Rumore e melodia sono le due parole ordinariamente associate alla strabiliante e per certi versi scioccante personalità musicale dei Dinosaur Jr. Per quanto riguarda il rumore, ascoltare per la prima volta uno dei dischi o singoli storici di questa band (il periodo del tris Dinosaur-You’re Living All Over Me-Bug) è una esperienza musicalmente molto vicina all’incontro con un tornado. Quanto alla melodia, possiamo dire che con i Dinosaur Jr la sensibilità melodica talvolta struggente trova una delle sue più complete realizzazioni nell’ambito underground, venendo accettata anche da chi la rifuggiva in nome della purezza e durezza punk, rock o metal che fosse.
Questa miscela esplosiva di grinta sonora e ganci pop viene direttamente dai maestri del "genere", ossia dagli Husker Du, i primi che avevano fatto digerire anche ai puristi la miscela punk/pop e proprio in quegli anni davano vita definitivamente al power-pop. La vocalità ora strascicata ora indolente di Mascis viene direttamente da due maestri in tema di canto "sotto sbornia": Robert Smith e soprattutto Neil Young, che fornisce anche robuste iniezioni di folk. Le fucilate del basso di Barlow, assieme ai riff martellanti, cadono giù dai solchi di Motorhead e Black Sabbath. Le fasi di inverosimile sfuriata distorta vengono direttamente dal passato hardcore di Mascis e Barlow. Gli assolo di chitarra strappabudella, o strappacuore, vengono da tanti illustri predecessori: Hendrix, Iommi, Blackmore, Frampton e via così. Un mare di chitarristi degli anni 60 e 70. La new wave fornisce la malinconia di fondo che avvolge il tutto, la piega intimista delle liriche e l’incedere sbilenco delle trame melodiche.
Come si capisce da queste prime righe, pertanto, i Dinosaur Jr hanno sommato tutte queste mille e una influenze producendo una sintesi rock nel contempo estremamente originale (niente suona davvero come i Dinosaur Jr), efficace e gradevole fin dal primo ascolto.
Mettiamo ordine nel caos facendo un po’ di storia.
Ad Amherst, Massachusetts, esiste soprattutto una cosa: la University Of Massachusetts, ovvero quella UMASS immortalata anche in una canzone dei Pixies. Ad Amherst la vita di un adolescente borghese, figlio di un dentista e con un fratello maggiore destinato a una rapida e luminosa carriera di avvocato, può essere dura, se l’aspetto non aiuta e la timidezza fa volare basso in materia di rapporti con l’altro sesso. La musica, favorita dagli ascolti dei dischi del fratellone, diventa così la più naturale valvola di sfogo per Joseph D. Mascis, che si fa chiamare da tutti semplicemente J.
Il nostro J Mascis, liceale frustrato dai lunghi capelli, nel 1982 si presenta accompagnato dal padre per una audizione come batterista da un certo Scott, che ha messo un annuncio cercando musicisti interessati a gruppi tipo Discharge. J convince Scott, che suona il basso, a prendere il suo amico e compagno di scuola Charlie Nakajima al canto. Il chitarrista c’è già ed è nient’altri che Lou Barlow, futuro bassista dei Dinosaur Jr. Nascono così i Deep Wound che, accanto ad alcuni brani di hardcore più classico e a tratti melodico, uniscono spesso la furia del metal più estremo per l’epoca e accelerazioni parossistiche al limite delle possibilità umane. Capita anche che talvolta la chitarra sia distorta al punto da divenire un sibilo sottile, che anche gli altri strumenti vengano distorti e ridotti a puro caos sonoro in quelle che più che canzoni sono brevissimi e terribili conati di vomito di durata ridotta a poche decine di secondi ("You’re False", "Pressure", "Never Let You In", "Your Head Is In Your Crotch").
Praticamente senza neanche accorgersene, prima o contemporaneamente ad altre band oggi ben più rammentate, come gli stessi Discharge, creano le basi del grind. Un merito che qualcuno oggi comincia anche a riconoscere loro. Questa piccola band di sfigati si fa conoscere prima in zona e poi in tutto lo stato, aprendo praticamente per qualsiasi hardcore band in tour da quelle parti. Fanno in tempo a incidere un Ep dal titolo "Martian Brain Squeeze", una cassetta autoprodotta, e apparire con due pezzi in una compilation su Lp dal titolo "Bands That Could Be God" (Homestead, 1984). Tutta roba che oggi per i collezionisti vale oro. Poi si sciolgono. Di recente a seguito di numerose richieste l’intera opera della band è stata ripubblicata in unico album.
Nel frattempo J da dietro i tamburi talvolta ha imparato a passare anche davanti, imbracciando la chitarra e cominciando a cantare, quasi in un processo di uscita dalla sua naturale timidezza. Per far capire di che tipo stiamo parlando, lui ricorda il periodo in questo modo: "Suonavo la batteria così rubavo la chitarra agli altri. Tutto ciò che suonavo erano gli assolo. Non ho mai suonato alcun accordo fino ai Dinosaur. (…) Gli accordi mi facevano male alle mani. (…) Odiavo soprattutto i barrè – sai, premere il dito su tutte le corde. Così suonavo soltanto gli assolo dietro alle canzoni". Un cambio di strumento fortunato, seppur segnato da una pigrizia decisamente degna di nota.
