Se fosse un cibo sarebbe chili con carne, piccante fino a bruciare la bocca. Se fosse un fiore non sarebbe solo, ma sarebbe un mazzo di fiori, anzi un intero orto botanico. Se fosse un profumo, sarebbe l’odore del mare dopo una tempesta. Se fosse un tempo atmosferico, sarebbe un ciclone che spazza via ogni cosa al suo passaggio. Essendo un gruppo rock sono i Dinosaur Jr..
La cifra principale di tutto il concerto è infatti che, per essere un trio, il gruppo fa un rumore dannato come neanche una band di cinque o sei elementi, ma fortunatamente si tratta di rumore decisamente ben organizzato.
Sul palco si presentano J. Mascis che sembra un Johnny Winter ben pasciuto, con i capelli lunghissimi completamente sbiancati fino a essere candidi, Lou Barlow in forma quasi smagliante dotato di occhiali da vista di ordinanza e un meraviglioso basso Rickenbaker che farebbe l’invidia di ogni amante dello strumento, e Murph completamente calvo dietro la sua batteria nera.
Il pubblico è numeroso e con età media decisamente bassa, sintomo che il gruppo, pur dalla sua posizione di “culto” mai commercialmente di successo, ha saputo lasciare il segno anche sulle nuove generazioni che non li hanno conosciuti “in diretta”.
Dei primi tre pezzi si fa subito notare il volume altissimo e l’esuberanza del trio. C’è da carburare e mentre la sezione ritmica parte subito forte ed è quella che si fa notare di più, Murph macina come un forsennato, ma con notevole precisione, Barlow tormenta il basso distorto con pennate quasi a strappare le corde, Mascis è anche un po’ troppo scazzone nei suoi assoli strabordanti. Il pubblico è in ogni caso decisamente ben disposto. Poi dopo “In A Jar” arriva “Little Fury Things” e all’annuncio dello stesso leader chitarrista che scatena l’entusiasmo anche J. Mascis ritrova una forma smagliante. Una versione appunto furiosa e tiratissima di questo classico dell’ indie-rock che da sola varrebbe il prezzo del biglietto e l’avventuroso viaggio in mezzo ai monti e ai boschi incontaminati per arrivare sino ad Urbino che meriterebbe un racconto a parte.
Si susseguono a folate canzoni dai primi tre album, densi di pathos quasi hardcore e di ricordi di un epoca d’oro; non verrà eseguito nulla al di fuori di questi e dei singoli - riuniti solo sulla raccolta “Fossils” - usciti quando ancora i tre erano insieme. Ogni nuova canzone è da “Little Fury Things” in poi la dimostrazione di un’alchimia tra i tre davvero notevole dopo tutti questi anni (oltre tredici) di distacco. Macis non dà mostra dei difetti che erano stati segnalati da vecchie recensioni di sue esibizioni live, ossia esagerazione nell’uso di effetti che lo facevano somigliare più a un ballerino di tip tap intento a saltellare sulla sua pedaliera, preferendo giustamente concentrarsi in assoli al fulmicotone, strabordanti e stillanti sudore, che spaziano da Hendryx ad Angus Young. Meravigliosi quelli su “No Bones”, una delle più belle canzoni del trio, e “Raisans”, suonata come il più efferato gruppo grindcore non riuscirebbe a fare. Dei Napalm Death romantici, insomma.
Barlow, decisamente scatenato e dotato di notevole presenza scenica, si alterna al canto con Mascis più spesso di quanto si creda, oppure nei cori lancia urla fino a sgolarsi. Mascis stesso è meno incline a quelle stonature vezzose in stile Neil Young (o Robert Smith) di come appare su disco. Dal primo album omonimo vengono suonate “Forget The Swan”, dolcissima nonostante la rumorosità, e “Repulsion”, mentre “You’re Living All Over Me” e “Bug” vengono eseguite praticamente per intero. Il lato folk di molte composizioni, come ad esempio “Pond Song”, resta necessariamente un po’ in ombra in questa dimensione live ultraruomorista, ma è abbondantemente compensato dalla intensità delle esecuzioni, molto apprezzata dai presenti.
La band riesce persino a far ballare tutti, con l’accoppiata finale prima dei bis: la celeberrima cover di “Just Like Heaven” (con Barlow che nel ritornello lancia degli “Youuuu…” che sembrano uscire direttamente dalla bocca dell’inferno) e ovviamente l’attesissima “Freak Scene”, altro classico indie e grande prova di pop rumoroso.
I bis sono “Chunks”, altra cover uscita solo come singolo, e la intensissima “Bulbs Of Passion”, ancora dal primo lavoro, e sono un’altra volta suonati dai tre come una manica di metallari hardcore assatanati.
L’impressione finale del sottoscritto è di stupore positivo, ovvero che se tutte le reunion - per denaro o meno - fossero come questa, ben vengano le reunion.