della scena indipendente e non (tra gli ospiti: Bon Iver, Arcade Fire, Grizzly Bear, Bob Dylan e, ovviamente, The National).

Per un nuovo album si deve attendere fino al 2011, a ben quattro anni di distanza dal precedente, quando sotto la Pompeii Records (label fondata da Condon) viene pubblicato The Rip Tide. Dal momento che i Beirut non hanno mai goduto di una grande spinta promozionale, risulta difficile dire se le ottime vendite registrate da questo disco siano il risultato della nuova piega presa dalla loro musica. Sta di fatto che The Rip Tide è il più tradizionalmente pop dei dischi finora pubblicati da Condon, non tanto nella struttura delle canzoni, quanto piuttosto nel gusto melodico, ormai non troppo lontano da quello del pop più radiofonico. Ad ogni modo, la qualità non manca: per tutta la sua durata il disco esibisce un folk-pop delizioso, caratterizzato da numerose melodie memorabili, oltre che (per la prima volta) da testi di spessore - si pensi, ad esempio, alla struggente poesia di “East Harlem”, ben accompagnata da un riconciliante tappeto di ottoni.
“A Candle's Fire” apre l’album nel migliore degli auspici, ottimamente seguita da “Santa Fe” incalzante ed estiva marcetta synth-pop dedicata alla città di adozione di Zach. Non mancano ovviamente le canzoni più malinconiche, sempre dominate da quel marchio di fabbrica che sono i fiati, come “Vagabond” (ode alla vita nomade, per nostalgici sospiri) e “The Rip Tide” (su cui versare senza vergogna qualche lacrima).
Tra dolci ballate al piano (“Goshen”), strimpellate di ukulele alla vecchia maniera (“Port Of Call”, che ricorda un po’ “Elephant Gun”) e ospitate di primo livello (Sharon Van Etten in “Payne’s Bay”), The Rip Tide scorre via in un ascolto veloce ma non privo di momenti di alto livello. Pur convincendo meno rispetto ai due predecessori, più audaci e innovativi, l’album ci mostra Condon in un’inedita veste di ispirato e talentuoso compositore pop.

Il disco, seppur complessivamente meno apprezzato dei primi due lavori, continua a garantire ai Beirut una posizione di tutto rispetto all’interno nella scena alternativa, tanto che la band ottiene numerosi ingaggi come headliner nei principali festival di tutto il mondo. È questo tour, inoltre, a portare per la prima e per ora unica volta i Beirut nel nostro paese, a Ferrara, in una serata che vede esibirsi sullo stesso palco - quello di Ferrara Sotto Le Stelle - i National.

Dal 2015 ad oggi: “No No No” e "Gallipoli"

Una volta terminato il tour di The Rip Tide, Zach Condon decide di prendersi una lunga pausa dalla scene, così da riorganizzare le idee in vista del nuovo album. L’assenza viene ulteriormente prolungata dal trauma della separazione dalla moglie, con cui era sposato dai tempi di Gulag Orkestar. Sarà solo l’incontro con una nuova compagna a ridare a Zach la forza per continuare a comporre.

Vuoi per celebrare la raggiunta nuova serenità, vuoi per un ormai marcato gusto per le sonorità più pop, il quarto album dei Beirut, No No No, pubblicato a settembre 2015, è per distacco il loro disco più leggero. Niente più marce funebri, polka o dolenti fisarmoniche; persino l’ukulele, da sempre marchio di fabbrica nel suono dei Beirut, questa volta viene lasciato da parte. Rimangono i fiati, tuttavia limitati alla decorazione delle canzoni, le cui armonie sono costantemente tracciate da un’incalzante tastiera, tanto che No No No pare il primo album di Condon a suonare più synth-pop che folk.
Persa la folclorica euforia del passato e abbandonato ormai in tutto e per tutto il ruolo di enfant-prodige dell’indie-folk, Condon rimane comunque un ottimo autore pop. Tuttavia, le uniche canzoni che si può definire memorabili qui sono i due singoli: “No No No”, ben ricamato dai vocalizzi di Condon e da una sezione di fiati, e “Gibraltar”, impreziosita da percussioni africane. Nella restante parte del disco non si trovano rovinosi passi falsi, ma si incontra quella sensazione di noia che i Beirut avevano finora sempre tenuto lontana, e che a questo giro, invece, si fa sentire. Come album pop, mancando in sostanza di capacità di intrattenere, questo disco non può dirsi riuscito.


Dal 2017, Zach Condon vive in pianta stabile a Berlino. Il quinto album dei Beirut, composto tra la capitale tedesca e la Puglia, esce il 1 febbraio 2019 e si chiama Gallipoli, esattamente come il singolo di lancio, uscito lo scorso ottobre. Con il suo passo marciante da banda di paese e la sua melodia di fiati dolce e nostalgica, la canzone segna un gradito ritorno alle sonorità dei primi Beirut e, in quattro minuti e sette secondi, ci ricorda dell’esatto motivo per cui, nel 2006, la musica di Zach Condon ci rapì tutti quanti.

Una sera ci trovammo per caso nella cittadina medievale di Gallipoli e seguimmo una banda di ottoni in processione dietro a preti che portavano la statua del santo patrono tra le strette vie del paese, seguiti da quella che sembrava l’intera città. Il giorno seguente scrissi in una sola sessione, facendo pausa solo per mangiare, il brano che sarebbe diventato “Gallipoli”. Ero molto soddisfatto del risultato. Mi sembrava un mix catartico di tutti i vecchi e nuovi album e mi sembrava di essere tornato alla vecchia gioia della musica come esperienza viscerale.

