Quando Abbe Nicholas Louis de la Caille, al Capo di Buona Speranza il 23 febbraio 1752, scoprì l'esistenza della Messier 83, per comodità M83, non immaginava di certo che questa galassia spirale dall'aspetto dinamico, compenetrata da regioni nebulose bluastre e rossastre, sarebbe stata presa a riferimento per ambiti che esulano totalmente dall'astronomia. Ecco che, due secoli e mezzo dopo, a due ragazzotti francesi, Nicolas Fromageau e Anthony Gonzalez, viene in mente, in piena crisi post-puberale tra party e droghe, di iniziare a comporre musica sotto tale sigla. Era l'alba del 2000. Da quasi dieci anni ne è passata molta di acqua sotto i ponti, anche per gli M83 da Antibes, Francia.
All'epoca lo shoegaze, già sottovalutato persino ai tempi delle sue massime espressioni, era stato ampiamente riposto in soffitta. Gruppi come gli Slowdive, i My Bloody Valentine, i Ride godevano di fama limitata fino a quando, a partire degli anni Duemila, diversi gruppi ripresero quel genere di sonorità, aggiornandole al tempo delle macchine. Fra questi, quali elementi di spicco, assieme a Ulrich Schnauss, Asobi Seksu, ci sono sicuramente anche gli M83. Attraverso un'operazione di rivisitazione del dream-pop di marca 4AD e dello shoegaze meno vibrante, Nicolas Fromageau e Anthony Gonzalez sono entrati di diritto tra i padri del cosidetto neo-shoegaze, ammantando di sensibilità pop le loro dolci scie astrali.
Il 2001 vede gli esordi sulla lunga distanza sia del teutonico Schnauss, col bellissimo "Far Away Trains Passing By", sia del duo transalpino con M83. Il loro self-titled si snoda in oltre un'ora di musica, articolata in quattordici tracce. A dominare è la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo. I suoni sono analogici, l'era delle chitarre effettate non viene affatto rimossa ma svecchiata a colpi di synthe tastiere. Gli M83, riqualificando lo shoegaze al tempo dei laptop, disegnano archi sonori perfetti, che si muovono simmetricamente in un moto geometrico circolare. Le pulsioni digitali si adagiano sempre placidamente sulle distese di note lanciate senza soluzione di continuità. Sembra di sentire suoni dal futuro, in realtà è solo la contemporaneità che avanza.
Facendo deflagrare i synthsu profumi primaverili e discostandosi dai più blasonati conterranei (Air e Daft Punk su tutti), il self-titled lascia completo spazio all'immaginazione, attraverso melodie del suono che assumono forme aliene. A dominare, tuttavia, è sempre e comunque la melodia: "Night", confusa tra beat che si stendono orizzontalmente e tappeti psichedelici dal sapore brioso, i tepori french touch degli Air di "10.000 Hz Legend" di "Kelly", la liturgia "I'm Happy, She Said" dalla coda prima ambient poi noise. A stupire è la capacità di costruire melodie capaci di imprimersi nella mente, limpide nel loro rilucente candore. Non mancano riferimenti tra i più vari: dall'ambient più calda e avvolgente ("Carresses", "At The Party" e "She Stands Up") alle atmosfere digitali da dancefloor ("Sitting" oppure "Slowly") fino al carillon fatato di "Violet Tree". Sebbene nella seconda parte dell'album venga forse un po' meno quel mordente che ne aveva caratterizzato la prima, il debutto del 2001 è sicuramente più che soddisfacente, una pietra di partenza.
Dopo il fortunato tour che segue l'album d'esordio, i due francesi decidono di rimettersi al lavoro, forti anche di un contratto con la Mute, che evidentemente ne intuisce le capacità. A due anni di distanza dalla prima fatica è pronto l'atteso seguito, intitolato Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts. Il bis concesso dagli M83 è probabilmente il caposaldo del revival shoegaze tutto: accorciando la durata totale del flusso sonoro, a favore di una maggiore immediatezza e di una minore carica dispersiva e accentuando la componente marcatamente dreamy, il duo di Antibes sforna un vero e proprio capolavoro. L'intro ("Birds") è quanto di più vicino possa esservi ai Radiohead robotici ("Sun is shining, birds are singing, flowers are growing, clouds are looming and I am flying"): un manifesto dell'estetica degli M83, un punto di partenza per compredere l'immaginario sotteso alle distese sonore dei due. La seconda traccia, "Unrecorded", è gioiello di melodia che si muove tra saliscendi digitali non troppo distanti dai Telefon Tel Aviv, solcati da un vocoder e linee di synth in evidente odor di eighties.
