Al secondo brano in tracklist, il nuovo album dei Beirut rivela subito il suo pezzo forte. “Gallipoli”, da cui il disco prende il titolo, è una canzone semplicemente meravigliosa, una nostalgica e polverosa brass song costruita su una commovente melodia di trombe, di quelle che Zach Condon non sfoderava da tempo; in quattro minuti e sette secondi, ci ricorda dell’esatto motivo per cui, nel 2006, la musica dei Beirut ci rapì tutti quanti. “Mi sembrava di essere tornato alla vecchia gioia della musica come esperienza viscerale”, ha commentato Condon, oggi trentatreenne, relativamente al processo di scrittura della canzone, composta e registrata proprio tra le strette viuzze della città salentina.
E i fiati che scaldano il cuore, lungo “Gallipoli”, li ritroviamo primaverili nell’iniziale “When I Die” e decadenti in “Gauze Für Zah”. Per la prima volta, poi, si può ascoltare Condon sperimentare con sonorità dissonanti (“On Mainau Island”) e con sbilenchi fraseggi di piano (“Corfu”), inediti per i Beirut; e la marcetta synth-pop di “I Giardini” ben si sposa con la sinuosa linea vocale, confermando l’impressione di autore che, al suo meglio, ha ancora qualcosa da dire in ambito indie-pop.
Purtroppo, quanto di positivo detto finora si scontra con la sensazione finale che lasciano i 44 minuti in cui si dilunga l’album: una sensazione di diffusa mancanza di spunti e idee, parzialmente sanata dai momenti più ispirati. A un’ottima prima parte di tracklist, di cui va citata anche una “Varieties Of Exile” che rievoca la malinconica leggerezza di “The Rip Tide”, fa da contrappunto la pressoché totale inconsistenza della seconda, tra vocalizzi interminabili, melodie senza idee e, in generale, una serie di canzoncine senza pretese né tiro.
“Gallipoli” è, in un certo senso, quanto ci si aspettava dai Beirut: un disco melodioso, pieno d’aria, nostalgico. Ma è anche il secondo acerbo album di fila di un artista e una band che, dopo la svolta pop di inizio decennio, non sono più riusciti a produrre qualcosa che sia realmente meritevole d'attenzione. Sebbene superiore al precedente “No No No”, un disco come “Gallipoli”, con una manciata di ottimi brani e un sfilza di riempitivi, non è ciò che è permesso aspettarsi da chi, a soli vent’anni, scriveva album come “Gulag Orkestar” e “The Flying Club Cup”. La gioia della musica come esperienza viscerale, decantata dal suo autore, si percepisce a fatica.
23/04/2019