Sharon Van Etten

Sharon Van Etten

Metamorfosi di una cantautrice

Dagli scarni arrangiamenti folk degli esordi alle successive mutazioni che hanno arricchito e irrobustito il suo sound, anche attraverso stimolanti collaborazioni con artisti di area indie: tutte le evoluzioni della raffinata cantautrice del New Jersey che ha messo la malinconia al servizio delle sue storie intense e graffianti

di Tommaso Carelli

We live lives that are waveforms constantly changing with time, now positive, now negative. Only at moments of great serenity it is possible to find the pure, the information-less state of signal zero
(Thomas Pynchon, "L'arcobaleno della gravità")

Questa è una storia di redenzione. Una storia di notti e giorni passati lontano da tutto e da tutti, da "cosa c'è fuori". Una storia di cieli grigi e di notti insonni, trascorse con una sigaretta in mano e senza riuscire a chiudere occhio, con il morale a terra e nessuna voglia di strappare un altro foglio dal calendario e iniziare il giorno successivo. Ma è anche una storia di felicità, di pura gioia delle "cose normali": fare il bucato, cambiare i vestiti al proprio figlio, uscire e raccontare tutto d'un tratto il proprio passato oscuro davanti a una birra, confidarsi e tornare ad avere fiducia negli esseri umani. Cambiare idea costantemente sulla lente da mettere davanti ai propri occhi prima di analizzare quell'insieme disordinato e destrutturato di avvenimenti che ci circonda ogni giorno. Ed è una storia che glorifica la musica, tanto àncora di salvataggio nei momenti più bassi quanto presa di coscienza in quelli più alti.

 

Sharon Katharine Van Etten nasce a Belleville, in New Jersey, il 26 febbraio del 1981, terza di cinque figli. Sin da subito animo ribelle, passa l'infanzia e l'adolescenza in varie parti del New Jersey, iniziando tra le altre cose a cantare per il coro della sua high school (la North Hunterdon) e a partecipare a gig musicali soliste.
Dopo il liceo, si trasferisce a Murfreesboro, in Tennesee, per iniziare un programma di recording e produzione musicale, ma spaventata per sua stessa ammissione dal lato economico e commerciale della musica - e dall'effetto dell'integrazione di concetti troppo distanti dall'organicità di come lo scrivere e produrre canzoni sarebbe dovuto essere secondo lei - abbandona l'università dopo solo un anno, finendo per lavorare per circa 5 anni in un pub proprio a Murfreesboro, dove spesso si esibivano piccoli artisti locali.
A questo punto incontriamo il primo crocevia della vita di Sharon: la giovane "ragazza fuori sede" inizia una tossica relazione con un fidanzato abusivo, anch'egli musicista, che fa di tutto per scoraggiarla riguardo alla possibilità di coltivare il suo talento. Sono momenti difficili per Sharon, che si ritrova incagliata in una situazione dalla quale non ha la forza di scappare. A questo periodo risalgono alcuni dei suoi primi testi, che poi confluiranno nel suo disco di esordio, Because I Was In Love. Ed è in questo periodo che Sharon inizia a sviluppare un rapporto estremamente personale con lo scrivere canzoni, azione che ricopre un ruolo terapeutico e liberatorio per le frustrazioni e le paure della giovane cantante. Una sorta di processo psicanalitico, come lo definirà lei stessa più avanti.

 

La situazione si protrae per diverso tempo, fino a quando una notte, con una scena simile a quella che dà il via alla splendida miniserie "Maid" di Netflix, la cui colonna sonora è composta per la stragrande maggioranza da canzoni della Van Etten proprio per questa similitudine tra le due storie, Sharon lascia la casa nel mezzo della notte per tornare nel New Jersey, presentandosi all'alba davanti alla porta della casa dei suoi genitori per chiedere un posto dove ricominciare da capo.

I sigh and then I frown
I write this moment down
'cause I cannot print pictures with my tongue

