Ride

Ride - Shoegaze caleidoscopico

Tra i più influenti protagonisti dello shoegaze, forma di psichedelia inglese che tra la fine degli anni 80 e i primi 90 incrociava distorsioni noise-rock, suoni spaziali e melodie dolci e sognanti, la band di Andy Bell costituì una sorta di ponte verso l'esplosione della scena britpop. Continuando la striscia di successi anche dopo la reunion...

di Alessandro Nalon, Marco Sgrignoli, Claudio Lancia, Michele Corrado

Prologo

È difficile fotografare nel suo insieme la scena alternativa inglese della seconda metà degli anni Ottanta. Il mondo musicale britannico “sotterraneo” all’epoca era un crogiolo di realtà diversissime e apparentemente contrastanti, che per vari fattori hanno finito per costituire l’humus in cui attecchiranno di lì a poco i diversi generi inglesi degli anni Novanta (britpop, post-rock, madchester sound, shoegaze). Giunta al capolinea l’indigestione di rossetti e luci al neon del synth-pop e terminata la diaspora della new wave in varie microscene, l’adolescente medio del Regno Unito preferiva rifugiarsi in un mondo più malinconico e pacato, fatto di testi intimisti, nostalgie Sixties e un look adolescenziale e più sobrio, che opponeva un’ostentata timidezza allo splendente divismo di figure imponenti dell’immaginario anni Ottanta come i Duran Duran o i Depeche Mode

In tale contesto sono nati il twee pop e l’indie-pop, grazie ai lavori di gruppi pionieri della scena scozzese (Aztec Camera, Orange Juice, e volendo anche i precursori Josef K) che hanno anticipato il sound che sarà fatto proprio dall’indie-pop nella seconda metà degli anni 80. Un sound che vibrava di armonie chitarristiche jingle-jangle e recuperava il cantato e le suggestioni delicate del folk psichedelico degli anni 60 (Byrds su tutti), aggiornandolo all’impianto ritmico pulsante del post-punk. Di lì a poco nacquero etichette indipendenti fondamentali come la Sarah e la Creation: fu proprio quest’ultima a traghettare il melodismo indie-pop verso un sound più graffiante e psichedelico. Erano i primi passi verso la genesi del cosiddetto shoegaze, ovvero il noise-pop etereo che dominò la scena alternativa a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, contrapponendo le sue atmosfere paradisiache e sospese all’edonismo sfrontato della coeva scena rock-rave che sarebbe esplosa tra il 1988 e il 1992 con il cosiddetto madchester sound.

Il tassello finale del puzzle fu posto nel 1988 da due band della scuderia Creation: gli House of Love, con il loro primo album omonimo, e i My Bloody Valentine con l'indispensabile “Isn’t Anything”. Per la prima volta quel miscuglio di indie-pop, garage-rock e muri di chitarre suonava personale e definito al punto da poter parlare di un genere vero e proprio: nel giro di un paio d’anni le band che suonavano shoegaze cominciarono ad essere sempre più numerose, assumendo quell’estetica trasognata e distaccata che le ha rese celebri e immortali.

“Like a daydream” - Le origini

La formazione che meglio incarnò la gamma di umori, suoni, armonie e suggestioni di quella fertilissima stagione musicale furono i Ride, quattro studenti universitari di Oxford che nel 1988 fondarono quella che sarà la best-selling band del movimento shoegaze.

Il loro nucleo originale era formato dai chitarristi Andy Bell e Mark Gardener, compagni di studi e forti di alcune esperienze in piccole formazioni locali, cui si unì il bassista Stephan Queralt e in un secondo tempo il batterista Laurence Colbert. Inizialmente i quattro formavano la tipica band da scantinato: la loro prima prova si svolse nel garage della casa dei genitori di Colbert, suscitando – si dice – le proteste dei vicini che lasciarono un avviso con scritto “basta con quei rumoracci” sulla porta di casa; scene d’ordinaria amministrazione, insomma.
La compattezza della scena britannica di allora, in compenso, li portò di lì a poco di suonare nei locali del circondario di Oxford, finché nel 1989 il boss della Creation, Alan McGee, spinto dalla loro crescente fama, assistette a un loro concerto a Sheffield. La firma del contratto di lì a poco fu assicurata. Sembra l’inizio di una carriera come tante, ma presto quei quattro ragazzi sarebbero diventati uno dei gruppi di punta degli anni Novanta, dimostrandosi dei fuoriclasse nei rispettivi ambiti. Gli intrecci di chitarre di Bell e Gardener hanno portato ai massimi livelli il connubio di melodie jangle e distorsioni, mentre il basso sinuoso e pesante di Queralt e – soprattutto – il drumming dinamico e variegato di Colbert hanno posto l’accento sulla dimensione ritmica (cosa inedita per un genere improntato sulla massa sonora e sulle dilatazioni), mettendo piede nei territori di quella dance alternativa britannica che sarebbe stata sdoganata di lì a poco dai Primal Scream col capolavoro “Screamadelica”.

“Looking up you’ll see my spirit glow” – la fase shoegaze e lo stardom indie

Il 1990 è l’anno cruciale per i Ride, che una volta entrati nello studio di registrazione incidono materiale per tre Ep e un Lp, pubblicati tra gennaio e settembre dello stesso anno. In questa fase hanno modo di provare con i mezzi di un’etichetta discografica affermata, raffinando e personalizzando il loro stile. Se lo shoegaze primordiale degli House of Love era cullato da un tenue romanticismo, quello suonato dai Ride agli esordi è invece un vero e proprio space-rock muscolare e potente, con duelli di chitarre – la ritmica di Gardener, irruenta e roboante quasi come quella di J Mascis, e la solista di Bell, con il suo timbro etereo e le sue impennate vertiginose – voci a cappella e dosi pesantissime di rumore a schiacciare melodie pop ben congegnate.

