In principio era la polvere
I destini di Ed Simons e Tom Rowlands si incrociano nelle aule della facoltà di storia dell’Università di Manchester. Siamo verso la fine degli anni Ottanta e i due ragazzi provenienti dalla periferia di Londra, forti di una smodata curiosità per la musica tutta, decidono di mescolare subito le proprie passioni, innamorati folli come sono del groove, nell’accezione più stretta del termine, dell’hip-hop transoceanico, del 2 tone ska, dell’elettronica teutonica e finanche di certo shoegaze. Insomma, due pivelli con il senso del gusto attratti non poco dal ritmo e da ogni sua possibile trasfigurazione.
E così, dopo tutta una serie di esercitazioni, smanettamenti d'ogni sorta e perfezionamenti stilistici, i futuri chimici esordiscono nei locali più cool di Londra nei primi anni Novanta, dove imperversa la drum'n'bass, la cyber-techno e altri surrogati dell’elettronica da intrattenimento. I pionieri del big beat iniziano a sperimentare gradualmente la loro formula, remixando praticamente di tutto, da Eric B. & Rakim ai My Bloody Valantine. Corrono gli anni del Madchester sound, e di lì a poco Simons e Rowlands saranno chiamati anche al di là dell’Atlantico, di spalla a mostri sacri come Orbital e Underworld, facendosi semplicemente chiamare Dust Brothers. Sono proprio quei primi dj set nei festival elettronici di mezzo mondo ad attirare prepotentemente l’attenzione degli addetti ai lavori. La miscela di techno, punk, acid house, elettro-rock e inserti etnici proposta dai due, desta interesse, e la fama dei fratelli Dust cresce nel giro di pochissimi mesi.
E’ il 1995, e Tome e Ed devono improvvisamente accantonare l’idea di chiamarsi Dust Brothers, dato che l’omonimia con il duo originale era stata oggetto fin dal principio di pesanti lamentele e minacce legali. Nello stesso periodo, il mondo intero entra finalmente in contatto con quella che sarà una delle formule elettroniche più entusiasmanti e influenti degli anni Novanta, ma non solo.
E’ l’anno di Exit Planet Dust, disco d’esordio dei chimici, pubblicato per la Freestyle Dust/Junior Boy's Own. Un esordio che irrompe subito in nona posizione nella classifiche inglesi, e vede la collaborazione di talenti del calibro di Beth Orton, semplicemente perfetta nell’interpretare le pachidermiche pulsazioni di "Alive Alone", traccia posta saggiamente in chiusura dell’album e calibrata in piena sintonia bristoliana.
Ma la fuga dal pianeta Dust e dal Madchester degli anni universitari prende forma nel cyber-groove dell’introduttiva “Leave Home”, risaltata dal basso sporchissimo di John Jennings, in supporto al beat, divenuto poi nel tempo simbolo incontrastato del marchio Chemical. Il disco è un’onda anomala di grovigli hip-hop privati di ph (“In Dust We Trust“), anfetaminiche digressioni in rave appeal, spesso munite di sfiancanti stop&go, tanto esoteriche, quanto figlie di certa industrial-punk-dance, all’epoca decisamente in voga nei sobborghi londinesi (“Three Little Birdies Down Beats”, “Song To The Siren” e “Fuck Up Beats”). Una dichiarazione di intenti, quella dei chimici, capace di scuotere e invadere le piste del vecchio continente.
L'incessante sirena androide di “Chemical Beats” e la suadente trasfigurazione chilly di “Chico’s Groove”, piazzate così, nel bel mezzo della faccenda, riassumono appieno l‘idea del “suono” parcheggiata per anni nella mente di Ed Simons. Tim Burgees (The Charlatans) presta le proprie corde vocali nel singolo di sfondamento “Life Is Sweet”, ed è subito disco d’oro.
E’ il preludio al successo interplanetario degli anni seguenti.