E se "Run Into Flowers" è a tutti gli effetti una perla pop, perfetto sottofondo sonoro per "Kiss Me" a nome Sixpence None The Richer, l'organo digitale di "In Church" parte austero e cupo, pur fra lievissimi sfrigolii psych, per aprirsi gradatamente a una melodia granulare, che si libra eterea nello spazio. I fendenti digitali di "America" squarciano il cielo stellato, prima placandosi, poi riprendendo improvvisamente vigore. L'incedere sognante e compassato di "On A White Lake, Near A Green Mountain" proietta idealmente l'ascoltatore in un denso limbo dalle tinte pastello. La magia pare inarrestabile, le tracce si susseguono con incredibile semplicità, un lungo viaggio celeste senza tempo, che ci si lasci incantare dalle alte onde che paiono amiche ("Noise") o che ci si culli nelle divagazioni dream-ambient di "Gone". E prima dei clangori finali à-la Sigur Rós, il duo conduce dritti alla pista da ballo, immergendo idealmente l'ascoltatore in moderne trame sintetiche ("0078H"), oppure nei favolosi anni Ottanta ("Be Wild" e "Cyborg)".
Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts si impone nell'olimpo del pop digitale, senza tuttavia suonare freddo. La plastica forgiata dagli M83 si mantiene sempre fluida e rovente, pronta a incendiarsi e a essere plasmata in mille forme.
Il successo, nemmeno a dirlo, è debordante, tanto che il tour susseguente si protrae per quasi un anno e mezzo. Da fenomeno di ultra-nicchia, Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts porta gli M83 alle ribalta delle pubblicità, delle interviste, dei clamori della stampa specializzata e non. Ma tutto il tranbusto seguito al capolavoro del 2003 sicuramente non ha giovato al duo: terminato l'estenuante tour, Nicolas Fromageau decide infatti di mettersi da parte, chiudendo così una breve ma significativa era per la band transalpina, il cui peso ricade ora interamente sulle spalle di Anthony Gonzalez, che di volta in volta si farà affiancare da esperti musicisti che lo aiuteranno sia nelle performance live che nella registrazione delle successive fatiche.
Elevate attese, determinate anche dalla curiosità circa il percorso intrapreso dopo la dipartita di Nicolas, circondano dunque il successivo Before The Dawn Heals Us, che vede la luce nel 2005, ancora per l'etichetta Mute. Se l'esordio era caratterizzato da maggiori riferimenti all'elettronica e il secondo lavoro elevava la melodia a fulcro, ecco che con Before The Dawn Heals Us emerge un'ulteriore sfaccettatura della musica di quell che ormai può definirsi una one man band. Non più, o comunque non solo, tracce perfette per passeggiate spaziali: nei quindici brani nei quali si articola il disco emerge un lato maggiormente psichedelico, più introspettivo e cupo. La disperata sacralità dell'iniziale "Moon Child" ne è manifesto illuminante: una voce femminile al telefono intona straziata "They say I made the moon everything was in the dark. No memories at all, just a tiny freezing wind in my back as i was sitting there singing a song they had never heard before suddenly, a voice told me keep on singing little boy and raise your arms in the big black sky raise your arms the highest you can".
Le tinte si contrappongono, tra sferraglianti giri di energici synth ("Don't Save Us From The Flames", "Teen Angst" e "A Guitar And An Heart "), mantra psichedelici ("Safe") e divagazioni ambientali. E se "Farewell/Goodbye" riporta alla mente gli episodi più zuccherosi del dream-pop, in "In The Cold I'm Standing" si respira un afflato gotico alla maniera dei Lycia più luminosi.