Contemporaneamente, col cambio di strumento e lo scioglimento dei Deep Wound, il nostro J e l’amico Lou che si sposta al basso, destinato a diventare suo nemico "interno", finiscono il liceo, arrivano alla UMASS e cominciano a suonare in duo. Nasce così il nucleo di quelli che all’epoca si chiamavano ancora semplicemente Dinosaur. Venendo dalla batteria, Mascis tenta di ricreare il wall of sound dello strumento con la chitarra e non trova di meglio che alzare in maniera inverosimile il volume dell’amplificatore: "La batteria inizialmente mi pareva più espressiva. Penso che sia per quello che suono così alto".
Nasce dunque il suo marchio di fabbrica sonoro, che è dato infatti dal volume della chitarra tremendamente alto, di solito assai superiore a quello degli altri strumenti arrivando anche a nasconderli in svariati passaggi, oltre al suono tipicamente "chitarroso" (o catarroso), distorto, risonante e pieno, che farà da modello per gran parte della generazione di chitarristi immediatamente a venire e destinato a rappresentare uno stile. È largo l’uso della distorsione fuzz e anche dello wah-wah. Comunque, sia J sia Lou si rendono conto che in due ci si diverte, ma è difficile suonare, così reclutano il batterista Emmet Murphy che si fa chiamare semplicemente Murph. Il gruppo è dunque al completo.
A questo punto qualcuno si chiederà da cosa deriva il curioso nome Dinosaur Jr. L’origine sta in incredibili grane legali: un ex-membro dei Jefferson Airplane a un certo punto muove causa ai Dinosaur dal momento che a detta sua quel nome era già stato usato dal misconosciuto gruppo che aveva fondato nei primi 70 assieme ad altri superstiti di questa e di quella band. "Arriva questo hippy drogato del cazzo e mi dice che il suo gruppo aveva già usato quel nome. Vaffanculo - gli ho detto - ci metto un Jr e voglio vedere cosa succede!". Questo, in perfetto stile col personaggio, laconico e diretto fino alla rudezza, è il racconto di J Mascis sulla nascita del definitivo nome della band.
Nel 1984 Gerald Cosloy, un altro studente della UMASS, fan accanito dei Deep Wound, si era trasferito a New York per fondare una propria etichetta discografica chiamata Homestead, e prendere con sé nientemeno che i seguenti tre nomi: Big Black, Sonic Youth e Dinosaur. I nostri tre eroi sono così messi in grado di registrare il loro primo Lp.
Dinosaur (Homestead, 1985) è subito pugno di ferro in guanto di velluto. Prendendo in mano la conduzione della band, anche dal punto di vista compositivo, il chitarrista-cantante, oltre a rallentare i ritmi su un numero più umano di battute al minuto, ha preso a piene mani dai suoi beniamini musicali. La malinconia nostalgica della iniziale "Forget The Swan" denuncia appunto i due principali punti di riferimento melodici da cui parte la scitttura di Mascis: Cure (la cui influenza su questa canzone è palese) e Neil Young. Immediatamente la successiva "Cats In A Bowl" si discosta dal pezzo precedente indicando che anche l’hardcore non è stato affatto dimenticato. In particolare funge da perno la sua parte che in quei tempi stava sviluppando una sensibilità pop o folk, Husker Du, Replacements, Meat Puppets. La cavalcata di "The Leper" mostra che accanto al punk anche le basi hard-rock o heavy-metal (bollente assolo di sei corde) fanno parte del bagaglio, quasi che il gruppo voglia mostrare in ogni canzone una parte differente delle proprie influenze.
Su tutto, comunque, spazia sempre la chitarra già a volume nettamente superiore alla norma (ma ancora siamo a nulla rispetto ad alcune prove sugli album che verranno). "Does It Float" parte dolce e folkeggiante, ma ci porta due volte a un ritornello violentissimo, efferatamente grind, dove Mascis scaglia con grida inarticolate e difficilmente intelligibili la sua inquietante domanda: "Why does it float?", in mezzo a una cacofonia strumentale inarrestabile.
Altri episodi assolutamente degni di nota li troviamo in "Repulsion", che pare la sintesi delle passioni musicali e delle frustrazioni personali del trio, nonché nelle zuccherose "Severed Lips" e "Quest".
La voce è in tutto l’album quella che ben presto diviene nota come "la voce di Mascis", altro suo segno inconfondibile: partendo ancora una volta da Neil Young, innestando una robusta dose di Robert Smith, salta fuori un canto strascicato, indolente, persino a tratti decisamente stonato. I testi, come del resto accadrà in futuro, spaziano tra insicurezze e frustrazioni, poetica romantica "dell’outsider" (uno dei temi fissi), disillusioni assortite e senso di abbandono.
Dunque, se Neil Young è il polo di riferimento lirico-agreste della musica del gruppo ("Repulsion", "Severed Lips" e "Quest" gli esempi più clamorosi), Cure, Bauhaus e la dark-wave in generale nettamente rappresentano quello dello spirito romantico-decadente ("Forget The Swan", "Pointless", "Bulbs Of Passion"), formando così una sovrastruttura morbida (il guanto di velluto), hard-rock, metal e hardcore fungono da struttura portante destinata a sostenere la composizione con la durezza, gli arrangiamenti sostanziosi e suoni sempre estremamente corposi in tutte le canzoni (il pugno di ferro).