Nel 1997 esce Dig Your Own Hole, il secondo lavoro del duo inglese. Siamo nell'occhio del ciclone della rivoluzione elettronica, del big beat e della cultura rave anni 90. La copertina nero pece con un profilo di ragazza è una delle più celebri nella storia della dance music, l'equivalente di una "Abbey Road" o di una "Sticky Fingers". Solo che qua siamo in territori acidi, violenti e danzerecci.
Il riff di chitarra che introduce "Block Rockin' Beats", tutt'ora pezzo-manifesto dei Chemical Brothers, fa salire i battiti a mille prima della cavalcata ruvida e energica che marchia a fuoco il pezzo. La title track accelera addirittura il passo, con un breakbeat suburbano, notturno e claustrofobico molto vicino ai Prodigy ("The Fat Of The Land" usciva proprio quell'anno). "Elektrobank" non è da meno e spinge a mille: ballare questi pezzi è come immergersi in un mantra antico come il mondo, in una trance acida che trascina verso il basso. Come scavarsi la propria fossa.
"Piku" e "Setting Sun" fanno tirare il fiato, immergendo la mente in viaggi lontani ed esotici, una sorta di avventura lisergica nei bassifondi di Londra, tra masala e kebab. "Setting Sun", tra l'altro, inaugura una collaborazione di grande successo con Noel Gallagher, che riflette perfettamente la considerazione che il duo chimico aveva nel giro musicale inglese del periodo.
Il resto del disco preme di nuovo sull'acceleratore e tra intense degressioni techno ("Don't Stop The Rock"), brevi scorci psichedelici ("Lost In The K-Hole" e "Where Do I Begin" con la splendida voce di Beth Orton), si arriva alla lunga cavalcata finale: "Private Psychedelic Reel", una sorta di suite ethno-breakbeat di quasi dieci minuti.
Dig Your Own Hole è il disco che ha reso i Chemical Brothers una vera e propria istituzione nell'ambito della musica dance anni 90: come un treno perennemente in corsa, che taglia in due una ideale metropoli sotteranea post-moderna, tra reminescenze etniche e momenti di pura psichedelia moderna.
Un'anfetaminica resa
Siamo nel bel mezzo del 1999. Il nuovo millennio è alle porte. I fratelli chimici ormai sono delle vere e proprie star internazionali, richiestissime a ogni angolo del pianeta Terra. Le classifiche non aspettano altro che il terzo disco della premiata ditta Simons-Rowlands, e negli Orinoco Studios si alternano un po’ tutti: da Noel Gallagher, co-scrittore di “Let Forever Be”, fino ad arrivare a Bernard Sumner dei New Order e Bobby Gillespie dei Primal Scream: il primo in supporto vocale nel singolo di maggior successo del duo, “Out Of Control”, e il secondo in cabina di regia; passando per Jonathan Donahue (Mercury Rev), piano, voce e chitarra in “Dream On”, e la celebre musa dei Mazzy Star, Hope Sandoval, semplicemente commovente in “Asleep From Day”.
Con queste premesse, Surrender non poteva non essere l’apice della carriera dei Chemical Brothers, non solo per le preziosissime collaborazioni attuate, spesso pretese esplicitamente dagli stessi ospiti (vedi Gallagher), entusiasmati dalla creatura dei due produttori inglesi, ma soprattutto per l’ineccepibile qualità e carica dei singoli momenti, mai così eterogenei nella conformazione melodica, ritmica e sonora.
Surrender mescola praticamente di tutto. “Hey Boy, Hey Girl” è mera taurina dancey, cafona all’occorrenza, e ha la potenzialità di stendere anche il più cocciuto dei toreri discotecari. “Orange Wedge” è broken-beat sintetizzato con inserti analogici schizzati, sparsi a casaccio tra una cadenza smorzata e l’altra. In netta contrapposizione, troviamo “Under The Influence” e “Dream On”. La prima è un attacco improvviso di nevrosi techno, e segue a pennello l’intro robotico di “Music: Response” (scritta niente popò di meno che da Missy Elliott). La seconda, invece, chiude i battenti inscenando un vero e proprio crescendo pop, favolistico e fluttuante in ogni sua melodica diramazione.