Nel complesso, si tratta tuttavia di un netto passo indietro. Pur non mancando diversi episodi positivi, a prevalere è la sensazione che l'abbandono di Nicolas e l'inaspettato successo del precedente album, abbiano sicuramente influito nel processo compositivo, e non di certo in senso positivo.
Ispirato dai numerosi ascolti del primo periodo di Brian Eno, Antony Gonzalez decide di pubblicare nel 2007 il primo volume della serie Digital Shades. Ponendo momentaneamente in disparte l'essenza del sound M83. Digital Shades Vol. 1 raccoglie dieci bozzetti ambientali, per una durata di poco superiore alla mezz'ora. Avvolta da uno spirito prossimo a certi lavori new age, la nuova fatica degli M83 pare decretare la china discendente già iniziata col precedente lavoro.
A dominare l'intero disco è una sensazione di pacifica rassegnazione, prodotta da fasci sonori che non arrivano al cuore ma si perdono in se stessi ("My Own Strange Path", "Dancing Mountains"), spesso risultando alquanto sterili ("Sister, part 1", "Sister, part 2"). Le uniche note positive giungono dall'impetuoso candore di "Coloring The Void" e dalla similare chiusura di "The Highest Journey".
A conti fatti, davvero un passo falso per Gonzalez, una produzione sconclusionata che palesa la stanchezza di un suono che necessita urgente rinnovamento.
Nel 2008 Antony Gonzalez ritorna, quantomeno nelle intenzioni, ai fasti musicali delle precedenti opere, accentuandone tuttavia in maniera esponenziale le componenti più zuccherose e rassicuranti. Se i primi due album brillavano d'una luce propria e intensissima, in Saturdays=Youth si percepisce un appiattimento strisciante su un poco convincente ibrido pop-shoegaze. Il risultato finale stenta a convincere, condizionato soprattutto da una seconda parte del tutto deludente.
L'iniziale "You, Appearing" si snoda fra un pianoforte, una dolcissima voce eterea e una miriade di riverberi da brividi. La meteora pop che risponde al nome di "Kim & Jessie" brilla prononendo un sound avvolgente, perfetto per l'ascolto in auto nelle giornate di sole. E se "Skin Of The Night" gioca su toni vagamente gothic, la successiva "Graveyard Girl" strizza l'occhio - per usare un eufemismo - ai Pet Shop Boys.
Ma da lì in poi, a parte il caleidoscopico mondo di "Coloeurs" e "Dark Moves Of Love", la qualità scade in maniera vertiginosa, e si passa da stratagemmi di pronto impatto come "Too Late" e "Up!", a brani del tutto stucchevoli, come gi undici minuti e undici secondi, piatti e noiosi, della traccia conclusiva.
Tirando le somme, si direbbe semplicemente un lavoro non del tutto riuscito, un disco eccessivamente prolisso, che propone una formula che, col passare dei minuti, finisce per diventare melensa.
La meteora M83, dopo due album deliziosi, pare si stia lentamente eclissando. L'impressione è che sia necessaria una svolta per poter tornare a confezionare quelle perle che il duo di Antibes ha mostrato di saper regalare nel corso della sua carriera.
Il doppio Hurry Up, We're Dreaming (2011) tenta di rilanciare le ambizioni della band francese, facendo ricorso a tutto il suo armamentario, tra coretti, synth e atmosfere tronfie. Lo schema è piuttosto standardizzato: partenza lenta e frastuono colorato finale ("Year One, One Ufo", "Ok Pal", "Raconte-Moi Une Histoire", "Intro", "My Tears Ha), inizio roboante con synth a palla ("Midnight City", "New Map"), intermezzi vari a spezzare il ritmo e una manciata di ballate lente. Prese una a una, le tracce non sarebbe nemmeno poi così male, ma nel complesso è il polpettone del lunedì sera che non va giù. La rivoluzione caramellata di quel revival-shoegaze che aveva fatto sperare in molti è naufragata così?
Nel 2013 Gonzalez accetta incarichi di colonne sonore. Oblivion (2013), nuovo successo al botteghino di Joseph Kosinski, bissa il connubio tra sci-fi e french-touch (allo stesso modo per la score dei Daft Punk di Tron Legacy nel 2010), ma si rivela più una pomposa partitura hi-tech del collaboratore Joseph Trapanese (già in Harry Up). Più personale, sia in termini realizzativi che stilistici è You And The Night (2013) per l'omonimo film del fratello Yann Gonzalez, prossimo a un caleidoscopio di tecniche eterogenee e registri variati in perfetto stile Vangelis.