Quando questo scheletro esce allo scoperto, assistiamo agli episodi feroci, come nella già citata "Does It Float" o nella bellissima - nella sua orridezza - "Mountain Man", che rappresenta l’apice trash o meglio proto-trash (Motorhead, Venom) dell’album. Le canzoni dei Dinosaur Jr, quindi principalmente di Mascis, sono fatte così, a strati. Non per nulla molti brani di Dinosaur sono composti di diverse parti, talvolta anche tra loro contrastanti come mood, mostrando una complessità esteriore che è quasi specchio della complessità interiore di questi ragazzi. La complessità derivante forse dalla timidezza si mostra anche nelle esibizioni dal vivo, dove i ragazzi si proteggono dietro un muro sonoro a livelli difficilmente uditi in precedenza.
E’ proprio questo aspetto del "wall of sound", già in nuce in Dinosaur, che viene curato ed emerge prepotentemente, assieme a un ulteriore salto nella qualità di scrittura, in You’re Living All Over Me (Sst, 1987), il secondo album dei Dinosaur Jr. e uno dei grandi capolavori del rock di tutti i tempi.
Il balzo in avanti compiuto dai tre con questo secondo album è davvero impressionante, anche grazie al passaggio alla Sst, storica etichetta indipendente dei Black Flag che offre maggiori mezzi, solida esperienza assieme ad assoluta libertà creativa. Non solo il sound è diventato definitivamente qualcosa di personale e inconfondibile, certamente più che nell’opera precedente, ma le canzoni sono davvero grandi, tutte piccole perle compiute in sé stesse. Una scrittura che unisce ai ganci pop a presa rapida di una semplicità disarmante la capacità di essere rabbiosa e morbida allo stesso tempo, disperatamente e così "direttamente" rock da non lasciare scampo. Frecce che vanno dritte al cuore, questo sono le canzoni di You’re Living All Over Me, scritte in stato di grazia, arrangiate e suonate con una personalità e una spontaneità davvero rare.
Sconvolge subito l’uragano sonoro che apre "Little Fury Things". L’ascoltatore viene dal silenzio per essere subito "spettinato" da urla strazianti e da un turbine di chitarra iperdistorta, sformata dallo wah-wah e suonata a un volume tale da coprire tutto, che improvvisamente si interrompe e sfocia in una melodia pop-folk completamente diversa, di presa immediata e dolcemente cantata. Il contrasto con l’introduzione lascia a bocca aperta. Cosa saranno mai queste "Little Fury Things"? Prima un coniglio (?!) che abbatte il protagonista, che poi si trasforma in una "lei" che però fugge via, il tutto mentre lui continua a strisciare, incapace di reagire. Non si fa in tempo a rispondersi che arriva un'altra parte del brano, stavolta una new wave che cresce sempre più rockeggiante, risolvendosi in un intermezzo strumentale melodico di sapore seventies ritmato dal trillare di un cembalo, fino a tornare al dolce brano folk. Questo però non finisce come ci si aspetterebbe con un ritornello di qualche tipo, che è in realtà del tutto assente, ma con una sua ulteriore ripetizione sulla quale dal nulla si sovrappone una distorsione di chitarra a volumi stratosferici che come lava da un vulcano copre ogni cosa, voce compresa, e termina (anche nel senso di "uccide") il brano in un ridondare di feedback. Tutto nella durata standard rock di quattro minuti. Incredibile e sconvolgente. Una rivelazione.
Il resto dell'album non è da meno. Se nella prima parte si dà sfogo al lato più hard e trash, con la sequenza "Kracked"–"Sludgefeast"–"The Lung", che è l’apoteosi del riff pesante alla Black Sabbath e dell’arrangiamento hard-rock seventies, la seconda facciata più melodica spazia dal folk elettrico di "Raisans" e "Tarpit" alla new wave, con l’ennesimo capolavoro di semplicità introversa "In A Jar", condotta da un basso straordinariamente propulsivo, fino alla sperimentazione low-fi di "Poledo", un collage quasi delirante di nastri di provini casalinghi smagnetizzati ad arte e scarsamente udibili più inquietanti registrazioni di rumore rosa da disturbi televisivi o radiofonici.
I Dinosaur Jr con quest’album portano avanti un discorso di recupero sostanzialmente conservatore, innestandovi robuste dosi di rumorismo "sonico" e una abilità di scrivere melodie incredibilmente semplici ed efficaci allo stesso tempo. Il tutto è stato capace di dare una forte spinta in avanti alla musica dei loro tempi, grazie soprattutto al nuovo modo di porre il suono, di costruire appunto la sovrastruttura che avvolge le composizioni, di mescolare melodie memorabili e rumore assordante. In fondo questa è l’essenza del rock nel senso pieno del termine, ossia una musica popolare che si ciba di se stessa e come l’araba fenice rinasce ogni volta dalle proprie ceneri. Il rock si cannibalizza e produce risultati di sintesi in sé nuovi, ricostruiti in forma diversa, capaci di esser fonte di nuova ispirazione e di lanciarlo in direzioni diverse da quelle di partenza, pur essendo queste ultime perfettamente individuabili all’interno della nuova produzione. In questo senso "You’re Living All Over Me", come in fondo tutta l’opera dei Dinosaur Jr di quegli anni, è davvero esemplare di come si faccia rock a partire dal rock.
In questo periodo, oltre ad andare in tour con i maestri/amici sonici Sonic Youth, per omaggiare una delle sue principali fonti di ispirazione, il gruppo produce anche un 45 giri che nella facciata A porta una sconvolgente e ubriaca cover di "Just Like Heaven", arrangiata con ben quattro chitarre, un ritornello efferato, un assolo delirante e un finale tronco assolutamente spiazzante, brano che finirà come bonus nella versione cd di You’re Living All Over Me. Il retro è invece "Chunks", ovvero un’altra notevole cover stavolta dei Last Rights, un misconosciuto gruppo hardcore: violentissima, magniloquente e grind allo stesso tempo.
