Goat

Goat

Nuovi orizzonti psych-world

Inafferrabili e misteriosi, i Goat sono un collettivo originario di un piccolo paesino svedese abitato da seicento anime, si mostrano sempre celati dietro maschere e vestiti folkloristici, e si sono posti come missione quella di sdoganare negli anni Dieci un’incendiaria commistione di psichedelia e world music, aggiornando l’afro-beat ai giorni nostri e rilanciandolo in nuove infinite colorazioni. “World Music” e “Commune”, i loro primi due album, sono già dei cult assoluti

di Claudio Lancia

Korpilombolo è un paesello abitato da meno di seicento anime, situato nell’estremo nord svedese, quasi al confine con la Finlandia, conosciuto nei paesi scandinavi più che altro perché Agnetha Faltskog (una delle biondissime degli Abba) lo citò in un singolo solista del 1972: “Tio mil kvar till Korpilombolo”. Gli abitanti del luogo, secondo una radicata e suggestiva leggenda, furono iniziati in tempi antichi alle pratiche voodoo da una strega viaggiatrice utilizzando codici misteriosi estratti da vecchie scritture. Riti rimasti vitali per anni, fin quando un giorno un gruppo di crociati punì con la messa al rogo gli eretici e i loro volumi.
L’estetica e l’originale simbolismo sono stati offerti su un piatto d’argento ai Goat, giovane collettivo originario proprio della regione, che sfrutta appieno l’immaginario di una società misteriosa dedita a pratiche divinatorie, richiamando come propria ragione sociale il simbolo pagano della capra. Non ci è dato sapere nulla circa le generalità dei componenti della band, che dall’origine compiono una scelta che li caratterizzerà fortemente nell’immaginario collettivo: mantenere un rigoroso anonimato e presentarsi in pubblico indossando maschere e costumi a dir poco folkloristici, circondandosi di un impenetrabile alone di mistero.

Lo stile entro il quale i Goat si muovono è una psichedelia fortemente contaminata, che arriva a trasmutarsi in sembianze imprevedibili. Quello con la musica “etnica” è l’incrocio più gettonato, attraverso la puntigliosa ricerca di esotismi innestati su ascendenze rock e funk, tutto fortemente incentrato sul concetto di ripetizione. Ne deriva un sound ipnotico, un kraut spirituale votato al viaggio, che si fonde con aromi provenienti da tradizioni di mondi geograficamente distanti dalla natia Svezia. Un meltin’ pop che nell’era del web unisce istantaneamente popolazioni variegate, rinvigorito attraverso forti dosi di istinto e passionalità, in grado di dare una scossa alla fredda ascendenza del motorik teutonico.
A mettere sotto contratto i Goat ci pensa la Rocket Recordings, etichetta inglese super specializzata proprio nell’area del modernariato psichedelico. Nel 2012 viene pubblicato il primo singolo, “Goathead”, un brano basato su riff di chitarra semplici e aggressivi, su ritmiche selvagge e liriche elementari, che sfociano in un finale caratterizzato da una fresca melodia acustica di matrice folk. “Gothead” fa subito centro, e anticipa di poco il primo album del collettivo.

Il 20 agosto dello stesso anno arriva puntuale l’esordio, World Music: sin dal titolo una vera e propria dichiarazione d’intenti, perfettamente mantenuta dai contenuti dell’album. Secondo alcuni nulla di trascendentale o rivoluzionario, ma un bignami di commistioni già sfruttate in passato, che a ben vedere si rifanno persino a fulgidi esempi risalenti agli anni 60, secondo altri il disco può invece essere considerato come punto di riferimento assoluto del nuovo afro-beat, senza sfigurare al confronto con altri classici di epoche precedenti.
Se il songwriting (pur ben funzionando innestato sulla vivacità e l’impatto della performance) non si distingue per particolari raffinatezze e viene concepito più che altro per l’effetto musicale che ne deriva, sono soprattutto le soluzioni sonore a destare interesse, con al centro dell’attenzione l’Africa ed il Medio Oriente, subito introdotti dalle prime note dell’iniziale “Diarabi”. Da lì la giostra parte ospitando le soluzioni più variegate: “Run To Your Mama” è un efficace psych-rock, “Golden Dawn” punta verso un classic rock abrasivo lasciato volteggiare a ritmi serrati, la simil- wave “Let It Bleed” è un trionfo di fiati irresistibili. Ma c’è anche il funk alla Talking Heads di “Disco Fever”, che in parte ricorda l’India, in parte certi sperimentalismi alla “My Life In The Bush Of Ghosts” e in parte regala bordate di organo che rimandano a Doors e Pink Floyd. Le chitarre frippiane di “Goatman”, la lunga digressione lisergica finale di “Det som aldrig forandras” e le soluzioni più minimal (con voce, chitarre e poco altro) di “Goatlord” (forse il brano meno interessante del lotto) completano un menù che mantiene sempre altissimo il livello di fantasia e creatività, adagiandosi su costruzioni accattivanti che solo a tratti possono risultare acerbe o poco solide. Nonostante qualche piccola sbavatura, World Music si afferma così come esordio assolutamente riuscito, accolto ovunque da recensioni entusiastiche.

