Un lungo viaggio, giunto ormai alla settima tappa solista, quello di Kurt Vile. Un viaggio di ricerca musicale e introspettiva verso le “deep, dark depths of my soul tone”, menzionate nel 2013 in chiusura all’ottimo “Wakin On A Pretty Daze”. Un viaggio affrontato con la consueta slackness, il piglio distaccato e rilassato di chi non ha tempo e voglia di fermarsi a riflettere, ma pur sempre legato a doppio nodo con una profonda malinconia, che come un’ombra pare trascinarsi.
Se Kurt Vile non esistesse, dovrebbero inventarlo, perché ha il dono di fregarsene. Lui non è un gran bel vedere, ma se ne frega, e quindi eccolo lì, coi capelli lunghi e vaporosi manco fosse il 1991 a incorniciargli il volto, su quasi ogni copertina dei suoi Lp, fino a questa, splendidamente rétro, di “Bottle It In”. Il rocker di Philadelphia ha già da tempo trovato la sua formula, presunta vincente, la stessa che si ripresenta nel nuovo album, seguito di quel “Lotta Sea Lice” scritto lo scorso anno in tandem con l’amica Courtney Barnett. Gli assonnati blues di Kurt Vile nascono da radici folk, crescono come solidi arbusti Americana e finiscono quasi sempre col fiorire rigogliosi in un’onirica e stordente bruma psichedelica, che ne avvolge il corpo, le voci e l’armonia, fino a dissolversi; e riemergere lenta dalle stesse roots, col brano seguente, di nuovo. Tutte le sue canzoni, anche quelle più meste, riescono a sprigionare un’energia di dolce nostalgia da cui farsi cullare, in cui è piacevole sguazzare, perdersi.
I riff di Kurt, a volte, sono lunghissimi: ripetono lo stesso arpeggio all’infinito, aggiungendo di ripetizione in ripetizione – e nemmeno sempre - qualche particolare, allungando così le canzoni a durate titaniche, e con loro i dischi. “Bottle It In” segna da questo punto di vista un ulteriore record, raggiungendo la notevole durata di un’ora e venti. E questa volta, è bene dirlo subito, una sforbiciata decisa sarebbe stata provvidenziale.
Kurt sembra in preda a un’ineluttabile logorrea emozionale, e se delle volte la lunghezza è funzionale a costruire la giusta tensione (i cupi assoli di “Check Baby”, le dure bordate di rumore di “Skinny Mini”) o a rilassare l’atmosfera (il singolo “Bassackwards”), delle altre è semplicemente ridondante e non aggiunge nulla al solito arpeggio metallico. Per non parlare di quando sono interi pezzi, seppur brevi, a risultare superflui, come accade con l’innocua cover di “Rollin With The Flow”.
Se non siamo propriamente di fronte a una stasi creativa, quella che emerge è comunque una sorta di pigrizia, e ancor prima un disinteresse nel cercare nuovi orizzonti espressivi. L’iniziale “Loading Zones”, che riprende il medesimo riff del brano conclusivo del precedente “B’lieve I’m Goin' Down” (“Wild Imagination”), può anche essere interpretata come un voluto gancio con il passato recente, ma finisce col risultare una scelta abbastanza avvilente. E dal disco precedente viene pure riciclato il vivace banjo di “I’m An Outlaw”, trapiantato qui in “Come Again”. Lo spettro del déjà vu, poi, aleggia anche su “Hysteria” (molto vicina a certe dolcezze rumoristiche degli esordi) e su almeno un paio di altri brani, per non parlare di tutto l’arsenale di tastiere polverose e fugaci interventi elettronici, ormai più uno stereotipo che un valore aggiunto.
A conti fatti c’è però anche del buono in “Bottle It In”, che vede il Nostro riuscire ad aggiungere nuovi instant-classic al suo repertorio. Un esempio è dato da “Bassackwards”, dove Vile va sul sicurissimo, procedendo sicuro in una lunga camminata su di un folk-rock trasognato, o da “Check Baby”, ballata di trattenuta gloria, pugni in tasca e una manciata di riff da brividi facili lungo la schiena. Sanno come restare, poi, la dolce “Mutinies” e “Cold Was The Wind”, con tutto quel delicato sferruzzare e cigolare degli strumenti. Ed è da proprio queste piccole gemme che si comprende il vero peccato veniale di questo album. Forse Kurt dovrebbe capire che a volte la sintesi è importante, e che quando si è in vena di confessioni, eccedere in particolari può ammazzare l’attenzione di chi si trova ad ascoltare. Ma non andremo di certo a dirglielo, ché tanto Kurt se ne sbatte.
L’arte di fregarsene, dicevamo: dono o condanna?
17/10/2018