Un discorso a parte meritano le copertine di questi dischi: sciolte, fuse, bruciate o scarsamente a fuoco, a voler rappresentare la fusione di stili e il magma emozionale dal quale scaturiscono le opere in esse contenute. Anche i video sono confusi, sfuocati, estremamente mossi, coinvolgenti e divertenti nella loro semplicità. Soprattutto quello di "Little Fury Things" è una chicca in b/n, vedere per credere.
Se You’re Living All Over Me è il vertice emotivo del trio, nell’iniziale triangolo di album indubbiamente Bug (Sst, 1988) ne rappresenta il vertice formale. Tutto viaggia a pieni giri come un motore perfettamente oliato e le sfuriate soniche innestate sopra un superbo lavoro di scrittura appaiono quanto di meglio si possa chiedere in quel momento al cosiddetto indie-rock. Dall’ennesimo capolavoro pop rumoroso dell’iniziale "Freak Scene", che a un’incredibile semplicità melodica unisce un’esuberante urgenza chitarristica, si passa al romanticismo noir di "No Bones" o del finale pianistico rallentato della cavalcante "They Always Come", al folk scoperto e dolcissimo di "Let It Ride" e "Pond Song", al quasi slow-core di "The Budge", all’immancabile delirio trash della finale "Don’t", il cui testo esemplificativo della poetica "dell’outsider" della band urla all’infinito, con voce cavernosa e distorta, esclusivamente la terribile domanda: "Why don’t you like me?", che merita il posto d’onore sia nell’album che nella produzione di questo tipo del gruppo.
La sei corde di Mascis raggiunge vertici irripetibili come qualità e come volume. Ci sono assolo travolgenti, ("Freak Scene", "Yeah We Know") e momenti in cui letteralmente tutto sparisce sotto un numero imprecisato di chitarre ribollenti a livelli di picco pressoché inudibili ("No Bones", "Don’t"). Eppure sotto questa tempesta sonica, le melodie sono semplici e splendide, romantiche e feroci, gioielli di puro talento compositivo. La pietanza con ingredienti melodia + rumore su Bug è cotta a puntino, come lo era sull’album precedente.
La critica accoglie il disco con grande favore, così anche il pubblico delle "college radio" che forma il nucleo di quella che verrà chiamata "X-Generation" e che farà la fortuna del rock che tornerà a dominare le classifiche a cavallo del nuovo decennio. E’ un tipo di rock che incorpora i mille rivoli d’origine che abbiamo già trattato, ormai perfettamente amalgamati, ma in modo talmente personale da divenire fonte di nuovi spunti solo con estrema attenzione, pena la troppo scoperta imitazione da parte dei prosecutori. Siamo forse di fronte a uno di quei "rami secchi" del rock che rappresentano allo stesso tempo un vertice e un termine ultimo, oltre il quale c’è solo il cielo? You’re Living All Over Me e Bug sono sì un vertice ma sono anche stati, per chiunque amasse certo rock sanguigno e suonasse uno strumento, uno spunto incredibile, oltre che come sound, anche come spirito, come esempio di cosa si poteva fare con la propria libertà creativa. Sono opere determinanti nella definizione di un nuovo suono che di lì a pochi anni esploderà nel fenomeno che qualche furbo critico in vena di semplificazioni chiamerà "grunge", ovvero "stropicciato", aggettivo unificante che se mal si concilia con i diversi generi realmente suonati dai gruppi che con faciloneria verranno fatti rientrare nel filone, e però ottimamente si adatta proprio al suono dei precursori Dinosaur Jr.
Gli stessi Nirvana fuor di dubbio devono moltissimo al sound dei Dinosaur. Ma anche il cosiddetto movimento shoegaze ha qualche debito con il lavoro chitarristico del trio di Amherst. Non nega, per esempio, l’amore per questi dischi e per il lavoro di Mascis un personaggio come Kevin Shields, il quale ne riconoscerà la spinta per definire il suono dei My Bloody Valentine dei capolavori "Isn’t Anything" e "Loveless". I due sono grandi amici e non nascondono l’ammirazione reciproca.
Di vecchissima data, fin dai tempi della Homestead, è anche il rapporto con i Sonic Youth e in particolare Thurston Moore, con il quale si scambiano reciproche influenze. E’ un periodo in cui persino un personaggio come David Bowie afferma che i Dinosaur Jr sono il suo gruppo preferito e questa dichiarazione vip frutterà di lì a qualche tempo anche una collaborazione Bowie-Mascis due per un rifacimento di "Quicksand" da "Hunky Dory", destinato a finire su uno dei tanti singoli o Ep targati Dinosaur Jr.
Tutto questo successo e ammirazione, benché – sia chiaro - sempre a livello underground, esaltano ovviamente l’ego già sviluppato del leader e creano forti tensioni all’interno della band, soprattutto con l’ormai ex-amico Lou Barlow, che si sente soffocato nella sua creatività dal limitatissimo spazio lasciatogli a disposizione. In poche parole, i due non si sopportano più da tempo.
L’atto finale di questa formazione storica sarà la pubblicazione postuma di Fossils (Sst, 1991), ottima raccolta di singoli e b-side incisi per la storica etichetta. Assolutamente consigliabile per avere una prima idea del gruppo, offre la possibilità di ascoltare singoli all’epoca già introvabili, come l’altra celebre cover "Show Me The Way" o le grandi b-side, come la particolarissima "Keep The Glove", con un eccezionale finale sonico, la efferata "Chunks" o ancora "Throw Down", illuminante lampo folk di pochi secondi, che come una perla si lascia solo intravedere per tornare rinserrata tra le valve dell’anima di Mascis.