Frattanto il fuoriuscito Nicolas Fromageau vara la sua carriera solista a nome Team Ghost con We All Shine (2011) e Rituals (2013).
Ormai decollato in senso internazionale, Gonzalez può così aggiungere al suo curriculum una quasi ovvia partecipazione al corale Electronica 1 (2015) del suo padrino artistico Jean-Michel Jarre.
Nel successivo Junk (2016) Gonzalez dirige gli ospiti in modo ineccepibile, prendendosi anche il tempo necessario per dare brio alla confezione. Il contenuto scade tra techno rozzi e soft-dance, e dunque a spiccare è qualcosa che approfondisce questo procedimento sfacciatamente commerciale, che ormai non riguarda nemmeno più la sua carriera: il lento di "For The Kids". Abboracciato, ridondante, con scelte d'arrangiamento discutibili (tra cui degli orribili filtri elettronici), per una durata persino allucinante.
Dopo l'alquanto trascurabile DSVII del 2019, imperniato su sonorità da film di fantascienza e fantasy, nel 2023 Anthony Gonzalez torna finalmente a sfoggiare un lavoro estremamente convincente.
Fantasy è il titolo di questo lungo album (oltre cento minuti), nel quale M83 ritorna a modellare materiale multiforme, formato da ingredienti quali dream-pop, shoegaze (finalmente), elettronica, sentori cinematografici, ma anche new wave, synth-pop, flebili fragranze post-rock e persino post-punk. Insomma, un menu decisamente invitante che non è rimasto solo un lungo elenco di buone intenzioni.
L’opener “Water Deep” apre i giochi in modo inedito, quasi spiazzante, tra puntate new age e adattamenti filmici, mentre il pregevole singolo “Oceans Niagara” è forgiato da ritmi dream-pop e shoegaze che richiamano i fasti dell’epoca di “Hurry Up” per catapultarli nelle più attuali dimensioni del Sottosopra.
Una chitarra new wave connette “Amnesia” a intrecci elettronici, anch’essi decisamente eighties, che mostrano tutta la padronanza che Gonzalez ha da sempre mostrato nell’uso dei sintetizzatori.
Nella vangelisiana “Us And The Rest” si insinuano sontuose variabili dai toni onirici e ancestrali, prima che il riconoscibile crescendo, quasi liturgico, venga dissolto dalle note raminghe e minimali del pianoforte, ricordando l’ottimo lavoro compiuto da Gonzalez a corredo della celebre serie Tv “Versailles”.
Tra i movimenti preferiti spiccano “Earth Of Sea”, con il suo iniziale pop elettronico che deflagra nel pirotecnico shoegaze conclusivo e l’incantata “Radar For Gone”, guidata dai morbidi accordi della chitarra acustica.
Fantasy è un titolo semplice, se vogliamo anche poco originale, ma riepiloga in modo ineccepibile la grande varietà sfoderata da M83, dopo troppi anni di alti (rari) e bassi che avevano fatto perdere un po’ i contatti con le opere di Gonzalez e dei suoi fidati collaboratori; un disco libero, che suona come se dovesse mostrare una certa indipendenza espressiva prima all’artista piuttosto che al pubblico finale. Un gustoso ritorno.
Contributi di: Cristiano Orlando ("Fantasy")
M83 (Gooom, 2001) | 7 | |
Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts (Mute, 2003) | 8 | |
Before The Dawn Heals Us (Mute, 2005) | 6 | |
Digital Shades [Vol. I] (Mute, 2007) | 4,5 | |
Saturdays = Youth (Virgin, 2008) | 6 | |
Hurry Up, We're Dreaming (Mute, 2011) | 4,5 | |
Oblivion O.S.T. (Back Lot, 2013) | 4 | |
You And The Night (Mute, 2013) | 5 | |
Junk (Mute, 2016) | 4 | |
DSVII (Naive, 2019) | 5,5 | |
Fantasy (Virgin / Other Suns, 2023) | 7 |
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