Quarto album di inediti per il misterioso collettivo svedese, che prosegue il singolare percorso di immersione nelle ancestrali atmosfere tribali intrise di psichedelia provenienti da mondi “altri”.
Maschere e vestiti folkloristici continuano a mantenere celata la reale identità dei membri del gruppo, e con “Oh Death” (tema ricorrente quello della morte nei loro lavori) anche gli aspetti musicali non registrano particolari novità. Giusto un certo rinvigorimento della parte ritmica e un uso più intenso delle chitarre elettriche rispetto al più bucolico “Requiem”, risalente ormai a sei anni fa. Nel mezzo, il più lungo periodo di pausa mai preso dalla band, interrotto soltanto dalla pubblicazione di “Headsoup” nel 2002, una raccolta di rarità, e da “Rhythms” (2018), il trascurabile esordio solista di Goatman, uno dei componenti della formazione scandinava.
Mistici e coloratissimi, questi nuovi dieci capitoli della saga Goat esprimono il consolidato mix sonoro che trova nelle orge funkadeliche di “Soon You Die” e “Under No Nation” i frangenti più esaltanti. Il lato del prisma dedicato alle trasmutazioni folk viene perfezionato attraverso le atmosfere molto “Led Zeppelin III” che permeano “Chukua Pesa”, in pratica la loro “Gallows Pole”, e la danza tribale "Apegoat".
Per il resto è un’appassionante rincorsa fra afrobeat ("Remind Yourself"), jazz free form (ad esempio, nel finale di "Goatmilk") e desert-blues (“Blow The Horns”) con il groove sempre ben posizionato al centro della scena (“Do The Dance”).
Nel piatto della bilancia questa volta troviamo più ritmo e meno jam attitude, per un prodotto che mantiene gli elevati standard qualitativi ai quali i Goat ci hanno ormai abituati.
27/10/2022