Il colpo definitivo alla ormai precaria stabilità del trio lo danno due eventi: i nuovi interessi del bassista in progetti alternativi con i due suoi vecchi amici Jason Lowenstein ed Eric Gaffney, con i quali dà vita ai Sebadoh, destinati a fornire il nuovo paradigma per il termine low-fi e rimanere nel cuore di tanti, nonché il passaggio alla major Warner e in particolare alla sua etichetta alt-rock Blanco y Negro, quando anche Murph molla la presa.
In procinto di registrare il nuovo album i compagni abbandonano dunque il leader, che nel 1990 si ritrova solo alla vigilia di entrare in sala di registrazione. Sebbene i tempi si allunghino, niente può tuttavia fermare l’eclettico chitarrista, anche perché i contratti con le major non scherzano se non incidi quel che ti sei impegnato a incidere, ed egli forte della sua passata esperienza di batterista e della sua innata musicalità si pone dietro a ogni strumento, registrandosi e producendosi da solo tutta la nuova opera, con solo qualche collaborazione sporadica del fido Murph che ha resistito fino a incidere tre tracce, tra cui il singolo, e di Don Fleming dei Gumball con il quale il sodalizio in quel periodo è piuttosto stabile.
Green Mind (Blanco y Negro, 1991) giunge dopo un'attesa lunga quasi tre anni ed è in sé un buon disco. Se non che questo significa un sostanziale arresto nella crescita artistica di Mascis, che trovata la formula magica la ripete innestando soltanto una marcia più tranquilla rispetto ai lavori precedenti. Resta il forte impatto chitarristico, sia nel senso di quantità che di volume, esempi ne sono il turbinante singolo "The Wagon" con il solito indeterminato numero di sovraincisioni di chitarra, già uscito l’anno precedente in una differente versione su 7" Sub Pop in attesa dell’accasamento definitivo, o ancora "Puke + Cry", condotta da una solida e ritmatissima chitarra acustica.
Restano le ottime intuizioni di semplicità melodica, come la vellutata "Flying Cloud", o la cantilenante "Thumb", che è una delle tracce migliori, capace di essere nenia di due accordi senza annoiare, ma anzi coinvolgendo. Lo stone-rock di "I Live For That Look" e di "Green Mind", così come altri brani, non si può non apprezzare per come esce trattato dalla premiata centrifuga di Mascis.
Detto dunque che il livello resta alto, c’è qualcosa che non convince appieno. Le asperità sono state nettamente limate, la voce non si lascia mai andare alle urla strazianti, così come il rumorismo è più "dovuto" che "sentito". Le influenze punk, metal e new wave vengono messe in un angolo, mentre quelle dei classiconi rock prendono il sopravvento. Per esempio non si può non sospirare pensando come sarebbe stata trattata l’eccellente "Water" in tempi precedenti. Gli sfoghi parossistici alla "Mountain Man", alla "Chunks" o alla "Don’t", dove secchiate di colore musicale gettate con furore coloravano la tela del pentagramma, sono acqua passata. Già il fatto che la durata media dei brani e complessiva dell’album tornino a crescere, dopo i numeri più contenuti dei due album precedenti, è tutto sommato indice di una minore "selezione" più che di abbondanza di materiale veramente valido.
Il punto è che l’assoluta autogestione di cui adesso gode Mascis viene utilizzata per adagiarsi sul piano raggiunto e non divagare più. Un po’ è l’effetto-major che rende tutto più patinato e meno "insolito", un po’ - come afferma lui stesso in interviste dell’epoca - è proprio questo che piace al leader: rock standard, suonato con la chitarra a manetta. Quasi come un adolescente nella sua cameretta, che si sfoga per le frustrazioni della giornata imbracciando la fida sei corde, girando il pomello del volume e dandoci sotto a suonare assieme ai suoi dischi preferiti.
Per Mascis arriva anche un certo premio dalle vendite, anche se inferiore rispetto alle speranze. Egli comunque dichiara che finalmente può vivere solo della sua musica e non è più costretto a svolgere anche un lavoro "normale", dunque per questo non capisce gli altri che lo hanno abbandonato. Per la prima volta la sigla Dinosaur Jr si fa conoscere da una parte del grosso pubblico non aduso a frequentare i negozi di dischi d’importazione.
Tra un tour e l’altro Mascis incide nuove canzoni e sforna Ep collaborando sempre con Don Fleming, il quale mette anche penna nelle composizioni e così per un certo periodo può essere considerato in pratica un nuovo membro del gruppo. Anzi, si può dire che alcune delle cose migliori del periodo finiscono proprio su Ep o come b-side, che peraltro, come già detto, sono sempre stati eccellenti anche in passato. Basti pensare alla rocciosissima "Whatever’s Cool With Me", decisamente vecchio stile, o alla delicata "Sideways", adattissima per una giornata di nebbia, inspiegabilmente scartate dagli Lp.
Murph torna all’ovile, viene reclutato Mike Johnson come nuovo bassista stabile e ristabilito dunque un minimo di "collegialità", più dal punto di vista formale – soprattutto per foto e interviste - che effettivo. La band sforna alcune belle canzoni che fanno ben sperare per il futuro. In particolare, la tensione si alza quando esce l’eccellente singolo "Get Me", che preannuncia il nuovo album. Il brano è il classico esempio dinosauresco di pezzo nato acustico ma suonato elettricamente, zuccheroso al punto giusto e con un coretto contagioso nel ritornello. Il 45 giri presenta anche una b-side di tutto rispetto, anche se è l’ennesima cover, stavolta di "Hot Burrito # 2" dei Flyng Burrito Brothers, che tuttavia sorprende per freschezza.