Sharon Van EttenFinalmente libera da costrizioni esterne e nella totale autonomia della propria identità, Sharon Van Etten si trasferisce a Brooklyn, con un bel carico di canzoni già pronte, e, mentre si guadagna da vivere lavorando per l'etichetta Ba Da Bing Records, dà alle stampe il suo primo disco, Because I Was In Love, che esce ufficialmente il 26 maggio del 2009 per Language of Stone. La registrazione si svolge in pochi giorni agli Hexham Head studios di Philadelphia, in Pennsylvania, con la produzione di Greg Weeks (fondatore degli Espers, nonché della Language of Stone stessa).
L'esordio di Sharon Van Etten è scarno, acerbo e forse incompleto dal punto di vista di arrangiamento e produzione, ma estremamente efficace nel mostrare una delle qualità migliori della cantante ora ventottenne. La potenza e l'efficacia del simbolismo dei suoi testi, che trasudano urgenza e emozione ed eppure rimangono ancorati nel mistero, sono sbalorditive per un esordio. La opener "I Wish I Knew", che fa trapelare forti influenze di Joni Mitchell ma anche del lo-fi di fine anni 90 (vengono in mente i primi Ep dei Coldplay pre-"Parachutes") si regge su un leggerissimo strumming di chitarra. La voce è calda, alta, emozionante, tiene in piedi un'intera canzone (e forse, a ben vedere, tutto il disco).
La prima impressione è quella di un lavoro pubblicato per pura urgenza, volontariamente scarno perché forse queste canzoni avevano senso di esistere solo nella loro forma originale per Sharon, e la cantante stessa confermerà in un'intervista quanto il senso di intimità del "chitarra e voce" fosse un qualcosa di fortemente ricercato, come a ricreare le luci soffuse e le improvvisazioni vocali di un concerto in qualche pub semi-vuoto, forse proprio quello dove Sharon ha lavorato una volta abbandonato il college.
La successiva "Consolation Prize" ricorda l'intimità ma anche la giocosità del Sufjan Stevens di "Seven Swans", con repentini, improvvisi cambi di melodie su un tappeto formato da pochi arpeggi di chitarra e da un organo soffuso. Un testo ancora una volta in qualche modo sfuggente ci introduce una figura maschile che svolgerà un ruolo principale nel disco, e che facilmente riconduciamo alla relazione tossica svoltasi in Tennessee. In "For You" compaiono ancora un organo ma soprattutto i primi chiari segnali in un testo in cui l'oppressione e la frustrazione sono le colonne portanti, commisti però a una dipendenza totale dall’altra persona. Anche l'inquietante presa di coscienza della totale incapacità di vedersi al di fuori di una relazione, per quanto negativa possa essere, è un tema davvero delicato e che ricopre un ruolo fondamentale nei testi di Sharon Van Etten. Il che ci fa apprezzare maggiormente il coraggio di aver trovato la forza per uscire da una situazione così difficile.
Se "I Fold" sembra un umile omaggio a Nick Drake e all'intimità di certe canzoni di "Pink Moon", "Have You Seen" si rivela una delle migliori canzoni dell'intero disco: una ballad semplice con un testo figurativo e metricamente molto interessante, nella quale l'urgenza del messaggio soverchia ogni tipo di velleità musicale. Siamo in una stanza vuota, buia, con un po' di fumo che intravvediamo, e una ragazza di 28 anni a suo modo ci apre il suo cuore e ci mette davanti il suo passato pieno di dolore tramite parole misteriose. In "Tornado" compare una chitarra elettrica, senza peraltro scombussolare eccessivamente la struttura del suono del disco, mentre l'altro apice della raccolta si trova nell'unico singolo uscito (peraltro nel 2007, ben due anni prima della pubblicazione) ovvero "Much More Than That", dove la presa di coscienza delle proprie contraddizioni e dell'incomunicabilità dei propri sentimenti colpiscono per la lucidità con la quale vengono descritte.
Spesso, nei tanti anni di carriera, Sharon Van Etten paragonerà il suo modo di scrivere a un diario in cui vengono appuntate sensazioni, momenti, ricordi, impressioni. Non c'è miglior esempio di ciò del testo di "Much More Than That", davvero splendido nel costruire piccole immagini che nascondono sentimenti ed emozioni in cui è naturale riconoscersi, prima o poi.
Il resto del disco non contiene simili vette: la forma di chitarra e voce mantiene il totale controllo della struttura dei brani, fino ad arrivare alla conclusiva "Holding Out", una lunga ballata basata su un semplice arpeggio di chitarra e dove la splendida voce di Sharon domina l'intera composizione, lasciando stavolta un tenue messaggio di speranza e di caparbietà nel mostrare sicurezza della propria capacità di tenere duro e superare le difficoltà. Sebbene sia un concetto piuttosto generico e tutt'altro che originale, il fatto che venga posto alla fine di un disco così fortemente improntato a testi colmi di frustrazione, indecisione e un vago senso di perdizione, lascia intravvedere un senso di redenzione che, come ricordavamo in apertura, è un po' la parola che caratterizza la carriera di Sharon Van Etten.

 

Because I Was In Love, come già sottolineato, è un disco scarno, spoglio, in cui viene preferita la chiarezza del messaggio vocale e ne viene enfatizzata la potenza. Spesso composte solo da chitarra e voce, qualche volta impreziosite da un organo o da una chitarra elettrica, queste undici tracce sono profondamente figlie delle circostanze in cui vengono partorite e pubblicate, e sebbene manchino di diverse cose, non si può negare loro una profonda autenticità, una voce fuori dal comune e un modo di esprimere le proprie emozioni che fa presagire un'originalità ancora tutta da sviluppare.

To say the things I want to say to you would be a lie
By the time I get the courage I am drunk and you are tired
Alone in the basement where I will write these songs
Of things I'll never say to you again and you know why

Because I Was In Love ottiene buone recensioni al momento della sua uscita, e il nome di Sharon Van Etten inizia a insinuarsi nei circoli underground di New York, dove peraltro non era nuovo già dal 2007, anno in cui come già ricordato venne pubblicato il primo singolo della cantautrice del New Jersey. E se il primo disco esce a distanza di diversi anni da quando Sharon aveva iniziato a sognare di intraprendere una carriera nella musica, non bisognerà attendere molto per averne il seguito.