Ovviamente il clamore attorno alla band è enorme, iniziano i tour e le partecipazioni a festival di primaria importanza, quali Glastonbury, All Tomorrow’s Party e Coachella.
I Goat dal vivo si presentano come collettivo allargato e danno vita a sfrenati happening iper energetici, ben fotografati da Live Ballroom Ritual, pubblicato nel 2013, che ripropone i pezzi dell’esordio, spesso opportunamente dilatati, con l’aggiunta di alcune composizioni rimaste più nell’ombra, come la b-side di “Goatman”, “The Sun The Moon”, e le due tracce comparse solo su singolo “Stonegoat” e “Dreambuilding”.
Nella versione live le canzoni diventano ancora più vorticose, diluendosi spesso in un formato free-form che non smette mai di stupire e coinvolgere.

A questo punto i Goat sono uno dei nomi più caldi della nuova scena musicale europea, l’attesa per l’opera seconda è spasmodica e viene soddisfatta il 26 settembre 2014, quando tutti possono finalmente scoprire i contenuti di Commune. Il nuovo lavoro prosegue il felice sabba ancestrale di “World Music” estrinsecandosi in sontuose impalcature dove i “suoni dal mondo” vengono incastonati in preziose architetture concretamente acid rock. Anche questa volta, pur risultando attenuato l’effetto sorpresa, si raggiungono vette ardite, come nella conclusiva “Gathering Of Ancient Tribes” (attenzione: se prendete le iniziali delle quattro parole del titolo otterrete il nome del gruppo), sapiente associazione chimica fra meccanismi basati sulla ripetizione e chitarre lisergiche, sulla quale si innesta un cantato assolutamente efficace. Il medesimo approccio ritorna nell’ancora più selvaggia “Bondye”, la principale divinità voodoo.
In alcuni momenti emerge la determinante influenza di suoni indiani e mediorientali (“Hide From The Sun”, ma i chitarroni ci sono sempre, ed in questo caso anche un bel closing acustico), in altri è la componente rock ad essere messa in primo piano (“Goatslaves” e “Goatchild”, ma i riferimenti etnici sono sempre dietro l’angolo). Altrove si disegnano bozzetti altamente evocativi, dove il tema del viaggio resta sempre centrale (“To Travel The Path Unknown”), puntando maggiormente sulla sintesi ed il basso minutaggio rispetto al passato (“The Light Within”). Ma in questo percorso a ritroso nella tracklist, per inserire Commune nella lista dei migliori dischi dell’anno basterebbero le due tracce d’apertura, esemplari rappresentanti del duplice volto della band: “Talk To God” è il giusto trait d’union con l’esordio, un brano che dispiega le ali su una calda psichedelia venata di esotismi ipnotici, “Words” è una delle migliori composizioni in assoluto dei Goat, dove ritmi tribali e sei corde riempite di fuzz prendono il centro della scena in maniera chiara e diretta. L’eclettismo diviene così l’obiettivo massimo di una musicalità in grado di miscelare con naturalezza tradizione e modernità. Commune in tutto contiene poco più di mezzora di musica, ma è quanto basta per lasciar nuovamente schiudere davanti a noi un piccolo grande mondo da scoprire, respirare, vivere, e (perché no?) contribuire a diffondere.