Invece succede che Where You Been (Blanco y Negro, 1993) delude, almeno parzialmente. Certo c’è qualche guizzo, come appunto il primo singolo o la bomba che apre l’album, "Out There", secondo singolo, con chitarroni imponenti e solo trascinanti, e ancora la chicca "Goin Home". Tuttavia il nuovo lavoro si colloca ancora sul piano di un rock rumoroso stile-Green Mind senza sostanziali cambiamenti. Lo spirito avventuroso, l’emozione di aver scoperto un nuovo filone, sono ormai belli che passati e la coazione a ripetere non è mai una bella cosa. Ci sono orchestrazioni classiche, persino l’uso di magniloquenti timpani su "What Else Is New" e "Not The Same", i tentativi di rifare Neil Young meglio di Neil Young stesso sempre con "Not The Same".
Non si può dire che le singole canzoni non si facciano piacere, ma alcune sono tirate troppo in lungo, come "Start Choppin’" o "What Else Is New", altre si assomigliano davvero un po’ troppo, come "Drawering" che è decisamente la brutta copia di "Get Me", soltanto arrangiata con campane tubolari. Le stesse costanti stonature della voce paiono ormai un vezzo.
In conclusione, i vari espedienti non sfondano mai veramente e ciò che abbiamo è sostanzialmente un prodotto stampato col clichè del precedente, quindi decisamente "di maniera", seppur la "maniera" dei Dinosaur Jr.
Rimasto solo, Mascis ha non tanto il problema di voler strafare (dato che di fatto era più sonoramente strabordante in precedenza), quanto quello di non aver più qualcuno che gli dica quand’è il momento di fermarsi e tentare un’altra strada, magari più impervia, ma di maggior soddisfazione; non è più contenuto da certe sensibilità, diciamo, "alternative", che erano proprie soprattutto di Barlow il quale infatti per tutta la sua carriera ha sempre avuto l’innata capacità (o forse si dovrebbe dire l’innata sfiga?) di fuggire da qualsiasi cosa potesse anche lontanamente odorare di successo commerciale non appena questa si avvicinava.
Il film si replica per il successivo Without A Sound (Blanco y Negro, 1994), una nuova ripetizione del compitino giusto per strappare la sufficienza, e per l’ultimo titolo sulla lunga distanza che esce sotto il marchio del dinosauro Hand It Over (Blanco y Negro, 1997), i quali nulla aggiungono e nulla tolgono alla storia, allungando soltanto il brodo.
Ormai si sa esattamente cosa aspettarsi da un album del gruppo e quello puntualmente arriva. Il nome Dinosaur Jr è da anni un affare privato del solo chitarrista e pian piano tutto si è ridotto a "J Mascis che fa i Dinosaur Jr". Egli se ne rende conto e pone termine alla storia, alfine, cominciando a lavorare come solista anche di nome, oltre che di fatto.
Negli anni 90 alla lunga è Barlow che artisticamente ottiene i risultati migliori, riconosciuti dalla critica e dal pubblico più attento, con il pout-pourri low-fi, folk, punk, sperimentale dei Sebadoh. Tuttavia anche lui con la sua idiosincrasia, non si sa quanto voluta, per il successo finisce per perdersi in una miriade di progetti musicali (tra gli altri Sentridoh, Folk Implosion), per avvolgersi su se stesso con i suoi sogni e infine smarrire la strada musicalmente e anche personalmente.
Quando ormai nel nuovo millennio le notizie danno Barlow letteralmente alla fame, ridotto a offrirsi in rete al migliore offerente per comporre canzoni su commissione, accade l’impensabile. Il classico fulmine a ciel sereno. Nel 2005 la formazione storica dei Dinosaur Jr torna insieme e intraprende un tour mondiale.
Al grande entusiasmo denunciato dai tre, sia pure tra le mille cautele dei "vediamo cosa succede", corrisponde effettivamente un grande live act: incendiario e romantico, ovviamente molto rumoroso come si conviene, ma estremamente lucido nel riproporre il grandioso repertorio dei tre quando ancora incidevano insieme. Chi li vede - e sono tanti a dimostrazione del grande lascito della band - non va certo via scontento. Chi non li vede non sa cosa si perde. I tre non si risparmiano, i tre sono vivi e vitali. Incredibile a dirsi, dopo quindici anni di separazione.
Sarà l’età, ma gli spigoli tra J Mascis e Lou Balow si sono smussati, mentre Murph non è mai realmente stato in discussione al fianco del leader.
Finito il giro attorno al mondo, il trio dichiara che: "L’idea era solo di fare un tour ma ci siamo trovati così bene che ci siamo detti, perché no?". Così addirittura incidono un nuovo album dei "veri" Dinosaur Jr. dal titolo Beyond (Fat Possum, 2007).
Sebbene la critica lo prenda assai bene, chi scrive ritiene che questo disco non realizzi pienamente le ottime premesse viste dal vivo. I soliti buoni momenti non mancano ("Back To Your Heart" di Barlow è la migliore del lotto, ma soddisfano anche "We’re Not Alone", l’acustica "I Got Lost" e la tambureggiante "Lightining Bulb"), ciò nonostante il disco suona più sulla falsariga dei Dinosaur Jr quando questo era il nome d’arte di J Mascis, piuttosto che come il ritorno a pieni giri dello storico trio di Amherst.