Sharon Van EttenIl secondo disco a firma Van Etten, epic, esce il 21 settembre del 2010. Il titolo, come spiegato dalla stessa cantante, vorrebbe rappresentare una riflessione "ex-post" riguardo alle sette canzoni contenute al suo interno. Un aggettivo così pomposo e importante viene privato della lettera maiuscola, abituale per la prima parola del titolo di un disco, come a sottolineare che ciò che sembrava così grande nel momento della scrittura in realtà, riguardato e rivalutato dopo un po' di tempo, si rivela essere ordinario, normale, nemmeno degno di una maiuscola.
Il disco esce per Ba Da Bing Records, etichetta dove Sharon lavora nel momento in cui viene pubblicato, ed è registrato ancora una volta a Philadelphia, ai Miner Street Recordings Studio. In cabina di regia troviamo Brian McTear, una sorta di padrone dello studio di registrazione che tra gli altri ha accolto The War On Drugs e Waxahatchee. La grande differenza è l'aggiunta di una band. Per espandere il suono estremamente scarno del primo disco, a Sharon si aggiunge un drappello di musicisti che in tutto il disco comprende una decina di elementi della scena indie di New York.
Sebbene sia affidata di nuovo a una canzone chitarra e voce, l'apertura di "A Crime" suona già come qualcosa di decisamente più maturo. Messa da parte la laconica malinconia dell’esordio, l'atteggiamento si fa aggressivo: una ribellione che trasuda da un testo pieno di rabbia, che esce schiumante da una voce graffiante e disillusa. La successiva "Peace Signs" espande i due concetti appena espressi: Sharon è finalmente accompagnata da un suono più pieno, e sembra avere una chiara e lucida direzione verso la quale vuole andare. Una chitarra semi-country e percussioni altalenanti supportano un testo stracolmo di orgogliosa indipendenza, che si manifesta nei "segnali di pace" del titolo.
L'arrangiamento arioso e debitore al primo Neil Young di "Save Yourself" giunge inaspettato, ma nel solco di un processo di amplificazione del suono forse figlio della maggiore indipendenza dell'artista e di un'accresciuta consapevolezza, maturata dopo esser riuscita a pubblicare il primo disco. Tutto ciò ha probabilmente determinato un minor tasso di urgenza nella produzione e nella pubblicazione, spostando il focus dalle parole del disco d'esordio verso una maggiore attenzione agli arrangiamenti. A riprova di ciò, la stessa Van Etten commenterà epic come un disco che non riguarda tanto lei come persona, quanto le sensazioni che ha provato.
Da "DsharpG", titolo chiaramente ottenuto dai due accordi su cui è costruita la traccia, il disco cambia passo. Un harmonium ci introduce a una lunga ballata che a volte flirta con il folk-rock originalissimo di band come i Black Heart Procession, dove un lento ritmo tenuto stancamente ci accompagna a una lunga serie di domande esistenziali. La lunga relazione, che così tanto aveva preso della sua vita, è finita, e Sharon ha iniziato una nuova vita, con l'animo pieno di dubbi. Sono tutti folli a credere in concetti come l'amore? Le persone che incontriamo tutti i giorni cosa pensano dietro lo strato di fredda indifferenza che traspare? Anche loro vivono in mezzo alle difficoltà? Una lunga passeggiata metaforica ci scorta per oltre sei minuti verso un finale inevitabilmente aperto, nel quale non ci viene fornita alcuna risposta.
Se "Don't Do It" intriga per il suo testo bifronte, una sorta di soliloquio interiore che ci proietta nelle insicurezze dell'autrice tra la tensione avventurosa e la paura dettata dai dubbi, epic, come un sapiente chef, riserva le portate migliori per il finale. Il singolo "One Day" colpisce con una chitarra 70's e un ritornello che strizza l'occhio a Stevie Nicks e che, visto in prospettiva, tradisce una gran capacità dell'autrice di produrre melodie estremamente catchy, un talento che Sharon imparerà a sfruttare appieno solo più avanti.
Infine, la agognata "Love Me More" costituisce il primo vero capolavoro della cantautrice del New Jersey. Ancora un harmonium tiene una tiepida compagnia a lume di candela a una confessione a cuore aperto di una persona distrutta dal proprio passato, vittima di una situazione troppo grande. La sincerità disarmante, da brividi, con cui Sharon ricorda la passata relazione e canta di come ogni comportamento abusivo dell'ex-partner, anziché allontanarla, la rendeva più innamorata, è una prima vera conferma evidente del talento che abbiamo davanti. Il corredo strumentale, con delicate note di chitarra che crescono lungo il brano, è perfetto nell'apportare la giusta, discreta compagnia a un testo davvero emozionante, che fa dell'intimità e della fragilità armi estremamente potenti. Questa meravigliosa canzone è stata oggetto, peraltro, di un episodio di una serie di mini-documentari prodotti dall'organizzazione no profit di Philadelphia Weathervane Music, che esplora il mondo della registrazione. L'episodio, che dura appena dodici minuti, è interessante, oltreché per il soggetto in sé, per l'intervista alla cantante, all'epoca ventinovenne, che ci fa apprezzare due importanti temi. Il primo è l'humus culturale in cui Sharon Van Etten viveva all'epoca: la possibilità di sviluppare la propria musica a New York, terreno fertile per una scena indie-rock che stava ponendo le basi per una buona parte della musica dei dieci anni successivi. Sharon stessa cita l'influenza di Peter Silberman, frontman degli Antlers che solo un anno prima avevano pubblicato un disco enorme come "Hospice", tra i lavori fondamentali del 2009 se non dell'intero decennio. La seconda è lo sguardo gioioso che si legge negli occhi della cantante quando racconta dell'introduzione di una band e di un suono più ampio nella propria musica. La capacità di interiorizzare, crescere ed evolversi rapidamente sarà uno dei punti di forza che la porteranno a un percorso in costante ascesa.

