Un'immensa onda anomala che si sta formando: questo ritrae la bellissima copertina di "Nowhere". Non ci è dato sapere quanto grande sia (la foto ci mostra solo acqua a perdita d'occhio, nessun riferimento solido), ma la sensazione è che sia qualcosa di enorme, di devastante e pericoloso. Una calamità in in fieri insomma, eppure dotata di una bellezza sublime e cristallina che lascia spaesati.
Allo stesso modo si presenta la musica contenuta nei solchi del disco: un torrente di suoni, immagini e suggestioni condensate in un flusso sonoro assordante, ma nel contempo risplendente di un grande lavoro di cura melodica. Il matrimonio tra rumore e melodia non era un'esclusiva per l'allora neonata scena shoegaze, ma i Ride ne fecero la ragione della loro esistenza, scrivendo canzoni basate sulle melodie del jangle pop anni 80, ma scosse da distorsioni brutali e suonate con un vasto arsenale di effetti.
Da un amplificatore esce un frenetico tintinnio cristallino, dall'altro un'alluvione di distorsioni; potrebbe essere la descrizione di "Seagull", il brano d'apertura del disco, nonché uno dei loro cavalli di battaglia. Sotto al vortice di suoni, solidissima, la sezione ritmica cesella un groove sinuoso à-la Stone Roses. Ed eccola qui la particolarità di "Nowhere": il ritmo. Gli impeccabili Queralt (basso) e Colbert (batteria), figliocci della scena rave-rock inglese, non si limitano a ingabbiare i ghirigori delle chitarre di Bell e Gardener, ma danno ai pezzi quella spinta danzereccia che impedisce di stare fermi anche durante le jam più spericolate. È così che il finale della sopracitata "Seagull" diventa un ballo sfrenato, con il ritmo che spinge a più non posso e le chitarre che sembrano consumare un baccanale.
Da qui in avanti è un alternarsi di sensazioni opposte: prima la concitatissima "Kaleidoscope", poi gli arpeggi glaciali della ballata "In A Different Place", passando per gli stacchi noise di "Dreams Burn Down" e il folk onirico e lugubre di "Paralysed", che culmina in una bellissima coda strumentale. "Polar Bear", uno dei loro apici, conduce nella trance lisergica più assoluta. Nei primi secondi l'ascoltatore perde ogni riferimento spaziale a causa di un picchiare continuo sui piatti, come un ticchettio, mentre parte un riff di chitarra modulato e imbottito di tremolo che sembra ruotare in tutte le direzioni; una seconda chitarra suona poche note che sembrano svanire e perdersi di vista. La voce imperturbabile e il testo visionario fanno il resto: "She knew she could fly like a bird/ But when she said 'please, raise the roof higher' nobody heard/ Why should it feel like a crime?". Niente di più esplicito ed efficace: è la sensazione di perdita di peso data dall'Lsd, resa ottimamente da una canzone che sembra staccarsi da terra e fluttuare.
Parlavamo di ritmo ed ecco "Vapour Trail", la quiete dopo la tempesta, col suo pattern acid-house scodellato in mezzo a un vortice di phase shifter e ad archi solari; oppure l'animatissima "Taste", che conserva una quiete paradisiaca (gli "aah" soavi di Mark Gardener) nonostante la potenza di fuoco strumentale impiegata.
Dall'altro lato, tre brani di un'oscurità totale. "Decay", elegia sulla brevità della vita: due note di chitarra, una batteria martellante e poi il vulcano di distorsioni del ritornello, reiterato fino a che il brano non si spegne. "Here And Now", un loop di quattro accordi, quattro note potentissime di Hammond, e la consapevolezza dello scorrere del tempo, spietato e inesorabile. Per finire la title track, un magma ribollente di feedback e distorsioni simili a barriti di elefante, lo stadio finale della discesa verso il fondo.
Tutto questo è "Nowhere", l'album che vede la maturità di un gruppo chiave degli anni Novanta, che grazie alla propria versatilità ha saputo travalicare i confini della scena shoegaze, consegnando una formula musicale che ha riassunto ben sette anni di musica pop britannica.
19/07/2009