Il primo Ep Ride, seppur ancora acerbo, contiene quattro delle canzoni più incantevoli del gruppo. “Chelsea Girl” è uno dei loro primissimi cavalli di battaglia, un noise-pop sconvolto da un turbolento ritornello e da un devastante assolo in wah nel finale. La pesantissima “Drive Blind” è a un passo dal grunge dei Nirvana più nevrotici, con un riff sabbathiano lento e ripetitivo e un intermezzo di distorsioni soniche. Più pacato il lato B, con la lunga coda psichedelica di “Close My Eyes” e il feedback-pop di “All I Can See”.

Breve, sì, ma il debutto ha un’immediata risonanza nel mondo indie inglese e a inizio aprile viene pubblicato un seguito, l’Ep Play, a cui corrisponderà una vistosa maturazione in quanto a perizia strumentale, con una tecnica esecutiva più raffinata e meno spartana. “Like a Daydream” è un brano indie-pop tirato fino allo spasmo da un riff in battere su cui la chitarra solista di Bell ricama un assolo meraviglioso e svolazzante. “Silver” è il suo esatto opposto, una colata di distorsioni di chitarre sgangherate, la negazione di ogni tipo di lucidità e l’abbandono a una sorta di bad trip degno degli “Psychedelic Sounds…” dei 13th Floor Elevators, ma suonato con il doppio della violenza; è sorprendente come una voce così pulita e pacata si sposi con un simile inferno strumentale.
I restanti due brani si mantengono su livelli qualitativi più che buoni, insistendo sul tasto della potenza delle chitarre combinata con melodie ben evidenti e voci paradisiache.
La compilation Smile raccoglierà poi in un unico supporto entrambi gli Ep.

Nel 1990 i Ride sono considerati gli shoegazer più violenti, dato che suonano a conti fatti uno space-rock dalla forte impronta pop. Nonostante ciò, la presa sul pubblico alternativo è immediata, grazie alle loro melodie facili da memorizzare e ben riconoscibili.

Ma l’Ep Fall e l’album Nowhere, pubblicati di lì a poco sempre su Creation (in seguito accorpati nell’edizione in cd di quest’ultimo), inaugureranno un nuovo corso, confermando la raggiunta maturità artistica del quartetto. Non più violenza space-rock e bordate chitarristiche, ma uno stile più dosato, seppur potentissimo e incisivo. Le due chitarre sono sempre più effettate, rendendo l’atmosfera ora più distesa e onirica, ora più concitata e claustrofobica, sfociando nella violenza sonora in modo meno caotico e più studiato, con una cura chirurgica nel dosare rumore e melodia. La produzione più professionale e la cura maniacale per il sound fanno il resto: Nowhere non è più caos e dinamismo forsennato, ma una lucida e mastodontica opera psichedelica tutta giocata su contrasti tra distorsione e melodia, violenza e atmosfera, tensione e rilassamento, luce e ombra; una doppia natura che rispecchia la bellissima onda anomala fotografata in copertina (fascino incantevole o forza distruttrice?).
Le tracce della raccolta bilanciano alla perfezione tutto ciò: “Kaleidoscope” è una canzone pop accelerata e investita da distorsioni torrenziali, “Polar Bear” è il suo opposto, un brano statico e circolare, con il canto solenne che fluttua su un tappeto vibrante, suonato con una chitarra satura di tremolo. Come due facce della stessa medaglia, “Seagull” e “Decay” sono rispettivamente la trasfigurazione in chiave shoegaze e la discesa verso l’abisso, tanto è epica e devastante la prima, tanto è opprimente e cupa la seconda. “A Different Place” cambia completamente registro, è una dolcissima ballata indie-pop intrisa di una malinconia fittissima e abbellita dalla più intensa interpretazione vocale di Gardener, ma il clima ritorna turbolento con “Dreams Burn Down”, con il suo drumming cadenzato e pesante e le improvvise sfuriate noise a spezzare la quiete paradisiaca.
Il livello non scende nella parte finale dell’album, con una meravigliosa “Vapour Trail”, quasi ballabile, ma pur sempre eterea e celestiale; gli archi che si innalzano nel finale, sfumando come una scia di vapore nel cielo, suggellano una tracklist perfetta (quella della versione originale). Imperdibili anche il singolo “Taste”, più pop e solare, e il marasma di droni e feedback della title track, asfissiante come una lenta discesa verso il fondo dell’oceano. Ma il capolavoro assoluto è la mastodontica “Here And Now” con la sua massa ribollente di chitarre, così violente eppure così belle e perfette; un brano epico e fragoroso che però sembra scivolare nel vuoto, immortalando quel senso di abbandono e sfuggevolezza che permea i solchi dell’album.

I Ride si affacciano al 1991 forti di un appoggio totale di critica e un considerevole consenso tra il pubblico, tanto da essere eletti la più grande promessa del rock britannico. Sarà solo grazie alle loro vendite – e quelle dei Primal Scream - che la Creation sopravviverà al baratro economico dovuto al costo di produzione di "Loveless" dei My Bloody Valentine (250.000 sterline!), almeno fino al 1994, quando l’etichetta lancerà uno dei gruppi più di successo degli ultimi vent’anni, gli Oasis. Curioso che a dieci anni di distanza, nell’era di internet, la fama della band di Kevins Shields abbia superato di gran lunga quella dei Ride, quando quindici anni fa il successo commerciale e di critica di Gardener e soci dimostrava che il rapporto era inverso.

L’Ep Today Forever del 1991 è sulla falsariga del suono maestoso del precedente Lp, ma indossa una veste più ammorbidita e pop, condita con una coltre spessissima di effetti e interazioni tra chitarre sempre più lussureggianti. Il lavoro non si mantiene sui livelli delle prime uscite, ma è un passaggio obbligato per capire il percorso artistico dei Ride. Una canzone come “Unfamiliar”, ad ogni modo, vale una carriera, per non parlare della sinfonia pop catalettica "Today", basata su droning e canto a cappella.