Intendiamoci, ovviamente in tutta la vicenda di questo nome non c’è stato niente di "vergognoso" o "terribile"; la dignità è sempre stata salva. E’ solo che dai tre che hanno prodotto la collana di perle Dinosaur-You're Living All Over Me-Bug, hanno sfornato una serie di canzoni capaci di incidersi nell’anima di una generazione al primo ascolto per la loro esuberante spontaneità, hanno avuto un’influenza enorme sul rock contemporaneo e successivo, ci si aspetta davvero sempre il meglio. Attese troppo alte dopo oltre tre lustri? Forse, ma resta comunque in bocca un sapore dolciastro. In altre parole non ci si libera dall’impressione che Beyond sarebbe potuto essere migliore di come in effetti è.
Con Farm (2009), però, i profumi dell’antica magia dei Dinosaur Jr tornano a farsi piacevolmente sentire. Dall’andamento vivace e scorrevole della iniziale “Pieces”, perfetta sintesi moderna dell’antica componente new wave della band, all’ispiratissima melodia di “Plans”, struggente e rumorosa, con uno di quegli assoli che solo J Mascis sa tirare fuori, al solito ottimo contributo di Barlow in “Your Weather”, che rappresenta il lato più dark-folk e “laterale” dell’album, ritroviamo l’aura che credevamo perduta e la forza che credevamo spenta. Melodia & rumore come ai vecchi tempi.
Se “Friends”, “No Here” e “I Don’t Wanna Go There”, con un altro torrenziale assolo di chitarra, sembrano portate di peso dagli anni 70 nel 2009, “Said The People” ci avvisa che i Dinosaur Jr sono ancora capaci di ottime performance di inusitata dolcezza. Barlow ci regala anche un'altra delle sue ottime canzoni: la conclusiva “Imagination Blind”.
Soprattutto una cosa ci dà il segno di quanto i Dinosaur Jr, e quindi soprattutto Mascis, abbiamo ritrovato fiducia e sicurezza nei propri mezzi: finalmente è tornato il volume assurdamente alto della chitarra che, specie negli assoli, si eleva a coprire ogni altro strumento. Quel marchio di fabbrica che ha reso inconfondibile questo gruppo di scalmanati che hanno fatto un pezzo di storia del rock.
Tre anni dopo, a metà settembre, ecco nei negozi il terzo lavoro dopo la reunion, I Bet On Sky (Jagjaguwar, 2012), che conferma lo stato di grazia del trio americano. Gli abituali intro di chitarra, e gli altrettanto caratteristici soli finali (il primo singolo “Watch The Corners, la successiva “Almost Fare”), lanciano l’album alla grande, con la voce stentata e indolente, ma assolutamente inconfondibile, di Mascis che completa quello che da quasi tre decenni è un vero e proprio trademark.
Occhio al feeling rock di “Pierce In The Morning Rain”, che si impone in un set di brani tendenti al melodico – malinconico (esemplare in tal senso “Stick A Toe In”), al solito omaggio a Neil Young (la conclusiva “See It On Your Side”), ma in maniera inattesa una delle vette della tracklist è di Barlow, “Recognition” (ma firma anche la ritmata “Rude”, posta a metà selezione), una confessione che suona come una rivendicazione da parte del bassista, il quale incentra il testo sulla propria volontà di essere rivalutato dopo che Mascis lo mise alla porta all’indomani della pubblicazione di “Bug”. Un testo straordinariamente rivelatore che spiega come J e Lou siano tornati a lavorare insieme, rispettandosi a vicenda.
I Bet On Sky è un lavoro più di mestiere che non di ispirazione, ma questo non è mai necessariamente un male, certo non quando gli artigiani si chiamano Dinosaur Jr., in grado di dimostrare una volta di più quanto una lunga carriera non debba necessariamente avere strascichi patetici.
Se poi ascoltando le dieci nuove tracce ci si ritrovasse a vagare indietro nel tempo, al sound di “Freak Scene” ed “Out There”, ciò risulterà un’attestazione di modernità stilistica, piuttosto che inconcludenza da auto - plagio. Mille volte meglio i Dinosaur Jr. che suonano per l’ennesima volta come sé stessi, piuttosto che rincorrere in maniera ridicola e forzata le mode del momento. Ve li immaginereste J, Lou e Murph agitarsi su monocordi drone-rock, oppure dedicarsi alle ultime frontiere dell’alt-electronic? Teniamoceli come sono, ci conviene così.
Ad agosto 2016 arriva ilquarto album dalla ricongiunzione astrale fra J Mascis e Lou Barlow, Give A Glimpse Of What yer Not, il quale cristallizza lo stile consolidato negli anni e l’assoluto rifiuto nell’apportare qualsiasi elemento di novità. L'album propone i medesimi ingredienti del recente passato, confermando comunque il costante ottimo stato di salute della formazione americana, imbattibile nel proporre il personale e ben noto mix di distorsioni e melodia. Grande potenza elettrica e orecchiabilità, nella miglior tradizione del signor Mascis, protagonista principale dei riffoni di “Goin Down” e “Tiny”, delle malinconiche rotondità alt-rock di “Lost All Day”, e degli assoli da consumato guitar hero (nell’inconfondibile Neil Young style) che corredano ogni brano.