Il successo di Surrender è talmente importante che le aspettative per il nuovo lavoro sono altissime. Nel 2002 esce il quarto disco in studio del duo inglese: Come With Us.
E' un ideale viaggio "sintetico" tra le rotte della musica più cool dell'ultimo decennio, un crossover di techno e funk, psichedelia e acid house, danceraffinata e battito tribale (come nell'ancestrale "It Began In Afrika"). Rispetto al disco precedente, è più accentuata la componente dance-house, come conferma la title track d'apertura: un miscuglio di groove e breakbeat che riecheggia in qualche modo quella "Block Rockin' Beats" che li lanciò alla ribalta mondiale. "Denmark" è una esercitazione di stile in chiave disco-music. "Star Guitar" cela, dietro l'apparente freddezza, una trama ritmica assai elaborata. "My Elastic Eye" combina loop dal sapore cinematografico e percussioni ossessive.
Ma, in quest'oceano d'elettronica purissima, affiorano anche le chitarre - come in "The State We're In", una ballata psichedelica arricchita dalla voce di Beth Orton - e perfino le percussioni brasiliane, come in "Pioneer Skies" (che inizia con una bizzarra rievocazione del rock progressive fine anni Sessanta).
In conclusione, Tom Rowlands e Ed Simons proseguono la loro trasformazione da dj a compositori d'elettronica underground, mantenendosi nell'invidiabile posizione di essere allo stesso tempo band di successo mondiale e fenomeno di culto per gli adepti della sperimentazione elettronica.
Nonostante ciò, Come With Us non viene accolto con entusiasmo dalla critica, che si aspettava un disco sulla scia di Surrender.
Dopo la parziale delusione di Come With Us, sia il pubblico che gli esperti del settore nutrono molte speranze riguardo il nuovo lavoro, la cui uscita è annunciata per gennaio 2005. Push The Button, però, non aggiunge nulla alla biografia dei due alchimisti, anzi rimane molto lontano dai loro lavori migliori, parecchio al di sotto di Exit Planet Dust. Il duo cerca di mantenersi vivo e al passo coi tempi; riesce nell'impresa, ad esempio, in "Galvanize", che costituisce la prima traccia e il primo singolo dell'album: Simons e Rowlands si confermano insuperabili spugne in grado di assorbire i principali fenomeni musicali "modaioli" del pianeta, accoppiando il gettonatissimo hip-hop con i sapori etnici di un sample da odalisca, e in tempi in cui si sognano viaggi verso i confini del mondo, ognuno di noi ritrova un pezzo di se stesso e dei propri percorsi in costruzioni del genere; il rapping è prestato da Q-Tip degli A Tribe Called Quest. Momenti hip-hop ritornano più avanti anche in "Left Right", dove già dal titolo possiamo prevedere come anche i "fratellini chimici" abbiano intenzioni seriose e intendano dire la loro anche in campo politico. Eppure, scorrendo le tracce di Push The Button si ha la costante sensazione di deja vu e la certezza che fra cinque anni nessuno vi consiglierà questo fra i migliori dischi dei Chemical.
Altro handicap è che sovente manca la fluidità: molte canzoni vengono esasperatamente prolungate il più possibile, come se superare i cinque minuti debba essere un must; ma allora il remix (di cui il duo è campione riconosciuto) a cosa serve? Non mancano le solite collaborazioni illustri: non c'è stavolta Noel Gallagher, ma incontriamo i Mercury Rev in "Close Your Eyes" che, in tutta sincerità, sfiora il tedio, e Tim Burgees dei Charlatans in "The Boxer" e l'unione fra le due forze produce un risultato meno interessante dei due addendi presi singolarmente.