Going Blank Again del 1992 porta nuova linfa alla musica dei Ride, sorprendendo chi all’epoca si aspettava un semplice seguito del loro successo di due anni prima: con quest’album i Ride pubblicano la sintesi perfetta di dieci anni di suoni alternativi inglesi, rimodellando shoegaze, twee, power-pop e madchester sound secondo il loro stile ormai riconoscibilissimo. La produzione, affidata ad Alan Moulder, riesce nel miracolo di dare ordine e brillantezza alle loro distorsioni, mai così sature e mai così limpide allo stesso tempo.
Going Blank Again traghetta lo shoegaze impulsivo e passionale dei primi Ride verso un rock più razionale e astratto, dove i pezzi si concentrano sulla perfezione di architetture sonore e tessiture. Nonostante la sterzata, il disco vende bene e si piazza al quinto posto nella classifica UK, mentre il singolo “Leave Them All Behind” diventa presto una hit indie, coi suoi contrasti tra pause atmosferiche e muri di basso e batteria, e tra voci a cappella e scrosci di distorsioni. “Not Fazed” e “Mouse Trap”, invece, sono brani molto meno convenzionali, con il canto messo in secondo piano e spesso solfeggiato; la prima soprattutto è un capolavoro di intrecci di linee melodiche, con una chitarra che suona un muro di suono robustissimo e ripetitivo e due soliste che ricamano sopra melodie ipnotiche.
Rumore e melodia impreziosiscono la struggente “Cool Your Boots”, col canto di Gardener sempre più solenne, e “Time Of Her Time”, grande episodio noise-pop; di tutt’altro genere “Chrome Waves” (di Andy Bell), che punta su una psichedelia liquida e onirica, e che ondeggia su una tastiera placida.
Più atipiche per il loro stile “Time Machine” e “OX4”: la prima con una melodia scarna e geometrica che si ripete su un basso insolitamente cupo e pesante, la seconda invece è un dream-pop immerso nelle tastiere, quasi una versione più aggressiva degli Slowdive. A confermare l’eterogeneità dell’operazione i due capolavori indie-pop “Twisterella” e “Making Judy Smile”, due gioielli di pop splendente e solare avvolti da una psichedelia tenue e costellati di assoli ben ricamati tra gli accordi potentissimi.

Col suo suono stellare, Going Blank Again costituisce un caso unico nello shoegaze, anche grazie a una scaletta di pezzi memorabili; le sue melodie e le sue atmosfere sembrano un’istantanea della generazione britannica a cavallo tra gli anni 80 e 90, divisa tra un romanticismo trasognato e la tentazione dell’esperienza psichedelica indotta dalle droghe sintetiche. Purtroppo in seguito al successo riscosso con l’uscita del disco la band perderà sempre più coesione e i due songwriter principali (Bell e Gardener) finiranno per contendersi la leadership.

“Leave them all behind”: oltre l’esperienza shoegaze

Il biennio 1993-1994 è teatro di una vera rivoluzione nel pop britannico, con l’esplosione del fenomeno del britpop, trainato da band pioniere come Suede e Blur, che presto investira l’intera scena inglese. Le melodie sgargianti e i suoni brillanti e potenti di questa nuova ondata di band trasudano britishness da ogni nota, ripescando e rimescolando in ogni permutazione possibile la tradizione pop inglese; questo nuovo sound finisce per sovrastare l’intimismo onirico dell’indie-pop, mentre autentici divi come Jarvis Cocker e Damon Albarn rubano lo scettro alla decadente scena madchester, consumatasi con la stessa rapidità con cui è arrivata al suo apice.
Mentre il madchester sound viene spazzato via dall’onda d’urto del britpop, lo shoegaze la incassa cambiando però radicalmente forma: molte nuove leve propongono una rilettura più rock del genere (come gli Adorable del sottovalutato “Against Perfection”), mentre altre mirano a conciliare i due generi ibridandoli (su tutte i Boo Radleys); in questo panorama i Ride sapranno cogliere relativamente bene la palla al balzo, ma sprecheranno l’occasione a causa dei dissidi interni alla band.

Carnival Of Light (1994) è diviso esattamente a metà, con il lato A scritto da Gardener e il lato B da Bell, ormai incapaci di cooperare e completamente contraddistinti negli stili (più folk e psichedelico il primo, più britpop e retrò il secondo). Nonostante la frattura interna alla band, i Ride si rendono conto che il movimento shoegaze sta perdendo la sua spinta innovativa e tentano di conciliare il loro stile con quello del neonato britpop (significativa la copertina dell’album, che ritrae il gruppo con un look anni Novanta lontanissimo dall’iconografia indie-pop degli esordi). Tale scelta è indicativa del trend in casa Creation verso la metà degli anni Novanta: Carnival Of Light, infatti, anticipa di venti giorni l’uscita del debutto degli Oasis, uno dei bestseller dell’epopea britpop.
Sempre più lontano dagli schemi finora collaudati, Gardener si avventura in un oscuro raga-folk elettrico con tanto di organo psichedelico (“Moonlight Medicine”), si abbandona a tentazioni byrdsiane (“1000 Miles”) o blues (“From Time to Time”), salvo poi lanciarsi in un’orgia psichedelica (“Natural Grace”, che riesce laddove gli Stone Roses falliranno quello stesso anno col mediocre “Second Coming”).
Dall’altro lato della barricata, Bell risponde con le sfuriate elettriche di “Birdman” e con “Crown Of Creation”, la sua canzone migliore, una dolcissima ballata con intrecci di chitarre acustiche, un organo e un ritornello lievemente lisergico. Purtroppo il resto del lato B non brilla come la prima facciata, ma tra i suoi echi sixties regala grandi momenti (“Magical Spring” e la delicata “I Don’t Know Where It Comes From”, altra ballata eccezionale).
A conti fatti, Carnival Of Light è un album frammentario per sua stessa natura, ma non per questo privo di spessore; si tratta del disco anticommerciale e di svolta che ci si aspettava dai Ride una volta usciti a testa alta dall’esperienza shoegaze. Come era prevedibile, però, le basse vendite non affiancano il buon successo di critica; la popolarità dei Ride è già in fase calante.