It's not because I always give up
It might be I always give out

epic è dunque uno spartiacque fondamentale della carriera di Sharon Van Etten. La compattezza e autenticità di quelle sette tracce, miste a una decisa maturazione compositiva e musicale, mettono la carriera della cantante ora ventinovenne sui binari giusti.

Sharon Van EttenPer la produzione del terzo disco viene scomodato addirittura Aaron Dessner, una delle menti geniali dietro ai National, gruppo che si può ormai ragionevolmente considerare una delle realtà in grado di definire gli ultimi due decenni di musica indie-rock e non solo. Aaron, polistrumentista sempre alla ricerca di progetti paralleli al suo ruolo di spicco nei National, si lascia attrarre dalle potenzialità che i primi due dischi di Sharon (soprattutto il secondo) avevano lasciato intravvedere e, come detto, si propone di produrre il disco successivo, che uscirà il 7 febbraio del 2012 (quindi a meno di 18 mesi dal precedente), questa volta per Jagjaguwar, con il nome di Tramp.
È un periodo particolare nella vita di Sharon, che da un lato sente finalmente di aver intrapreso la strada giusta per la sua vita, ma dall’altro deve sottostare, come tutti, alle regole di questo mondo e come tanti artisti alle prime armi fatica a essere indipendente economicamente. Lo stesso Dessner racconterà come ai tempi delle registrazioni di Tramp, svoltesi a casa sua a New York, e precisamente nel suo garage, spesso durante le pause i due si avventurassero in lunghi giri in macchina, e di come l'auto di Sharon gli fosse sempre sembrata eccessivamente piena di oggetti, sino a capire che in realtà la giovane cantante in quel periodo non aveva una fissa dimora, vivendo su divani di amici o nella macchina stessa in situazioni di necessità. È un particolare tipo di contraddizione, una delle tante del nostro tempo, raggiungere un buon livello di notorietà almeno nella zona di New York ma non potersi permettere un luogo dove vivere. In questa situazione instabile, piena di ispirazione ma anche di insicurezza, Sharon Van Etten dà alle stampe quello che è nettamente il suo disco più "rock". E il supporting team comprende un mix delle più interessanti realtà del momento di stanza a New York, tra cui Doveman, Peter Silberman e Zach Condon, in arte Beirut.
L'inizio di "Warsaw" è indicativo: le chitarre elettriche sinuose si muovono in uno sfondo oscuro, il suono è pieno: se prima ci trovavamo in delicati, malinconici ranch di montagna, ora stiamo correndo in mezzo alla nebbia e alla pioggia. Il testo, ancora una volta ermetico, ci lancia in diversi scenari senza farcene afferrare nessuno, in pieno stile Van Etten. La più acustica "Give Out", tra le tracce migliori del lotto, lascia per terra piccoli strascichi della relazione passata, ed è interessante osservare come pure in testi così criptici e sfuggenti la visione su un periodo così buio cambi e si modifichi, maturando, con il passare del tempo e dei dischi. Se prima era dolore, ora sono fantasmi di ricordi forti, ancora vividi, nonostante il tempo passato. Una chitarra acustica e lontane distorsioni accompagnano questo mosaico di amare reminiscenze.
In brani come "Serpents", primo singolo e brano di maggior successo del disco, l'impronta di Dessner si fa sentire forte, tant'è che il brano sembra quasi un outtake di "Alligator" dei National. Un ritornello di forte impatto, la slide guitar di Aaron e percussioni che richiamano quelle del maestro Bryan Devendorf compongono questa bella canzone, dove persino il testo per stile sembra richiamare Matt Berninger, nella sua ferma rivendicazione di indipendenza commista a una lucida ammissione di fragilità.
La successiva "Kevin", dedicata a un amico di Sharon che la ospitò durante diversi periodi della sua "vita nomade", ritorna ad atmosfere simili a quelle del disco di esordio, arricchite invero piuttosto neutralmente da una band più estesa; un lento fingerpicking e la solita piena interpretazione, particolarmente dolorosa ed espressiva di Sharon tengono in piedi un pezzo non particolarmente degno di nota, al contrario della successiva "Leonard", a sua volta dedicata a un "amico" meno vicino, ovvero Leonard Cohen, dove piacevoli influenze pop-rock (Death Cab For Cutie ma anche The Decemberists) accompagnano riflessioni su una relazione finita male. Il testo, interessante e sperimentale anche dal punto di vista concettuale, riflette sul proprio passato analizzandolo con tre punti di vista differenti: amore, perdita e superamento finale, accompagnato da un bel finale in crescendo sorretto dagli archi coordinati da Rob Moose (con Antony & The Johnsons e My Brightest Diamond tra gli altri).
La seconda parte di Tramp mostra un'imprevedibilità decisamente minore, e i momenti davvero da ricordare sono due. Prima, la semplice ballad "lanadelreyiana" ante-litteram "All I Can", intensa nella sua fragilità (una canzone che Phoebe Bridgers, che peraltro non ha mai nascosto la sua passione per Sharon Van Etten, ha sicuramente ascoltato più di una volta). Qui il songwriting, già aperto e ampio in precedenza, si espande ulteriormente, spostando il focus dall'episodio singolo all'analisi generica dei sentimenti. Nel finale, ancora una volta aperto e in climax, partecipano anche dei fiati "beirutiani", accompagnando l'apporto chitarristico di entrambi i fratelli Dessner e quello ritmico di Bryan Devendorf (in persona questa volta). Poi, la tenera "We Are Fine", un breve e ispirato antidoto agli attacchi di panico, dove un ukulele accompagna un duetto tra Sharon e Zach Condon, in una splendente ammissione di fragilità, in cui la cantante americana apre il cuore alle proprie difficoltà di fronte a questa difficile malattia, così invadente.
Il resto del disco, dal tentativo di slowcore di "In Line" al finale in crescendo - questa volta non troppo ispirato - di "Ask" e alla chiusura acustica di "Joke Or A Lie", non aggiunge molto a un lavoro che senz'altro non si può definire negativamente, ma che, pur a fronte di una maturazione del suono instancabile e di una svolta lirica interessante, non è assecondato da un'ispirazione generale altrettanto forte. La produzione di Aaron Dessner, che doveva essere un punto di forza, non riesce ad apportare un vero valore aggiunto a queste undici tracce, e laddove epic riusciva a essere concentrato e senza cali proprio grazie alla sua compattezza, Tramp manca nel tenere sul filo costantemente.