Il 7 ottobre 2016 viene pubblicato il terzo disco: Requiem. In tredici tracce e oltre un’ora di coloratissima musica, il collettivo svedese spazza via qualsiasi eventuale residua perplessità circa la reale consistenza artistica del gruppo. L’idea centrale resta saldissima: concentrare influenze stilistiche trasversali, fondere in maniera naturale tradizione e modernità, scrivere dei sabba ancestrali densi di suoni mutuati dal mondo, sintetizzandoli in chiave altamente lisergica. I flauti andini che subentrano ai rumori della natura in “Union Of Sun And Moon” sono soltanto l’introduzione ad una nuova magica avventura, che attraverso la rilassante danza dal profumo esotico “I Sing In Silence” conduce per mano verso la prima traccia chiave del disco, l’esplosione ritmica di “Temple Rhythms”, un raga psichedelico che risulta una delle tre colonne portanti della ricca tracklist. Le altre due sono “Goatband” - irresistibile torrenziale mini jam strumentale per percussioni, chitarre e sassofono - e l’acidissima “Goatfuzz”, altro simbolo della personalissima miscela costruita per demolire qualsiasi barriera stilistica, e creare un’oasi sonora cosmopolita.
Requiem è un viaggio intorno al mondo in grado di riunire linguaggi, condensare contaminazioni, trasmutarsi in scenari imprevedibili, arricchirsi ora di ascendenze funk, ora di intermittenze rock (vedi il solo nella seconda parte di "Alarms"), ora di ipnosi kraut, schiudendosi persino in un finale declinato new-age (“Ubuntu”). I ragazzi arrivano dal nord della Svezia ma sanno rappresentare tutti i Sud del mondo, rileggendoli attraverso il gusto occidentale: c’è l’India (“Try My Robe” suona molto Bollywood), l’Africa, il Sud America, i canti muezzin innestati su tramonti messicani (“Psychedelic Lover”) e tantissimo altro. Permane un’idea forte, un disegno caparbio, solo apparentemente in controtendenza rispetto ai nostri tempi: la dimostrazione di come si possa riuscire a preservare la propria (anonima) identità anche nell’era dei social network. I Goat sanno mischiare le carte senza far mai apparire il risultato finale fuori contesto o eccessivamente pretenzioso. I detrattori saranno pronti a sostenere come tutto sommato non abbiano inventato nulla, ma la musica del nuovo millennio, in una comunità sempre più interraziale, non può prescindere da un approccio musicale così variegato, che non tarderà a generare proseliti. In quest’ottica Requiem si impone come un disco prezioso, potente, per molti versi indispensabile, che centrifuga linguaggi, popolazioni, aromi, riunendo tutto assieme, magicamente, come in pochi hanno fatto prima d’ora. Riuscire a darne dimostrazione per la terza volta consecutiva era tutt’altro che scontato.

A ottobre del 2018 uno dei misteriosi membri dei Goat esordisce in proprio con un progetto denominato Goatman. Rhythms, edito sempre su Rocket Recordings, contiene sei tracce, inaugurate dall’incontenibile groove scandito da “Jaam Ak Salam”, una coloratissima festa afrobeat. “Hum Bebass Nahin” si avvicina al desert-blues dei Tinariwen, con tanto di solo in modalità wah-wah, mentre i cori femminili in “Carry The Load” e il flow di “Aduna” richiamano in maniera forte la musica etiope degli anni 70. Goatman suona quasi tutti gli strumenti, lasciando le parti cantate a una serie di ospiti, fra i quali la cantante senegalese Seydi Mandoza e la svedese Amanda Werne, conosciuta in patria con il nome d’arte Slowgold.

A cinque anni da "Requiem", titolo non certo rassicurante, e a tre dall'esordio del progetto Goatman, la pubblicazione a inizio settembre 2021 “soltanto” di una retrospettiva non dissolve i timori circa la fine dell’esperienza Goat. Headsoup è infatti una raccolta di tredici fra b-side, inediti e singoli finora non inclusi in alcun album - anche se alcuni piuttosto noti ai fan del misterioso collettivo svedese - che meritavano di ottenere una seconda e più visibile opportunità.
L’organizzazione del materiale è in rigoroso ordine cronologico: si parte quindi con il ripescaggio di tre spumeggianti tracce che risalgono al primissimo periodo della band, quello dell’acclamato esordio “World Music”. “The Sun The Moon” era nel singolo di debutto “Goatman”, inizio 2012, mentre “Stonegoat” e “Dreambuilding” rappresentarono i due lati di un sette pollici pubblicato a giugno del 2013. All’epoca “Commune” appartengono invece “Dig My Grave” (edita su Sub Pop a settembre 2014) e l’accoppiata “It’s Time For Fun” / “Relax” (agosto 2015).
“The Snake Of Addis Abeba” era la b-side di “I Sing In Silence”, maggio 2016, “Union Of Mind And Soul” venne diffusa a settembre dello stesso anno, così come “Goatfizz”, versione alternativa di “Goatfuzz”, resa disponibile in tiratura limitata per il Record Store Day 2017; “Let It Burn“ e “Friday, Pt. 1“ risalgono invece a maggio del 2018. A fine corsa spazio per gli inediti “Fill My Mouth” (dal bel tiro funk) e “Queen Of The Underground”, un eccitante bagno lisergico arricchito da due torridi assoli nel finale.

A ottobre del 2022 arriva il quarto album di inediti del misterioso collettivo, Oh Death, Mistici e coloratissimi, i nuovi dieci capitoli della saga Goat esprimono il consolidato mix sonoro che trova nelle orge funkadeliche di “Soon You Die” e “Under No Nation” i frangenti più esaltanti. Il lato del prisma dedicato alle trasmutazioni folk viene invece perfezionato attraverso le atmosfere molto “Led Zeppelin III” che permeano “Chukua Pesa”, in pratica la loro “Gallows Pole”, e la danza tribale "Apegoat".
Per il resto è un’appassionante rincorsa fra afrobeat ("Remind Yourself"), jazz free form (ad esempio nel finale di "Goatmilk") e desert blues (“Blow The Horns”) con il groove sempre ben posizionato al centro della scena (“Do The Dance”). Nel piatto della bilancia questa volta troviamo più ritmo e meno jam attitude, per un prodotto che mantiene gli elevati standard qualitativi ai quali i Goat ci hanno oramai abituati.