Tanti punti di domanda, ma anche qualche raro momento piacevole, come l'ulteriore momento simil-etnico di "Hold Tight London", con belle percussioni tribal-house e l'intervento vocale di Anna Lynne Williams dei Trespassers William. In "Believe" molti scopriranno la voce di Kele Okereke dei Bloc Party. Altra impennata, ma siamo quasi a fine disco, in "Marvo Ging", col simpatico sample di una slide guitar; ma purtroppo anche qui l'idea viene stiracchiata un po' troppo per le lunghe, prendendosi nello sviluppo della traccia. "Surface To Air", infine, è la loro tipica cavalcata electro con beat sostenuti alternati a pause atmosferiche, e tutto l'insegnamento trasmesso dai New Order.
Push The Button è un disco che va sparato al massimo, un disco pensato per il dancefloor, e in quest'ottica va ascoltato, digerito e giudicato.
Nel 2007 è il momento di We Are The Night; nonostante i Chemical Brothers siano molto attivi dal punto di vista live e continuino a incendiare molti dj-set in giro per il globo, sulla dimensione disco non riescono a tornare ai fasti del passato. O meglio: ci provano, uscendo con un triste revival autocelebrativo. Il grave problema, all'infuori della mancanza effettiva di nuove idee, è che l'unica idea rimasta sola come la particella di sodio della nota pubblicità è racchiusa in un arco di tempo che va dal 1990 al 1999, perché ogni canzone a eccezione del singolo "Do It Again", che viene surclassato dai due remix contenuti nell'Ep, sembra essere stata concepita e suonata almeno otto anni fa. Ci può essere stile nel fare del revival, anche nel ripetere farsescamente sé stessi, ma così no, così è esporsi al pubblico ludibrio incondizionatamente. Perché si può anche silenziosamente ammettere di essersi ubriacati abbastanza senza continuare a molestare l'utenza del locale, e purtroppo l'impressione che se ne ricava è proprio quella di un'insistenza fuori dal dovuto, una sorta di inerzia inarrestabile. Un non saper fare altro.
Per dovere di cronaca, "A Modern Midnight Conversation" è l'unica altra canzone che tenta di salvarsi, riscoprendo i fasti di certi suoni à-la Dig Your Own Hole, ma fuori tempo massimo perché non si riesce più a rappresentare un bel niente: né foto di una scena nascente, né di un pubblico sempre più vasto che si avvicina al mondo della cultura club\rave. Il problema dei fratelli chimici è proprio il distacco da tutto ciò che accade attorno, nonostante le presunte collaborazioni lussuose, rinchiusi nel proprio studiolo accampato sui fasti, ingrigiti ormai, del passato. Se We Are The Night riflettesse la realtà, sarebbe un messaggio inquietante, perché in questa notte non si vedrebbe nulla, si navigherebbe a vista in un disco osceno.
Quando i due sembrano ormai indirizzati verso una carriera passiva e in preda all'inerzia dei primi, grandi lavori, ecco che arriva il colpo di coda del vecchio animale troppo orgoglioso per dichiararsi vinto. Further (2010), il ritorno del duo inglese, sfrutta la retorica del big beat per trasformarsi, portandola a un livello diverso, da un lato più attuale e dall'altro più maturo.
Che i nostri ci tengano a dimostrare di non essere ormai dei tardoni si nota fin da subito: "Snow"-"Escape Velocity" è un uno-due di alta classe che prima addolcisce e poi stordisce, con un crescendo di synthche esplode in un beat quadrato e tremendamente efficace. E i colpi sotto la cintura non mancano, come "Horse Power", pura potenza harsh-techno d'annata. Tra electro-pop sofisticato e nebuloso ("Dissolve") e melodie killer su tappeti solidi fatti di beat e sudore (il tris finale con "Swoon" protagonista indiscusso), i Chemical Brothers riprendono con vigore e mestiere in mano la propria carriera, segnando un importante giro di boa a livello stilistico e compositivo.