You told me the day
That you showed me your face
We’d be in trouble for a long time

In ogni caso, la svolta rock di Tramp è, nelle sue contraddizioni, una boccata d'ossigeno per Sharon, che continua nella sua crescita in quanto a popolarità e si ritaglia spazio per un lavoro su se stessa e sul proprio suono che, come già detto, si manterrà una costante della sua carriera. Per quanto inevitabilmente si muova all'interno di coordinate piuttosto delineate, la cantante del New Jersey riesce a non mettere mai in fila due dischi uguali. E perciò dal rock chitarristico di Tramp si prosegue verso un indie-rock meno aggressivo e più "sereno", come è stato spesso definito il mood del quarto disco a firma Van Etten, ovvero Are We There, che vede la luce il 27 maggio del 2014 sempre per Jagjaguwar. La produzione, come da prassi, cambia ancora e viene affidata, oltreché per la prima volta alla stessa Sharon, allo storico ingegnere del suono Stewart Lerman (una sorta di mostro sacro che, tra gli altri, ha lavorato con Antony & The Johnsons, Patti Smith ed Elvis Costello). Le registrazioni si svolgono tra le due case della cantante, quella anagrafica (Hobo Sound studios di Weehawken, New Jersey) e quella adottiva (gli Electric Lady Studios di New York).
L'incipit di "Afraid Of Nothing", estremamente d'impatto, è affidato a quattro accordi di piano e a un lieve strumming di chitarra. Per la prima volta, il riferimento al partner sembra essere cambiato e sembra far trasparire qualcosa di nuovo, nel descrivere l'ineludibile momento in cui è necessario buttarsi totalmente nella relazione o scapparne. La seconda parte della canzone, dove un crescendo "controllato" si compone di chitarre e piano accompagnate dagli archi, ci trasporta lontano, con un ritornello ancora una volta toccante nella sua interpretazione.
La successiva "Taking Chances", primo singolo estratto del disco, ci mostra la nuova direzione presa dal lavoro (e anche un ingresso soffuso e in punta di piedi dell’elettronica). La canzone è un gioiello pop, con un ritornello squarciato da distorsioni elettriche di chitarra, sempre e comunque riaccompagnato a una delicatezza che è una delle cifre stilistiche della Van Etten. Si ha la sensazione che Sharon potrebbe mettersi a urlare in mezzo a una piazza senza comunque dare fastidio a nessuno dei passanti.
"Your Love Is Killing me", una delle canzoni più ambiziose del disco: assomiglia davvero a una sessione terapeutica, con la sua vivida descrizione di una relazione sbagliata, con un testo (e soprattutto un ritornello) davvero precisi nel disegnare una situazione psicologica delicata. La seconda parte della traccia si apre vocalmente e strumentalmente, come in un'accettazione di un dolore davvero tangibile, nel quale ci trasporta un'interpretazione da brividi. I testi di Sharon non sono mai stati (e non saranno più, per ora) così chiari e diretti, non hanno mai fatto manifestamente così male.
Dopo "Our Love", che poco aggiunge alla serenità già consumata da "Taking Chances", l'umore si trasforma nella tenera "Tarifa", descrizione di un momento di serenità e spensieratezza durante una vacanza in questa località spagnola, che conduce a uno degli apici musicali del disco, con pennellate di wurlitzer ad accompagnare un delicato coro di fiati, facendoci immergere in un tramonto caldo dove si vorrebbe fermare il tempo ("Soon it was 7, I wish it was 7 all night"). Una novità assoluta nella discografia della cantautrice statunitense.
Si prosegue tra "I Love You But I'm Lost", quieta ballata al piano, attraverso "You Know Me Well", la più simile allo stile di Tramp, tra una tensione palpabile e un arrangiamento elettrico, verso "Break Me", preziosa gemma indie-pop nella quale si percepiscono alcuni segnali della svolta che Sharon opererà nel disco successivo, a ben vedere la più netta della sua multiforme carriera: un synth soffuso ci introduce forse al miglior ritornello della carriera della songwriter del New Jersey, con la sua voce che viaggia incontrastata e sorretta da una chitarra rubata ai Cocteau Twins, mentre le strofe provano a trasportare in salsa pop alcuni suoni dell'"Apollo" di Brian Eno.
E se "I Know" stupisce principalmente per l'incredibile versatilità della voce di Sharon, quasi manieristica in questa occasione, c’è ancora tempo per un colpo da fuoriclasse sul finale. "Every Time The Sun Comes Up", nata da una jam session della band e secondo singolo del disco, è la canzone pop definitiva del suo repertorio: vera, decisa sferzata verso un suono nuovo, profondamente nordamericano (Neil Young su tutti), e insieme a "Tarifa", secondo momento di lucida spensieratezza. La chitarra ci avvolge mentre delicate note di wurlitzer ci accompagnano in una canzone perfetta per un viaggio in macchina, simile a quello compiuto da Sharon nella foto di copertina. Un lato che non conoscevamo, tenuto nascosto da frustrazione, rabbia, solitudine, compare pian piano come il sole all'alba, senza ancora scaldarci ma facendo filtrare raggi di luce dopo una notte buia. Una nuova via, luminosa come niente era mai stato nella vita di Sharon Van Etten, a lasciar intendere che, sebbene non vada dimenticato, il peggio forse è stato lasciato alle spalle.

