L’“uroboro” è un simbolo presente in molte culture antiche, rappresenta un serpente (oppure un drago, secondo i casi) nell’atto di mordersi – o inghiottirsi - la coda, formando così un’immagine circolare apparentemente senza fine, a prima vista immobile, ma in realtà in perenne movimento. L’immagine veniva utilizzata per rappresentare l’energia universale che si consuma e si rinnova di continuo, oppure l’infinito, l’immortalità, l’eterno avvicendarsi della vita e della morte. Un tema, quello della morte, da sempre ricorrente nell’immaginario dei Goat, il misterioso collettivo svedese che dagli esordi ad oggi è riuscito a mantenere il più stretto riserbo riguardo i nomi e i volti (rigorosamente coperti da maschere) dei musicisti che ne fanno parte. Non è un caso che due anni dopo un disco intitolato “Oh Death!”, la traccia che apre il sesto album sia “One More Death”, partenza a base di riff dall’impronta anni Settanta, un luogo dove per magia si incontrano Led Zeppelin, Funkadelic, Tinariwen e Mdou Moctar, l’hard-rock ritratto come un'oasi fra le dune del Sahara.
“Goat” non porta in dotazione particolari novità stilistiche, ma conferma un suono solido, che affonda le proprie radici nella world music e nella psichedelia. Groove e afro-funk, chitarre e wah-wah, energia e ipnosi, visioni ancestrali e richiami etnici, ma anche qualche piacevole scarto laterale, come l’incedere hip-hop di “Zombie”, il desert blues di “All Is One”, i sentori jazz della strumentale “Fool’s Journey” (con quei flauti che di recente vanno tanto di moda), il freak vibe californiano della doorsiana (occhio alle tastierine che ne caratterizzano la seconda metà) “Frisco Beaver”.
Il tripudio iper-ritmico, e a tratti sonico, di “Ourboros” chiude il nuovo sabba pagano dei Goat, una cerimonia tribale che riesce anche in questa occasione nell’intento di trasferire nella contemporaneità tradizioni folkloristiche provenienti da – più o meno fantasiosi - mondi remoti.
20/10/2024