“Our growth seems certain to decay” – La parabola discendente e lo scioglimento

E' inevitabile, a questo punto, che la parabola artistica dei Ride entri nella fase calante, con un gruppo ormai praticamente allo sfacelo e in balia dei deliri di onnipotenza di Andy Bell, evidentemente più aggressivo ma meno brillante della sua controparte Gardener, relegato a semplice chitarrista, e non più autore, tanto che nel successivo Tarantula firmerà un solo pezzo. L’album vedrà la luce nel 1996, appena dopo lo scioglimento della band e riceverà commenti al vetriolo da critica e pubblico, insoddisfatti del nuovo percorso di Bell.
Col senno di poi, si può serenamente affermare che la lapidazione riservata al disco fu eccessiva e con molta probabilità dettata dal declino dell’immagine dei Ride, che a fine carriera si limitavano a rincorrere i trend anziché a dettarli (ora erano loro a inseguire gli Oasis). Tarantula non è un disco orrendo, solo un lavoro poco significativo e di mestiere, che paga il pegno di non essere fresco ma spudoratamente classicista, e di aver accantonato la tensione incredibile che contraddistingueva pezzi come “Decay” e “Like A Daydream” in favore di un mood solare e piacevole. In quanto a qualità, il disco si mantiene attorno a livelli decenti, con pochi momenti interessanti ma anche pochi scivoloni.
Le chitarre elettriche spianate di “Black Nite Crash” aprono il disco, rivelando la nuova via tracciata da Bell, un guitar rock diretto, potente e con pochi fronzoli, lontano anni luce da ogni reminescenza shoegaze, e vicino al britpop elettrico e muscolare di Oasis e Kula Shaker. Fatta eccezione per l’opening track, è difficile citare un solo pezzo che si discosti nel bene o nel male dalla mediocrità, così il disco scivola via senza lasciare grandi momenti, dimostrando le sue evidenti pecche compositive, frutto di una realizzazione raffazzonata. Inevitabile e dovuto, a questo punto, lo scioglimento.

Il dopo-Ride sul lato artistico è una discesa verso il basso per entrambi i contendenti: Andy Bell fonda gli Hurricane #1, gruppo britpop sulla scia degli Oasis, con all’attivo due album prescindibili, se non scadenti; non a caso l’ex-Ride dal 1999 è entrato stabilmente nella formazione del gruppo dei fratelli Gallagher.
Ben peggiore la sorte capitata a Mark Gardener, lanciatosi in una carriera solista all’insegna del pop caramelloso di “Send Away The Ghosts”, smaccatamente ruffiano e cantato con un timbro vocale da boyband, lontanissimo dal suo canto etereo e quasi sacro dei primi Ride.
È andata bene solo a Colbert, che ha suonato la batteria in vari gruppi, fra i quali i Supergrass.

Smaltita la tensione post-break up, i membri del gruppo si sono occasionalmente riuniti per alcuni concerti, tra cui un’esibizione di trenta minuti di feedback pubblicata nell’Ep a tiratura limitata Coming Up For Air, o concerti acustici che hanno coinvolto Gardener e Bell, dimostrando che la tensione tra loro si è allentata dopo molti anni. Lo stesso Bell, pur negando l’ipotesi di una reunion permanente, ha dichiarato che non esclude possibili collaborazioni coi suoi vecchi compagni di band.

La seconda vita dei Ride

Le speranze di reunion vengono rese tangibili nel 2017 con la pubblicazione di Weather Diaries, che riapre solo in parte il libro dei ricordi, perché i Ride intendono distinguersi dal coro dei nostalgici, cercando soluzioni (per loro) inedite pur se con risultati mai all’altezza dei loro dischi migliori. Le inziali “Lanney Point” e “Charm Assault” (con breve inserto psych verso il finale) presentano le chitarre che tornano a intrecciarsi come ai bei tempi, ma l’impianto complessivo stenta a decollare, e il disco finisce presto su binari anonimi, senza il carisma che dovrebbe mostrare una band di rango. Gli inserti electro nella successiva “All I Want”, l’approccio dreamy (mai ai livelli emozionali di certi Beach House) in “Home Is A Feeling”, l’arrotondamento pop proposto nella title track (che sul finale si concede qualche deriva da “fissatori di scarpe”), i robusti innesti sintetici nella prima parte di “Rocket Silver Symphony” (che si slancia poi verso territori kraut), sono alcune soluzioni escogitate dai Ride di oggi, senza mai riuscire a farci sobbalzare dalla sedia.
Nella seconda metà del disco la band esce dal confortevole guscio per osare qualcosina di più e allargare gli orizzonti. Ecco allora sopraggiungere il brio garage di “Lateral Alice”, l’impronta Byrds/Wire di “Cali” (bello il closing chitarristico) e l’evocativo breve strumentale “Integration Tape”, per poi cercare la quiete nelle placide oasi delle conclusive “Impermanence” e “White Sands”. A conti fatti non si scorgono motivi plausibili per i quali si dovrebbe preferire l’ascolto di Weather Diaries al posto di uno qualsiasi dei lavori pre-dissolvimento; è anche vero che l’ingombrante “Nowhere” è tenuto  volontariamente a distanza, per sdoganarsi dal passato (al contrario di quanto fatto da My Bloody Valentine e Slowdive) e cercare di essere oggi qualcosa di diverso. Ci sono momenti molto belli dentro “Weather Diaries”, ma troppo pochi per un best di quanto i Ride siano riusciti a scrivere negli ultimi ventuno anni di vita.