I want to be a mom, a singer, an actress, go to school, but yeah, I have stain on my shirt, oatmeal in my hair and I feel like a mess, but I’m here. Doing it. This record’s about pursuing your passions

L'apertura e la spensieratezza di alcuni tratti di Are We There vengono corroborati da un periodo di serenità nella vita personale della cantante originaria del New Jersey, e il buon successo commerciale riscosso dal suo quarto disco in studio sfocia in un lungo tour. I cinque anni successivi passano mentre Sharon si dedica ad attività che non per forza hanno a che vedere con il mestiere della cantautrice: un cameo nella attesa terza stagione della serie capolavoro di David Lynch "Twin Peaks", un ruolo da protagonista nella serie tv Netflix "The OA", ma soprattutto l'inizio di un percorso universitario con l'obiettivo di ottenere una laurea in psicologia e la prima gravidanza della sua vita.
Certo, Sharon pubblica singoli (da recuperare l'ottimo "The End Of The World", uscito nel 2017 e incluso nella colonna sonora dell’adattamento in versione serie-tv di Amazon Prime del romanzo "The Man In The High Castle" di Philip K. Dick) e un Ep dal titolo I Don't Want To Let You Down pubblicato nel 2015, che poco aggiunge a quanto detto da Are We There; ma questa serie di novità nella vita di Sharon si rispecchierà in quello che si può definire senza dubbio il disco più ambizioso dell’autrice americana.