Nel 2015 è la volta di Born In The Echoes, album che rilancia in maniera definitiva la carriera ed il culto dei gemellini chimici. Se questo lavoro ha un difetto, risiede nel peccato veniale di cadere nella riproposizione di spunti già ben sviluppati e collaudati in passato (leggi una “Go” con Q-Tip alla voce, lo stesso di “Galvanize”). Born In The Echoes è un disco di canzoni, e di duetti non tutti riuscitissimi, fra i quali almeno un paio decisamente altisonanti (e furbetti): Beck canta sulla conclusiva “Wide Open”, carina, ma da un’accoppiata tanto strombazzata è lecito pretendere di più. Va decisamente meglio con St. Vincent, protagonista (con voce e chitarra) su “Under Neon Lights”, costruita come se la Madonna che sognava di essere Bjork (quella di “Bedtime Stories”), si fondesse con i clangori world dei Goat: bell’incrocio, dall’esito tutt’altro che forzato. Ma ecco le note più liete, che si stagliano nella parte centrale, quella che funziona meglio, certificando il definitivo riscatto dei Chemical Brothers: è il tratto che va da “EML Ritual” (con il featuring di Ali Love), a “Reflexion”, passando per “I’ll See You There” (la più “rock” del lotto) e “Just Bang”. E’ in questi venti minuti che Tom Rowlands e Ed Simons si confermano assoluti maestri quando decidono di lavorare per accumuli progressivi, lasciando da parte il formato pop-song per concentrarsi su accenti più smaccatamente da hyper trendy club culture.
Dopo cotanta bellezza, ovvio che brani come “Taste Of Honey” (con Stephanie Dosen degli Snowbird e Chenai Zinyuku) e l’atmosferica “Radiate” (dove appare il quotatissimo sassofonista canadese Colin Stetson) abbiano il sapore del riempitivo, e che la title track (con Cate Le Bon) vivacchi nella totale impossibilità di aggiungere ulteriori speziature ad un menù comunque ricco.
Le Electronic Battle Weapon
Electronic Battle Weapon, imparato l'inglese sciolto il mistero: armi per la battaglia elettronica. Parallelamente ai singoli e agli album, i due alfieri mondiali del suono rave rilasciano dj tools devastanti pubblicati esclusivamente su gomma.
Dalla prima sciabolata con "It Doesn't Matter" sul lato A e "Don't Stop The Rock" come b-side, le Electronic Battle Weapon sono diventate un culto per chiunque volesse suonare la merce più aggressiva dei Chemical Brothers. Si tratta infatti di versioni estese o semplicemente più rudi di ciò che spesso finirà nel disco a seguire.
Prendete la numero tre: "Under The Influence", su Surrender la conosciamo in una forma arrangiata e pettinata ma provate il calcio nei denti pubblicato nel 1998 per la Freetyle Dust o se preferite suonate ai vostri amici mi-piacciono-i-chemicals-ma-conosco-solo-HeyBoyHeyBirl la EBW numero sei: lasciate che "Hoops" diventi un take acido supersonico e faccia diventare biondi i mori e glabri i baffuti.
Ma Simons e Rowlands raggiungono nel 2004 l'estasi suprema pubblicando il numero sette della collezione: Chemical Brothers call ravers. Stomp in quattro schiacciato al suolo, arpeggio rapido e secco, analogicità sparsa e sample vocale che recita "where are all my children now?", se prima ogni arma veniva pubblicata e conseguentemente rinominata per apparire su disco questa volta la catena si spezza, "Electronic Battle Weapon 7" era e così rimane, per gli amici sarà conosciuta come "Acid Children" e mai nome potrebbe essere più adeguato.
Otto, nove e dieci: "Saturate" su We Are The Night, b-side del singolo "The Salmon Dance", e per completare la decina, l'ultima in ordine cronologico che chiude un ciclo di armi non solo per la battaglia ma per la distruzione elettronica regalando, anche a chi nel 2010 conosce solo mp3 e file sharing, il catalogo completo delle Ebw su cd a completamento dell'antologia Brotherhood.