I ritornelli sono tutti azzeccatissimi (provate ad ascoltare “I Told Everyone”), “Good To Know” è il pezzo che può ancora farti sentire al centro del mondo (come facevano “State Of Love And Trust” o “Once”), e un paio di (finte, perché cammin facendo decollano) ballad, “Be A Part” e “Knocked Around” (cantata quasi tutta in falsetto), spezzano il ritmo, conferendo dinamicità al disco. Lou Barlow contribuisce con le solite due egregie tracce, questa volta tocca a “Love Is…” e “Left / Right”, perfette per riscattare "Brace The Wave", il poco riuscito disco solista dello scorso anno.
Il suono dei Dinosaur Jr è diventato un “classico”, ed è difficile oggi stabilire se questi signori possano essere ancora configurati nell’alveo del rock alternativo. Di sicuro non tradiscono le aspettative, continuando a realizzare esattamente quei dischi che ci saremmo attesi da loro. Un po' come il vino buono, che pur invecchiando riesce a mantenere intatte le proprie caratteristiche.
Ritardato di un annetto o giù di lì causa Covid-19 e licenziato dalla sempreverde Jagjaguwar, Sweep It Into Space (2021) è il dodicesimo disco del trio. Non che di solito non lo siano, ma questa volta le aspettative erano decisamente alte, grazie all’annunzio della partecipazione al disco da parte Kurt Vile, che ne ha curato in parte la produzione, nonché suonato diverse parti di chitarra. La premessa era particolarmente stuzzicante non soltanto per le indubbie qualità di Vile, altro gigante contemporaneo (sebbene meno navigato) della chitarra, quanto per il suo debito stilistico nei confronti della band ed in particolare di Mascis.
La delusione, se tale possiamo definirla, che il disco porta con sé riguarda proprio l’apporto del chitarrista di Philly, che manca di farsi segnante. Difatti, se si eccettuano le finiture del singolo “I Ran Away” e l’andamento più svaccato del solito e tipico dell’andazzo slacker di Vile, la partecipazione risulta piuttosto impalpabile.
Spetta a Barlow questa volta il ruolo di autore principale dei testi, che scrive quasi nella loro totalità, cantandone peraltro quello della canzone più bella. Una “The Garden” traboccante malinconia con un ritornello trascinante ma lieve che ricorda i miracoli di “Green Mind”.
Rispetto ad altri dischi del passato post-reunion dei Dinosaur Jr., questo ultimo è forse il più gentile e sussurrato, con l’impatto melodico a prevalere sugli arrembaggi chitarristici. Un minimo sindacale di numeri à-la Mascis non può però mancare e così in “I Met The Stones” sono mazzate quasi metal e in “I Expect It Always” si derapa e cambia passo come in un rally.
A parte la succitata “Garden”, brano di bellezza davvero immediata e adamantina, il disco non vive di episodi folgoranti, preferendo invece fluire con continua piacevolezza. La formula più unica che rara della band aiuta certamente a far drizzare le antenne degli ascoltatori ad ogni uscita, ma va detto che questi tre vecchi freak di Amherst, pur quando come questa volta non osano troppo, il risultato lo portano sempre a casa.
Contributi di Claudio Lancia ("I Bet On Sky", "Give A Glimpse Of What Yer Not"), Michele Corrado ("Sweep It Into Space")
DINOSAUR JR | ||
Dinosaur (Homestead, 1985) | 7 | |
You’re Living All Over Me (Sst, 1987) | 9 | |
Little Fury Things (Ep, Sst, 1987) | ||
Bug (Sst, 1988) | 8,5 | |
Freak Scene (Ep, Sst, 1989) | ||
Just Like Heaven (Ep, Sst, 1989) | ||
Fossils (antologia, Sst, 1991) | 7,5 | |
Whatevers Cool With Me (Ep, Blanco Y Negro, 1991) | ||
Green Mind (Blanco Y Negro, 1991) | 7 | |
Where You Been (Blanco Y Negro, 1993) | 6,5 | |
Quest (Ep, Blanco Y Negro,1993) | ||
Without A Sound (Blanco Y Negro, 1994) | 6 | |
Take A Run At The Sun (Ep, Blanco Y Negro, 1997) | ||
I'm Insane (Ep, Blanco Y Negro, 1997) | ||
Hand It Over (Blanco Y Negro, 1997) | 6 | |
Ear-Bleeding Country: The Best Of Dinosaur Jr (antologia, Rhino, 2001) | ||
Beyond (Fat Possum, 2007) | 6,5 | |
Farm (Jagjaguwar, 2009) | 7,5 | |
I Bet On Sky(Jagjaguwar, 2012) | 7 | |
Give A Glimpse Of What Yer Not (Jagjaguwar, 2016) | 7 | |
Sweep It Into Space (Jagjaguwar, 2021) | 7 | |
J MASCIS + THE FOG | ||
More Light (Ultimatum, 2000) | ||
Free So Free (Ultimatum, 2002) | ||
J MASCIS | ||
Several Shades of Why (Sub Pop, 2011) | 7 | |
Tied To a Star (Sub Pop, 2014) | 7 | |
Elastic Days (Sub Pop, 2018) | 6,5 | |
What Do We Do Now (Sub Pop, 2024) | 7 |
Sito ufficiale | |
Sito non ufficiale | |
Testi | |
VIDEO | |
Little Fury Things (da You're Living All Over Me) | |
Freak Scene (da Bug) | |
Just Like Heaven (da Fossils) | |
Whatever's Cool With Me (da Whatever's Cool With Me - Single) | |
Out There (da Where You Been) | |
This Is All I Came To Do (da Beyond) |