Sharon Van EttenRemind Me Tomorrow esce il 18 gennaio 2019, sempre per Jagjaguwar e con l'imponente produzione di John Congleton. Il disco viene registrato interamente agli Studio 64 di Los Angeles. Esiste una sorta di legame tra i primi accordi di piano di "Afraid Of Nothing" che aprivano Are We There e quelli che danno l'abbrivio a "I Told You Everything", l'apripista di questo nuovo lavoro. Come se l’idea fosse quella di dimostrare quanto, partendo da premesse simili, anche due anime diverse potessero restare fedeli a una sola identità.
Nella prima parte di "I Told You Everything", gli stilemi sono quelli che abbiamo già rinvenuto nelle pubblicazioni precedenti, ma pian piano si viene poi catapultati all'interno di una distorsione elettronica basata su drum machine e sintetizzatori. Il tutto, come al solito, contraddistinto da una sottile malinconia di fondo dalla quale sembra impossibile liberarsi. La produzione fa sentire lo stile e il tocco che dominerà l'intero disco, ovvero una presenza penetrante ed evidente seppur centellinata. La canzone si regge su un equilibrio fragile, costruito su pochi elementi: il più importante dei quali, il testo, per la prima volta affronta il passato oscuro come un qualcosa di distante, doloroso ma concluso, confidato in un momento di vorace sincerità.
La successiva "No One's Easy To Love" mostra una produzione più forte (e debitrice dei Radiohead di "In Rainbows"). Scritta nel tipico stile di Van Etten, mostra però suoni in parte inediti con un crescendo trascinante che conduce a un'apertura armonica nel ritornello vicina addirittura a territori electro (Royksopp?), mentre Sharon parla con la maturità di un personaggio tolstojano. Esiste una nuova persona, e ce ne rendiamo conto dal tono differente con cui questo testo viene interpretato. "Memorial Day" continua coerentemente con il crescendo elettronico; ancora una volta il talento melodico di Sharon è messo nelle condizioni di rendere al meglio, con un ritornello meraviglioso che si staglia tra un inizio che assomiglia alle ultime produzioni dei Low (il loro gioiello "Double Negative" è di pochi mesi precedente a Remind Me Tomorrow) e distorsioni quasi "industrial" debitrici dei Portishead del capolavoro "Third" (2008). Siamo solo al terzo brano del disco e già ci si è schiuso un mondo. "Memorial Day" rientra a pieno titolo in un ipotetico "greatest hits" di Van Etten, con la sua inquietudine, alimentata dagli interrogativi del testo e dai cori oscuri e dalle tenebrose atmosfere dell'arrangiamento.
L'anima indie di Sharon si rivela nuovamente in "Comeback Kid", una cavalcata alla Arcade Fire, nel quale una ragazza sul ciglio della strada fa riemergere alla cantante la propria gioventù ribelle. L'istinto non è più sovversivo, ma quasi paternale, perché quella ragazza pare quasi evocarle un senso di tenerezza e di protezione (che si ritroverà anche in "Seventeen").
È però a metà del disco che si sublima la definitiva trasformazione voluta dalla coppia Van Etten-Congleton. Il singolo di lancio del disco, "Jupiter 4" (nome del sintetizzatore utilizzato nel brano), è la summa ideologica e lo zenith creativo di Remind Me Tomorrow. Prende forma compiutamente tutto ciò che era stato abbozzato finora: uno dei testi più impressionistici della sua carriera, un ritornello semplicemente perfetto, accompagnato da una danza ipnotica nel suo reiterarsi ossessivo. "Jupiter 4" è una di quelle canzoni che rimangono, che non appassiscono mai, che ogni volta che risuonano generano nuove sensazioni perché la complessità del lavoro dell'ispirazione da cui provengono glielo permette. E dopo la versione più estremista, arriva la sua gemella in salsa pop, componendo un binomio che rappresenta il massimo proposto da questo disco (e forse della carriera intera di Sharon Van Etten). "Seventeen" è un inno pop che in un mondo ideale dovrebbe passare in tutte le radio: si basa su due semplici accordi appiccicosi di piano, con un testo che perfeziona l'intero concetto del parlare al proprio "io" del passato, un inno a New York e all'accettazione, non più stoica ma profondamente genuina, della inevitabilità degli errori. Un'esortazione ad avere fiducia nel tempo e nella vita. A condire il tutto, una interpretazione mozzafiato, vertiginosamente autentica e coinvolgente ("I see you so uncomfortably alone, I wish I could show you how much you’ve grown"). Distanti ma identiche, una ragazza di 17 anni e una donna di quasi 40 si ritrovano di fronte alle stesse paure, viste da prospettive profondamente differenti. Entrambe necessarie, sia beninteso, perché la sensazione di questo splendido passaggio - come di tante parti della discografia di Sharon Van Etten - è quella che il dolore e la paura vadano accettati come parti del viaggio, senza rancore né rimorso.
Nella seconda metà del disco, "Malibu" richiama l'esperimento disteso di "Tarifa" del disco precedente: il racconto di un'esperienza spensierata, con gli archi ad accompagnare i synth che la fanno anche qui da padrone, insieme alla conferma di come Remind Me Tomorrow sia un disco melodicamente impeccabile; mentre "Hands", con una produzione pesante e addirittura una voce effettata, si ritrova nuovamente a richiamare agli ultimi Portishead, con le chitarre che fanno a malapena capolino sotto il tappeto di distorsioni elettroniche.
In conclusione, a coronare il viaggio attraverso una tracklist partita con intime confessioni e proseguita attraverso piccoli sprazzi di vita di coppia, "Stay" è la dedica più tenera e affettuosa, quella al figlio. Una dichiarazione a cuore aperto, con drum-machine e suoni ancora in parte inusuali (anche se rispunta un organo tanto caro a epic). Un bell'epilogo per una storia a lieto fine e per un viaggio di resurrezione: il figlio visto come distacco definitivo da un passato oscuro e come punto di partenza per un futuro più roseo.
Remind Me Tomorrow segna quindi una decisa svolta, incarnando quello che si potrebbe definire "disco della maturità", soprattutto artistica per Van Etten (quella umana, complici anche le sue vicende, l'aveva già raggiunta anni prima). Di certo si tratta del disco della sua consacrazione presso il grande pubblico e la critica specializzata. Ma il quinto disco della cantante del New Jersey è soprattutto un lavoro coraggioso, scevro da compromessi ed esitazioni. Un netto passo in avanti nella sua carriera, la dimostrazione di un buon livello di eclettismo unito a uno stile sempre più personale e a una ritrovata serenità nella vita personale che traspare, seppur comunque sposata a quella malinconia esistenziale che da sempre costituisce il Dna della songwriter americana.

Even when I make a mistake
Turns out it's great
Even when you're late, you're late, you're late
It's much better than that

Come già accennato, Remind Me Tomorrow presto si tramuta nel disco più conosciuto e apprezzato di Sharon Van Etten, sebbene il suo successo in studio non potrà essere replicato fedelmente in versione live, a causa dei fatti che segneranno tristemente l'inverno del 2020. Fatti che, come per la maggior parte degli artisti, avranno un effetto molto pesante sulla stessa carriera della Van Etten. Proprio il Covid-19 e la quarantena forzata diverranno i temi centrali nel nuovo disco della cantante americana, il sesto della sua produzione, che vedrà la luce il 6 maggio del 2022.