Gli intenti dei rinnovati Ride emergono ancora più chiaramente l'anno successivo con l'Ep Tomorrow's Shore. Dopo pochissimi secondi “Pulsar” sfodera infatti un synth che richiama MGMT e – perché no – M83. Sonorità più vicine al passato della band arriveranno soltanto sul finale del pezzo, che disegna l’iperspazio con chitarre laser. Uno dei loro miglior brani post-reunion. “Keep It Surreal” aggiorna invece i jangle di “Twisterella” agli anni ’10 e presenta parti cantate nitide e terrestri, in una maniera mai vista prima nel catalogo di Bell e Gardener. Molto suggestiva anche la combinazione tra le parti acustiche e quelle siderali, giocata nell’avvolgente suite pinkfloydiana “Cold Water People”. Posta in chiusura, “Catch You Dreaming” è insieme il brano più lungo e più pop del lotto, che muovendosi sinuoso e ammaliante al ritmo di un burroso basso 80’s arriva dalle parti degli ultimi Tame Impala.
Non sempre completamente a fuoco – invero i sei minuti e oltre della closing-track stancano un po’ –, Tomorrow’s Shore mostra con ancor più forza del full-length che lo ha preceduto la volontà dei Ride di rinnovarsi. Il fatto che questi brani, pur essendo stati registrati insieme a quelli di “Weather Diaries”, non abbiano trovato collocazione in esso - favorendo l’inserimento di altri più vicini alla tradizione shoegaze della band -, lascia pensare che l'anno precedente i quattro non si sentissero ancora pronti per spiazzare completamente gli adepti della prima ora.


I Ride restano comunque tra i grandi protagonisti del movimento shoegaze, trasformisti al punto da sapersi rinnovare una volta che il genere terminò la propria spinta propulsiva. La loro era una rilettura personalissima degli stilemi di quella scena, che puntava su un dinamismo, una potenza e una velocità inusuali all’interno del movimento. Questo e altro (lo spettacolare uso di due voci e due chitarre, l’eterogeneità dei dischi, le atmosfere caleidoscopiche, i ritmi fantasiosi…) ne hanno fatto una delle massime realtà musicali degli anni Novanta.

E' difficile non sorprendersi, nel 2019, di fronte alla quantità di suggestioni e influenze messe in campo da This Is Not A Safe Place, che lo rendono un lavoro sicuramente affascinante e poliedrico, ma anche discontinuo e episodico, mostrando i Ride non sempre a proprio agio con le materie in gioco.
L'elettronica otturata di "R.I.D.E.", che si concede a reminiscenze shoegaze soltanto nelle lamentose parti cantate, apre di fatto una girandola della quale è difficile, se non impossibile, scovare una logica. La seguono quindi "Future Love", concessione al passato jingle-jangle di "Twisterella", e "Repetition", dilatato adattamento neo-psych del cyber-punk dei Primal Scream di fine anni 90. La tesissima "Kill Switch" è una botta shoegaze cattiva quanto ispirata; decisamente fragorose sono anche le bordate di fuzz che sezionano "Fifteen Minutes", ennesima meraviglia ritmica di Queralt e Loz.
Il lato più atmosferico dei Ride trova sfogo invece nella ballata folk "Dial Up", liquida e placida, appena screziata da interferenze elettroniche vintage che ricordano le vecchie connessioni Isdn; mentre l'introduzione della lunga "In This Room" richiama finanche certi meccanismi dei Notwist. "Clouds Of Saint Marie" ed "Eternal Recurrence" costituiscono un corposo blocco centrale fedele allo spirito di "Weather Diaries". La prima delle due è una canzone molto riuscita, grazie soprattutto a un coro decisamente catchy, mentre la seconda è un fiacco tentativo di rock da stadio, problema questo che affligge anche "Jump Jet". La bella "End Game", che culmina in un perforante finale chitarristico al tremolo, è infine un succoso contentino per gli irriducibili fan della fase shoegaze.

Visto l’approccio muscolare del tour a supporto di “This Is Not A Safe Place”, l’ultima cosa che ci saremmo aspettati era imbattersi in una versione fortemente edulcorata di quelle canzoni. E invece Andy Bell, Mark Gardener e compagnia hanno optato per la rilettura in chiave modern classical dell’intero disco, affidando le chiavi della re-immaginazione al duo Petr Aleksander, formato da Tom Hobden dei Noah & The Whale ed Eliot James dei Two Door Cinema Club. L'album, intitolato Clouds In The Mirror, è stato diffuso all'inizio di maggio 2020, appena usciti dal lockdown da Covid-19. "This Is Not A Safe Place" è stato dissezionato e ricomposto ex novo, interamente revisionato, ridimensionando le parti cantate, sforbiciando non soltanto le chitarre shoegaze di “Future Love”, sostituite dalla placidità di piano e archi, ma anche azzerando qualsiasi slancio rock. Un esercizio che prende dolcemente per mano i Ride, accompagnandoli in un (per loro) inedito formato neoclassico. Messo al bando qualsiasi istinto chitarristico, risulta ovviamente esaltata la radice melodica della loro scrittura.
Ridurre a uno spoglio e melodrammatico minimalismo il muro di suono che caratterizzava “Kill Switch” e l'arrembaggio electro di "R.I.D.E." è una prova che mostra coraggio da vendere. Tutto diviene molto più “controllato”, e le nuove orchestrazioni elidono non solo l’elettricità dreamy di “Eternal Recurrence” ma anche il piglio più acustico di “Dial Up” e “Shadows Behind The Sun”, tracciando una riga rossa persino sull’evocativa coda della conclusiva “In This Room”. Non c’è nulla che non funzioni nelle suggestioni esaltate dall’intervento dei Petr Aleksander, ma le nuove versioni in nessun caso riescono a superare gli originali, con un risultato finale che rischia di apparire superfluo ai fan dei Ride e trascurabile per gli appassionati del suono modern classical, i quali potranno godere anche di un’edizione ancor più spoglia, interamente strumentale. Col senno del poi, sarebbe stato più efficace (e sfidante per i protagonisti) realizzare un allestimento di questo tipo sul catalogo pregresso della band inglese, rileggendo le cult hit degli anni 90. Ma non è escluso che possa trattarsi del prossimo progetto in cantiere… 


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Appendice:  Tre canzoni capolavoro dei Ride, in dettaglio

