Pause e qualche scazzo interno a parte, i Dinosaur Jr. sono un'istituzione indie-rock attiva da ormai oltre sette lustri. Pur non essendo particolarmente inclini a colpi di scena e mutazioni repentine di suono o attitudine, Mascis, Barlow e Murph sono riusciti a mantenere sempre alte l'attenzione e le attese dei loro fan, un nutrito blocco ormai delle proporzioni e della fedeltà di un culto, grazie a una qualità di scrittura costantemente alta e a un sound unico, guidato ovviamente dalla chitarra funambolica di J, ormai una sorta di "ultimo dei guitar heroes".
Ritardato di un annetto o giù di lì causa Covid-19 e licenziato dalla sempreverde Jagjaguwar, "Sweep It Into Space" è il dodicesimo disco del trio. Non che di solito non lo siano, ma questa volta le aspettative erano decisamente alte, grazie all'annuncio della partecipazione al disco da parte di Kurt Vile, che ne ha curato in parte la produzione, nonché suonato diverse parti di chitarra. La premessa era particolarmente stuzzicante non soltanto per le indubbie qualità di Vile, altro gigante contemporaneo (sebbene meno navigato) della chitarra, quanto per il suo debito stilistico nei confronti della band e in particolare di Mascis.
La delusione, se tale possiamo definirla, che "Sweep It Into Space" porta con sé riguarda proprio l'apporto del chitarrista di Philly, che manca di farsi segnante. Difatti, se si eccettuano le finiture del singolo "I Ran Away" e l'andamento più svaccato del solito e tipico dell'andazzo slacker di Vile, la partecipazione risulta piuttosto impalpabile.
Sempre subordinato a Mascis nel ruolo di scrittore dei testi dei dinosauri, Barlow firma questa volta due soli brani, cantandone peró il più bello, una "The Garden" traboccante malinconia e con un ritornello trascinante ma lieve che ricorda i miracoli di "Green Mind".
Rispetto ad altri dischi del passato post-reunion dei Dinosaur Jr., questo ultimo è forse il più gentile e sussurrato, con l'impatto melodico a prevalere sugli arrembaggi chitarristici. Un minimo sindacale di numeri à-la Mascis non può però mancare e così in "I Met The Stones" sono mazzate quasi metal e in "I Expect It Always" si derapa e cambia passo come in un rally.
A parte la succitata "Garden", brano di bellezza davvero immediata e adamantina, il disco non vive di episodi folgoranti, preferendo invece fluire con continua piacevolezza. La formula più unica che rara della band aiuta certamente a far drizzare le antenne degli ascoltatori ad ogni uscita, ma va detto che questi tre vecchi freak di Amherst, pur quando come questa volta non osano troppo, il risultato lo portano sempre a casa.
24/04/2021