A conferma di questo approccio, nel 2023 i Goat diffondono Seu Sangue, un Ep di venti minuti contenente quattro tracce rivisitate più un inedito. Fra i protagonisti del lavoro di reworking figurano Sonic Boom degli Spaceman 3, che si è occupato di mettere le mani su “Soon You Die” adornandola di coloriture early seventies, e Thor Harris degli Swans, il quale aggiunge ulteriori percussioni sulle orge funkadeliche di “Under The Nation”, una tribal party song remixata per l’occasione da John Mark Lapham dei MIEN.
Marlene Ribeiro (musicista brasiliana già con i GNOD, nonché collaboratrice di Valentina Magaletti) rivisita in chiave molto personale (privandolo delle chitarre) l’ancestrale raga afrobeat “Remind Yourself”, il groove iper tribale di “Do The Dance” strizza l’occhiolino a vaghe rifrazioni industrial, l’inedita “Seu Sangue” rappresenta invece il solo momento acoustic-psych, naturalisticamente introspettivo, unica deviazione sul tema della racolta.

Sempre nel 2023, a metà ottobre, è la volta di Medicine, che conferma il rinnovato stato di grazia del collettivo svedese. Alcune canzoni sono estratte da lunghe jam session: è il caso di “Vakna” e dell’iniziale “Impermanence And Death”, perfette istantanee di questo tipo d’approccio. “Raised By Hills” e “Tripping In The Graveyard” sono ritmati folk elettro-acustici, il mantra “I Became The Unemployment Office” immerge nel kraut i Brian Jonestown Massacre più lisergici, “TSOD” trae ispirazione dai Beatles zona “Sgt. Pepper’s”, versante Harrison.
Altre sfaccettature del loro coloratissimo prisma sono rappresentate dalla più meditativa “You’ll Be Allright” e dal delirio iper fuzz di “Join The Resistance”, cover di un pezzo pubblicato pochi prima dai connazionali GÅS, band nella quale graviterebbero - secondo indiscrezioni mai del tutto confermate - proprio alcuni membri dei Goat.

Passa un altro anno ed il successivo Goat (pubblicato nell'ottobre del 2024) conferma un suono solido, che affonda le proprie radici nella world music e nella psichedelia. Groove e afro-funk, chitarre e wah-wah, energia ed ipnosi, visioni ancestrali e richiami etnici, ma anche qualche piacevole scarto laterale, come l’incedere hip-hop di “Zombie”, il desert blues di “All Is One”, i sentori jazz della strumentale “Fool’s Journey” (con quei flauti che di recente vanno tanto di moda), il freak vibe californiano della doorsiana (occhio alle tastierine che ne caratterizzano la seconda metà) “Frisco Beaver”.
Ad aprire le danze provvede "One More Death" architettata su riff dall’impronta anni Settanta, un luogo dove per magia si incontrano Led Zeppelin, Funkadelic, TinariwenMdou Moctar, l’hard rock ritratto come un'oasi fra le dune del Sahara. Il tripudio iper ritmico, ed a tratti sonico, di “Ourboros” chiude il nuovo sabba pagano dei Goat, una cerimonia tribale che riesce anche in questa occasione nell’intento di trasferire nella contemporaneità tradizioni folkloristiche provenienti da – più o meno fantasiosi - mondi remoti.

Fra riti voodoo, psichedelia ancestrale, mantra afrocentrici, danze andine, chitarre fuzz e derive jazz, i Goat hanno raggiunto l’obiettivo di aggiornare il concetto stesso di world music, dimostrando di possedere una visione con pochi uguali al mondo. Un plauso va riconosciuto alla Rocket Recordings che, anche credendo in loro, è riuscita ad essere apprezzata e riconosciuta come una delle label di riferimento del movimento psichedelico sviluppatosi negli ultimi anni.

Goat

Discografia

GOAT
World Music(Rocket, 2012)7,5
Live Ballroom Ritual(Rocket, 2013)6,5
Commune(Rocket, 2014)7
Requiem (Rocket, 2016)7
Headsoup (outtakes, Rocket, 2021)7,5
Oh Death (Rocket, 2022)7
Seu Sangue (Ep, Rocket, 2023)6,5
Medicine (Rocket, 2023)7
Goat (2024)7
GOATMAN
Rhythms (Rocket, 2018)6,5
Pietra miliare
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