“Seagull” (6:09), da “Nowhere”

Cos'hanno in comune "I Am the Resurrection" degli Stone Roses, "Don't Fight It, Feel It" dei Primal Scream, "Push The Tempo" di Fatboy Slim, "Setting Sun" dei Chemical Brothers - quattro tracce che hanno fatto la storia della dance alternativa inglese - e "Seagull", dei Ride? Un paio di etichette e locali divisi tra i rispettivi autori, qualche scambio di personale e uno stratagemma: rileggere in chiave 60s rock l'amen break*, innestarci sopra una battuta di basso poderosa e circolare e condire il tutto con un torrente sonoro psichedelico e jammante.
Sorprenderà, ma alla base di "Seagull" c'è un'architettura dance. L'atmosfera della canzone, tuttavia, è molto lontana dalla trance sgargiante dei pezzi citati sopra: turbinosa, adrenalinica, perfino epica nel suo sposare estasi e claustrofobia. Quali sono i punti di divergenza col flusso acid house/madchester/big beat, dov'è che i Ride deviano dalla strada maestra solare e fricchettona per infangarsi in questo dilaniante vicolo cieco?
In primo luogo, le chitarre. Un muro di jingle-jangle e distorsione: da una parte una cascata di note argentine, acutissime, arpeggiate à-la Byrds; dall'altra un gorgo di wah-wah e rumorismi. Mai una delle due componenti prevale sull'altra, è l'eterno conflitto tra il suono celestiale dell'una e le linee lancinanti dell'altra a creare la tensione che alimenta il pezzo e la sensazione di invalicabilità che la accompagna. Sul finire del secondo minuto, le chitarre in gioco sono tre: una, la più trasfigurata, prende il suono di una cornamusa e diventa un fiume pentatonico, che rimanda dritto a secoli di storia britannica, guerre fra clan e murder ballads. Eccola, la giustificazione di quell'elemento epico che pervade il pezzo: sotto la scorza noise-rock, sotto le fondamenta dance, "Seagull" cela un subconscio folk. La melodia segue una scala esatonica tipica di molti traditional inglesi, e il cantato appaiato rende la musica corale, espressione di un sentimento collettivo.
In questo nuovo contesto, la base ritmica ripetitiva diventa più che una trance liberatoria una trappola, un meccanismo ossessivo dal quale ogni altro elemento sembra volersi liberare. Tanto i voli distorti della chitarra quanto le nenie del cantato, però, non possono fare a meno di girare a vuoto e tornare inevitabilmente al punto di partenza: quel ritmo forsennato, frastagliato ma mai spezzato definitivamente, e quel do minore che è il fulcro armonico, l'occhio del ciclone. L'estasi, librarsi in volo, è possibile solo nel pensiero, nel testo: 

But we know there's no limit to thought
We know there's no limits.
Now it's your turn to see me rise,
You burned your wings, now watch me fly,
Above your head.
Looking down I see you far below,
Looking up you see my spirit glow

* Il sample più comune dell'hip-hop, poi sminuzzato e riassemblato in ogni maniera dal drum'n'bass. Prende il nome da "Amen Brother", rilettura funky-soul e strumentale di un pezzo gospel ad opera dei The Winstons, che la incisero nel 1969 come B-side del singolo "Color Him Father" non sospettando che lo stacco di batteria a 1:31 avrebbe riscosso, con qualche decennio di ritardo, una fortuna ben maggiore del lato A.

“Decay” (3:36), da “Nowhere”

È un crescendo "Decay", e più cresce più trascina nella sua spirale di annullamento. "Our growth seems certain to decay": man mano che l'impalcatura si costruisce, strato su strato, si fa sempre più opprimente il senso di decadenza, desolazione, disillusione. All'inizio, è solo la batteria: scandisce colpi secchi, ma fondi e densi di riverbero; è l'anima marziale del pezzo, il suo battito lugubre e incessante. Subito entra la chitarra: due note, ripetute ad libitum, che in realtà sono una sola rifratta su due ottave; risponde lo hi-hat in controtempo, a muovere la stasi con accenti disco. Poi il basso, pilastro subliminale del pezzo: mi-si-do-la, una caduta, un tentativo del tutto vano di rialzare la testa aggrappandosi alla fondamentale e poi il baratro finale - eccolo il moto verso il centro della spirale, eccola la decadenza che vessa ogni resistenza d'animo. Un gioco di piatti va a spegnersi e apre il terreno alla voce, nenia monocorde che chiarisce la fatalità:

We have short time to stay,
Our night is slipping far away

Non c'è tempo, bisogna affrettarsi. La foga irrazionale è una nuova chitarra, ruvida e distorta: scalpita, fende, ma è accecata dall'istinto e non riesce a mandare a segno i colpi; presto si imbriglia in un rumore immutabile e pervasivo - "Now this feeling's so alive/ But, as you or anything, we die" (dietro alla voce principale, un'eco in controcanto come uno spettro). L'atto finale è la perdita di senno: la batteria sparpaglia raffiche di offbeat, tenta ogni via per sfuggire al sortilegio che vuole ogni cosa intrappolata al centro del vortice; ma tutto il resto è già pietrificato, e la voce ripete trasognata le ultime parole della maledizione: "We die, we die, we die...".