Quindi ora arrivate in fondo alla lettura, alzate il culo dalla sedia e impegnatevi nel gesto antico di raggiungere un negozio di dischi, chiedete al commesso antipatico una qualsiasi di queste pubblicazioni pirata. E poi pentitevi.
I fratelli chimici rientrano in carreggiata tre anni dopo la sbornia electro di Born In The Echoes, un disco dominato dall’assenza, in parte assodata, di un effetto sorpresa che ormai appartiene sempre più solo al glorioso passato. Tuttavia, se il tempo scorre inesorabile anche per due pionieri come Ed Simons e Tom Rowlands, il consolidamento di spunti sonori, divenuti album per album sempre più precisi e stuzzicanti, pone in evidenza una pretesa a monte quantomeno logica e doverosa, scevra da richieste d’innovazione francamente inopportune nei riguardi di chi ha dato una scossa emblematica all’elettronica popular di fine secolo scorso, di chi ha scagliato in aria gli ultimi fuochi d’artificio di un cultura rave oggi ispiratrice assoluta per intere flotte di giovanissimi producer.
Al di là di tutto quello che ha significato il movimento big beat, I Chemical Brothers nel 2019 sembrano in palla come due ragazzini. No Geography è la prova provata che la classe ha la capacità di rimanere intatta specialmente laddove l’ambizione rimane nello scrigno di alcune preziosissime idee che i due musicisti hanno sempre gelosamente (e abilmente) custodito. Un segreto che viene replicato alla fine di un decennio che per l’elettronica ha segnato sicuramente un momento di grande riflessione, vedendo terminare alcune istanze e mode che parevano destinate ad un futuro luminoso (vedi alla voce dubstep). Il linguaggio musicale, però, si rinnova perpetuamente, e in un’epoca segnata dall’intersezione spasmodica di più elementi e fruizioni spesso diversissime, stavolta pare quasi che Rowlands e Simons abbiano guardato intensamente al proprio passato con uno slancio moderno – tipico dell’innovatore – ma con un marcato piglio “clubber”, a dire il vero un po’ sparito dai loro radar nelle ultime e più recenti prove. E in questa sorta di concept-album che vuole cancellare i confini geografici e pertanto le barriere ideologiche e culturali (il riferimento alla Brexit e ai muri che separano USA e Messico), i Chemical Brothers spingono l’acceleratore al massimo verso un ensemble di suoni che abbraccia al contempo italo disco, plunderphonics e le onnipresenti house e techno, abbandonando esplicitamente la tendenza più in auge al momento nell’industria musicale: l’hip hop. E basta schiacciare il tasto play la prima volta per potersi accorgere dell’ampio ventaglio sonoro a disposizione delle nostre orecchie. L’iniziale “Eve of Destruction” contiene un sample vocale della mitica “Weekend” di Class Action (“Maybe I'll find a friend to spend the weekend”) e genera un climax sfrenato, l’immaginifico incipit di un party tenuto su qualche isola deserta magari alternandosi ai controlli con il miglior Norman Cook.
Proseguendo esterrefatti il nostro giro su quella che potremmo definire una giostra rilucidata e ritrovata, “Free Yourself” (primo singolo del lotto) mostra una deriva electro-house più “tradizionalista”, così come in “MAH” (Mad as hell) prende palesemente forma il loro brutale arsenale di suoni (ciò che accade al minuto 2:05 meriterebbe uno speciale a parte): una lezione perfetta sulla storia della musica elettronica che trascina in un tunnel che va dall’acid-techno alla musica house, il tutto senza perdere il senso della danza moderna, di quel folgore che da quarant’anni annebbia le malinconie e ci fa muovere verso sponde indefinite della vita. Lidi francamente gioiosi, accoglienti, densi di quella necessità di rincontrarsi a dovere dopo tutto il tempo perduto e quello vissuto al meglio. Praterie della memoria che non conoscono geografie e nelle quali è ancora magico ritrovarsi, nel solco di un miracolo a suo modo ancora vivido.