 

Sharon Van EttenIl titolo è We've Been Going About This All Wrong, una frase estrapolata dal film "The Sandlot" del 1993, che Sharon ha visto "probabilmente 100 volte" con il figlio durante le giornate della pandemia. La produzione, oltreché alla cantante stessa come già successo con Are We There, viene affidata a Daniel Knowles, mentre nel gruppo che l'accompagna figurano elementi noti come Zachary Dawes (The Last Shadow Puppets) e il violinista Owen Pallett, già al lavoro con gli Arcade Fire. La registrazione viene eseguita interamente a casa di Sharon, a Los Angeles, California, e il disco esce ancora una volta per Jagjaguwar, ormai diventata etichetta storica per la cantante americana.
Nessun singolo era stato pubblicato prima del 6 maggio, e perciò tanta era la curiosità ascoltando le prime note di "Darkness Fades" riguardo al nuovo percorso intrapreso. Ed effettivamente l'inizio è abbastanza spiazzante: soffuso, con un mite arpeggio di chitarra, un testo estremamente criptico che evoca immagini dal passato, mentre un crescendo ci scorta verso il ritornello con una voce incredibilmente evocativa e una batteria rubata al meglio dello slowcore dei primi anni 90.
Tutto ciò che era stato realizzato in Remind Me Tomorrow sembra essere scomparso. Nasce così l'ennesima versione di Sharon Van Etten, che però ci sembra familiare come mai in passato. L'efficace ritornello, grazie al solo uso di singole parole, evoca paesaggi lontani: il lavoro di cesellatura su questo testo è formidabile, davvero ermetico nel senso più antico e migliore del termine (pare quasi rievocare alcuni poeti italiani di inizio ‘900 nel loro cercare il più tramite il meno). "Darkness Fades" è, più semplicemente, una canzone meravigliosa, potente, un'ondata di vento forte, nella quale una voce straordinaria domina un lungo viatico di saliscendi melodici di grande impatto emotivo.
La successiva "Home To Me" rientra in una nuova categoria di canzoni sul tema della maternità e del rapporto con il figlio, suggellando un nuovo momento nella vita dell'artista americana, profondamente diverso rispetto a tutto ciò che era venuto prima. Più simile alle sonorità del disco precedente, soprattutto nel ritornello dove un corridoio di drum machine introduce l'ormai azzeccatissimo ritornello, mentre un climax di synth che richiamano gli M83 di "Saturdays=youth" si staglia inesorabile come qualcosa di lontano e vicino allo stesso tempo. E se in "I'll Try" la scrittura si fa ancora più ermetica e simbolica, al contrario la profonda espressività di "Anything" colpisce nella sua brevità ("Chainsmoking like no it ain't right, afternoon beer? Understate. I didn't feel anything") e nella sua profonda emotività, a chiudere una prima parte del disco senza difetti.
"Born" idealmente farebbe parte di un'altra faccia del vinile: i ritmi si abbassano, accordi di piano al rallentatore e un cantato quasi sottovoce vengono cadenzati da una chitarra acustica (che si riprende i propri spazi dopo essere stata quasi del tutto accantonata nei due dischi precedenti). La chiusura è ancora una volta di grande suggestione, con la voce eterea di Sharon che tocca vette altissime e un toccante crescendo che riporta la mente alle pagine migliori dei Sigur Ròs. "Headspace" pare quasi una outtake di Remind Me Tomorrow con le sue linee di basso profonde e inquietanti e la sua elettronica che avrebbe degnamente figurato tra i solchi di "All Mirrors" (tra l'altro Sharon è amica di Angel Olsen e le due cantanti contano un paio di collaborazioni in studio insieme e qualche tour in un trio tutto al femminile con Julien Baker) così come in certi lavori nu-new wave dei primi anni Dieci (vengono in mente gli Editors di "In This Light And On This Evening").
"Darkish" costituisce invece il momento più acustico del disco e un vero e proprio ritorno al passato: Sharon prende in mano la chitarra, e canta nella semplicità scheletrica che contraddistingueva il suo suono di 15 anni prima. A fronte del momento più acustico, troviamo il pezzo da 90, sfacciatamente, provocatoriamente pop: "Mistakes". Trascinante cassa a 4/4, chitarre e synth che si mescolano sotto un testo carnale, sanguigno, che trasmette una fiducia rigenerante nella vita e nel futuro. La chiusura sognante è affidata a "Far Away", altra bellissima canzone con chitarre alla Cocteau Twins che sorreggono Van Etten mentre la sua voce viaggia su vette quasi inesplorate (Lisa Gerrard?).
La versione deluxe contiene altre tre ottime canzoni, tra le quali merita una menzione "Porta", lanciata come singolo nel 2021 e inclusa nella seconda stampa dell'album.

 

Se Remind Me Tomorrow era il salto nell'ignoto, la sperimentazione, il coraggio, We've Been Going About This All Wrong è il ritorno a se stessi, la consapevolezza e l'orgoglio. Un sussidiario del suono di Sharon Van Etten negli anni, partendo dalle timide e spoglie tessiture acustiche di Because I Was In Love sino ai potenti synth del disco del 2019.
Qui c'è tutto, ed è tutto composto con la giusta dose di autostima e amore per la musica, la cosa che – e non è un cliché affermarlo - ha salvato la vita di Sharon Van Etten.