“Twisterella” (3:42), da “Going Blank Again”

Di "Twisterella" potremmo buttar via tutto e tenere solo il riff. Due chitarre, un giro d'accordi senza nulla di particolare e quel suono, quell'amalgama jingle-jangle in cui è impossibile capire chi fa cosa. La rete è disseminata di tentativi di riprodurlo, trascriverlo, metterne nero su bianco la chimica: tutti falliti, miseramente falliti. "Twisterella" potrebbe finire al secondo numero otto, dopo la prima esposizione del suo riff miracoloso e indecomponibile. Già così, sarebbe storia. Un ricciolo di basso e via, a capofitto tra gli sferragliamenti cristallini di Gardener & Bell. Non c'è il tempo di pensarci, a quanto siano fondamentali e magistrali quelle tre-note-tre di basso, quella falsa partenza che tutto lascia presagire meno che una simile esplosione di armonici. Eppure la successione è perfetta: si-do#-mi-do# e poi di nuovo si, ma centuplicato nei barré del mi maggiore e sorretto dall'estasi dance della batteria. Un circolo che dura un secondo e poco, parte in sordina e come se niente fosse catapulta al centro della pista. Quel secondo di basso è un colpo di fulmine, è lo spintone che impedisce di starsene in disparte: senza, "Twisterella" e il suo riff avrebbero richiesto di partire già carichi; così invece, con questo 0-100 km/h in meno di un secondo, la carica arriva come con un'iniezione di adrenalina.
O una pillola di ecstasy. Perché fortunatamente "Twisterella" non finisce all'ottavo secondo, e di lì a poco attacca:

Any minute you will feel the chemistry
Vibrations in the brain can't ever be explained
Slip away and out of sigh, feel the magnet of a night
The circus lights you see is where you have to be

Di cosa si parla? Di un colpo di fulmine, della girandola di emozioni che lo accompagna (come il riff della canzone ha sì una sua "chimica", ma inafferrabile). Oppure dell'esplosione di colori ed euforia totale che segue all'assunzione di MDMA. Tutto il testo gioca su questa ambiguità, e ogni dettaglio musicale pare assecondarla.
La melodia vocale è sognante e spensierata, ma anche lei sottilmente ambigua. Mentre la tonalità dell'arrangiamento è trionfalmente (mi) maggiore, il cantato sfrutta un altro centro armonico (il sol#, che induce un modo minore), dalla cui prospettiva le stesse note assumono un carattere più pensoso: la strofa si colora così di una velata malinconia, quel genere di nostalgia premeditata associata ai momenti che, si sa, non ritorneranno.
Basso, batteria e chitarra solista sono un continuo ondeggiare tra due passi, quello in battere che apre il riff e quello in levare che lo chiude. Proprio in quest'ultimo tratto si concentrano le scintille: piroette sul charleston, slide, sincopi, e poi l'attacco di quella solita, magica tre-note di basso che a ogni giro "ricarica" il mulinello.
Fino all'ingresso nel ritornello:

If I've seen it all before
Why's this bus taking me back again
If I don't need anymore
Why's this bus taking me back again

Qui il senso di straniamento si fa dominante: batteria e basso pestano un tunz-tunz metronomico, le chitarre più mescolate che mai impongono un unico muro frastornante, a cui si aggiunge un tintinnio ossessionante di piatti e tamburello. Un "aah" in controcanto, intanto, dà alla voce un che di epico, corale, come se la sensazione riguardasse non una persona sola, ma tutti. Pochi secondi, perché subito la cascata ritmica su "back again" spezza il sortilegio, riporta nel vivo delle danze.

Feel the weight of letting go
Feel more lightness than you've ever known
You can't see when light’s so strong
You can't see when light is gone

L'abbandono del peso, il brivido, l'ascensione, sono tutti nelle fiammate di Hammond che seguono l'ultima strofa. Un vortice di luce, opposto a quello torpido e cieco di "Decay". In chiusura, il cantato è rifratto in un magma psichedelico soffuso, appena percettibile. La testa, ormai, è ben oltre il mondo fisico, e ogni voce è solo un eco lontano...

Andy Bell solista

Andy Bell ufficializza l'atteso esordio da solista nel corso del 2020 con The View From Halfway Down.
Dopo aver depistato tutti con la pubblicazione di due singoli che non sarebbero poi stati inclusi nell'album, "Plastic Bag" e "The Commune", ossia due bozzetti di ambient-pop psichedelico, scarni, dimessi, adornati giusto da qualche arco autunnale e spruzzi di elettronica glitch, è stata finalmente la volta del primo vero antipasto, "Love Comes In Waves": un tappeto di tastiere spaziali, chitarra twee su di giri e cantato britpop spaccone. Un'estasi psych-pop contagiosa e radiofonica che ci ha anche fatto capire da quale penna venissero gli esuberanti Ride dell'Ep "Tomorrow's Shore".
Non sempre così sgargianti, se non nella salterina "Skywalker", i toni del disco vertono sempre verso il pop psichedelico degli anni 60 e quello che ne è derivato. Scandita da un gran giro di basso e un ipnotico arpeggio di chitarra, ad esempio, la deliziosa "Cherry Cola" shakera insieme le gemme soliste di Syd Barrett e un piglio degno del Beck anni 90; mentre la breve "Ghost Tones" lascia che una chitarra acustica si lamenti in cerca di pace su un manto di synth solenni. "Aubrey Drylands Gladwell" sguinzaglia, invece, chitarre supersoniche che lasciano scie nel cielo come l'astronave degli Hawkwind.

Nel 2022 esce Flicker, un nuovo album solista di Andy Bell. I segnali lanciati con la sfocata immagine di copertina, che rimaneggia uno scatto risalente addirittura al 1990 ed estratto dalla inner sleeve di "Nowhere", si uniscono all'ampio contenuto artistico composto da diciotto brani nati da bozze che l'artista gallese ha custodito e lasciato decantare, in alcuni casi, fin dai primi passi mossi con i Ride, per giungere, nelle epoche successive, anche episodi derivanti dalle sue collaborazioni parallele e dalle esperienze da solista. Il periodo di lockdown è stato utile proprio per rispolverare e mettere definitivamente a fuoco tutti questi progetti rimasti inconclusi e registrarli presso lo studio dell'amico e collega Gem Archer, con il quale aveva già collaborato direttamente all'epoca del suo ingresso negli Oasis (1999-2009) e poi nei Beady Eye (2009-2014). Andy Bell ha lavorato principalmente su canovacci di tracce strumentali, per le quali ha elaborato testi nuovi di zecca, in una sorta di dissonanza cognitiva che lo ha portato simbolicamente ad affrontare una forma di scambio artistico con il se stesso di vent'anni più giovane. Il risultato è appagante. Le canzoni sprigionano una vigorosa energia nineties plasmata alla corroborante maturità di un uomo e artista che ha ormai superato la soglia dei cinquanta. La medesima dose di saggezza già introdotta nel corso del primo lavoro solista "The View From Halfway Down" del 2020 e anche, perché no, nel suo traversale percorso elettronico lanciato sotto il moniker Glok. I 76 minuti sui quali si estende questo durevole album scorrono veloci, raccogliendo nel proprio percorso una elevata mole di sfaccettature che la sempre armonica vocalità di Bell e le sue molteplici stratificazioni chitarristiche fanno transitare dall'onnipresente britpop ("World of Echo", "Love is the Frequency"), ad affascinanti letture psichedeliche ("Riverside", "Jenny Holzer B. Goode, "Sidewinder"), per toccare il lato più contemplativo del pop ("We All Fall Down").