Nel 2023 i chimici ripartono con il decimo disco in studio, For That Beautiful Feeling, mossi dal desiderio di evacuare confini, rimarcando una smania ai controlli che è ancora danzereccia, ma in cui sale in cattedra anche un approccio etico a monte che nasce dalla volontà di esercitare una sorta di caos programmato attraverso poche battute che elogiano sia la gioia di vivere che una sfuggente armonia.
L’avvio, d’altronde, è dei più energici. “Live Again” con Halo Moud alla voce è una dichiarazione d’intenti. Una meravigliosa scappatoia verso il cielo, gli arcobaleni, la spiaggia, le cose belle, insomma la vita. E’ il primo pezzo del lotto e il terzo singolo di lancio dell’album, preceduto da “No Reason” e “The Darkness That You Fear”: la prima dal piglio post-punk, dato il sample di “Courts of War”, open track dell’Ep “Flesh As Property” pubblicato nel 1980 dal duo londinese Second Layer, spiaccicato a oltranza poco dopo il primo minuto, e la seconda a emulare una risacca figurata, con tanto di melodia dream-pop e cambio di passo balearico alla Todd Terje.
Momenti favolistici con stacchetti chitarristici alla Chic ribaltati da giochini elettrici esaltano il balzo deciso di “Fountains”. Mentre c’è troppa maniera in “Goodbye”, che sembra ripescata dal campionario big beat della primissima ora e rismaltata giusto per l’occasione. Stresso dicasi di “Weight” che pare invece una collaborazione immaginaria e fuori tempo massimo con Fatboy Slim. Tra alti e bassi, spunta in “Skipping Like A Stone” anche l’amico Beck, con cui i chimici avevano già collaborato nel singolo” Wide Open” del 2015. L’intesa è buona e il percorso è comune alle altre tracce del disco, tra pause trasognate atte a rimarcare l’urgenza di evadere da ogni cosa, alla ricerca di territori inediti utili a salvarsi e salvare (“I wanna go / Where no one goes / I don’t want to let you go / I don’t want to lose your love”).
Il big beat dei tempi d’oro torna poi nell’esplosiva “Feels Like I Am Dreaming” che, c’è da giurarci, tornerà utilissima dal vivo, soprattutto per la sua vena ossessiva, psichedelica, dunque stroboscopica. In contrapposizione l’eterea chiosa della title track, ancora una volta con la voce cristallina della francese Halo Maud a sottintendere in loop un sentimento di estasi totale.
For That Beautiful Feeling è un buon ritorno, al netto di qualche passaggio un po’ stucchevole. Certo, manca la bombetta di turno che è lecito aspettarsi da due giganti come Tom Rowlands ed Ed Simons. C’è però il divertimento. Puro e semplice. Che è una cosa rara di questi tempi. Oltre che gradita.
Contributi di Claudio Fabretti ("Come With Us") e Claudio Lancia ("Push The Button", "Born In The Echoes"), Matteo Trapasso ("No Geography")
Exit Planet Dust (Virgin, 1995) | ||
Dig Your Own Hole (Virgin, 1997) | ||
Surrender (Virgin, 1999) | ||
Come With Us (Virgin, 2002) | ||
Singles 93-03 (antologia, Virgin, 2003) | ||
Push The Button (Virgin, 2005) | ||
We Are The Night (Virgin, 2007) | ||
Brotherhood (antologia, Virgin, 2008) | ||
Further (Virgin, 2010) | ||
Born In The Echoes (Virgin, 2015) | ||
No Geography(Virgin, 2019) | ||
For That Beautiful Feeling (Virgin, 2023) |
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Life Is Sweet (videoclip da Exit Planet Dust, 1995) | |
Block Rockin' Beats(videoclip da Dig Your Own Hole, 1997) | |
Setting Sun (videoclip da Dig Your Own Hole, 1997) | |
Hey Boy, Hey Girl (videoclip da Surrender, 1999) | |
Galvanize (videoclip da Push The Button, 2005) | |
Do It Again (videoclip da We Are The Night, 2007) |