I fiati che scaldano il cuore, lungo Gallipoli, li ritroviamo, primaverili nell’iniziale “When I Die” e decadenti in “Gauze Für Zah”. Per la prima volta, poi, si può ascoltare Condon sperimentare con sonorità dissonanti (“On Mainau Island”) e con sbilenchi fraseggi di piano (“Corfu”), inediti per i Beirut; e la marcetta synth-pop di “I Giardini” ben si sposa con la sinuosa linea vocale, confermando l’impressione di autore che, al suo meglio, ha ancora qualcosa da dire in ambito indie-pop.
Purtroppo, quanto di positivo detto finora si scontra con la sensazione finale che lasciano i quarantaquattro minuti in cui si dilunga l’album: una sensazione di diffusa mancanza di spunti e idee, parzialmente sanata dai momenti più ispirati. A un’ottima prima parte di tracklist, di cui va citata anche una “Varieties Of Exile” che rievoca la malinconica leggerezza di The Rip Tide, fa da contrappunto la pressoché totale inconsistenza della seconda, tra vocalizzi interminabili, melodie senza idee e, in generale, una serie di canzoncine senza pretese né tiro. 
Gallipoli è, in un certo senso, quanto ci si aspettava dai Beirut: un disco melodioso, pieno d’aria, nostalgico. Ma è anche il secondo acerbo album di fila di un’artista e una band che, dopo la svolta pop di inizio decennio, non sono più riusciti a produrre qualcosa che sia realmente meritevole d'attenzione. Sebbene superiore al suo predecessore, un disco come Gallipoli, con una manciata di ottimi brani e un sfilza di riempitivi, non è ciò che è permesso aspettarsi da chi, a soli vent’anni, scriveva album come Gulag Orkestar e The Flying Club Cup.

Con l'ormai consolidata cadenza temporale - quattro anni di distanza tra ogni album - l’ascetico ed errante compositore chamber-folk aggiorna l’affascinante diario di viaggio, esplorando in Hadsel (2023) le bellezze di una lontana isola norvegese (Hadseløya), tra suoni e atmosfere di un paesaggio in cui sacro e profano si abbracciano in silenzio. Un oceano di suoni dominato dall’aulica presenza di un organo di legno scovato dal musicista in una vecchia chiesa mentre cercava conforto a difficoltà fisiche (problemi alla gola) e mentali (depressione dopo il blocco dell’attività live). Strano a dirsi, il tono austero di organo e fiati è talmente congeniale all’etica artistica di Beirut al punto da far apparire qust'ultima nuova e antica nello stesso tempo, come se il musicista avesse inseguito per anni un corpo sonoro che in Hadsel trova il perfetto equilibrio creativo.
Il supporto di sintetizzatori, corno francese, trombe, drum machine e shaker è foriero di ulteriori suggestioni emotive. Inoltre, il caldo timbro da crooner di Condon e l’incedere maestoso degli arrangiamenti suggellano il potente racconto dell’autore, un diario che si apre con l’avvento della pandemia. "Avevamo tanti amici", canta Zach in “So Many Plans”, mentre voci angeliche, trombe e ukulele intonano una danza neo-pagana, che si riapre alla speranza con eguale forza in "The Tern” ("Non è troppo tardi per scoprire dove sei"). Nel cercare risposta nel silenzio dell’isola norvegese, cullato dall’estatica bellezza di montagne innevate e dal brontolio della pioggia, Beirut mette a punto un album compatto e fortemente ispirato. Lussuose armonie vocali disperse in eleganti corpi ritmici tribali (“Arctic Forest”), possenti ma mai ridondanti ballate dal tono epico (“Stokmarknes”), un uso più calibrato dell’elettronica (“Spillhaugen”) e nuove forme di folktronica (“Süddeutsches Ton-Bild-Studio”) rimarcano la ritrovata magia del cantautore americano.
Hadsel è un disco in perfetto equilibrio tra tangibilità (“January 18th”) e immaginazione (“Regulatory”), un lavoro che reinventa la poetica di Beirut, in passato scandita dall’amore per la musica balcanica, senza però alterarne l’essenza.

Contributo di Gianfranco Marmoro ("Hadsel").

Beirut

Discografia

BEIRUT
Gulag Orkestar (BaDaBing, 2006)

7,5

Lon Gisland (Ep, 4AD, 2007)

6,5

Pompeii (Ep, BaDaBing, 2007)
Elephant Gun (Ep, 4AD, 2007)
The Flying Club Cup (BaDaBing/4AD, 2007)

8

March Of The Zapotec/Holland(Ep, Pompeii/4AD, 2009)

6,5

The Rip Tide (Pompeii/4AD, 2011)

7,5

No No No (Pompeii/4AD, 2015)

5,5

Gallipoli(4AD, 2019)6
Hadsel (Pompeii, 2023)7,5
REALPEOPLE
The Joys Of Losing Weight (Autoprodotto, 2001)
March Of The Zapotec/Holland (Ep, Pompeii/4AD, 2009)

6,5



Pietra miliare
Consigliato da OR

Beirut su OndaRock