L'intervento di interi episodi strumentali come l'elisabettiana "Gyre And Gimble", brano che richiama l'ariosità e la lucentezza indie degli La's e "When The Lights Go Down", con un sassofono sognante e introspettive linee di chitarra che riportano alla memoria il Nick Drake di "Bryter Layter", vanno a completare uno scenario che annuncia, inoltre, miscele tra shoegaze e melodie eteree ("It Gets Easier", "The Looking Glass" e "The Sky Without You"), queste ultime elaborate in backmasking, come nella migliore tradizione britannica partita dai Beatles, o giù di lì, per giungere fino agli Stone Roses di "Don't Stop".
Tra i picchi in scaletta si stagliano sicuramente "No Getting Out Alive", uno pseudo-blues che muta i propri connotati in stile Spaceman 3 e la malinconica "Something Like Love", che potrebbe apparire di primo acchito come la cugina di primo grado di "Vapour Trail" (dal seminale esordio dei Ride), se non fosse per la traiettoria orchestrale che ne edifica la sognante struttura portante. Ed è proprio in questa traccia che Andy Bell recita l'evocativo verso "lost in a reverie of future days", una frase breve ma assolutamente esplicativa che favorisce l'individuazione della migliore definizione per questo delizioso ed eclettico lavoro di un cantautore poche volte inserito (colpevolmente) tra i migliori del suo periodo.

Nel 2024 i Ride tornano tutti insieme per un nuovo album, Interplay, che per buona parte si posiziona dalle parti di certo electropop fortemente influenzato dalla new wave. Brani come “Peace Sign”, “Last Frontier” e “Monaco” contengono percentuali diversamente modulate di InterpolEditors e New Order, senza però mai riuscire a raggiungere il livello dei riferimenti ai quali si ispirano. Nella parte centrale l"album perde contenuto vitaminico, adagiandosi sulla proposizione di tracce dimenticabili, quali “Stay Free”, “Last Night I Went Somewhere To Dream” e “Sunrise Chaser”. Le zampate vincenti giungono invece in occasione dell’arrembante coda strumentale di “Light In A Quiet Room”, dell’energico incipit di “Midnight Rider” e di una “Portland Rocks” che porta a casa il titolo di canzone più riuscita della raccolta, ai livelli dei Ride migliori. Per il resto tanto mestiere, ma risultati sempre un po’ sbiaditi, per di più diluiti in composizioni che con troppa facilità oltrepassano i cinque minuti di durata, senza che se ne avverta mai l’effettivo bisogno.

Di tutte le band che animarono la scena shoegaze agli albori degli anni Novanta, i Ride furono quelli che meglio incarnarono l’anello di congiunzione con il successivo movimento britpop: non fu un caso se uno dei due cantanti/chitarristi del gruppo inglese, Andy Bell, finì poi a suonare con gli Oasis. Anche da quando sono rientrati in pista in pianta stabile, nel 2017, i legami dei Ride con i musicisti che “amavano guardarsi le scarpe” sono rimasti lievi: un mezzo autogoal a giudicare dall’hype che in questi tempi sta circondando la scena nu-gaze, generatrice di quei suoni che TikTok sta contribuendo a celebrare come perfetta colonna sonora dello spaesamento che caratterizza ragazzi fra i venti e i trent’anni. Un ritorno meno illuminato rispetto a quello di altri mostri sacri rientrati in pista con prodotti molto più a fuoco, specie quello degli Slowdive, addirittura più osannati nella loro seconda vita che in passato.

Autori:
Alessandro Nalon: prima parte;
Marco Sgrignoli: appendice; 
Claudio Lancia: "Weather Diaries", "Clouds In The Mirror", "Interplay";
Michele Corrado: "Tomorrow's Shore" e "This Is Not A Safe Place".

Ride

Discografia

RIDE
Ride (Ep, Creation, 1990)
Play (Ep, Creation, 1990)

Smile (Creation, 1990)

8

Fall (Ep, Creation, 1990)
Nowhere (Creation, 1990)

9

Today Forever (Ep, Creation, 1991)

7,5

Going Blank Again (Creation, 1992)

8

Carnival of Light (Creation, 1994)

7

Tarantula (Creation, 1996)

5,5

Coming Up For Air (Ep, Creation, 2002)
Weather Diaries (Wichita, 2017)6,5
Tomorrow's Shore Ep(Wichita, 2018)6,5
This Is Not A Safe Place (Wichita, 2019)6,5
Clouds In The Mirror (con i Petr Aleksander, Wichita, 2020)5
Interplay (Wichita, 2024)5

HURRICANE #1
Hurricane #1 (Creation, 1997)
Only The Strongest Will Survive (Creation, 1999)
MARK GARDENER
These Beautiful Ghosts (UFO, 2005)
ANDY BELL
The View From Halfway Down (Sonic cathedral, 2020)7
Flicker (Sonic Cathedral, 2022)7,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Leave Them All Behind
(live at Brixton, 1992)

Like A Daydream
(live at Brixton, 1992)

Dreams Burn Down
(live at Brixton, 1992)

Drive Blind
(live at Brixton, 1992)

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