Un impenetrabile alone di mistero continua a regnare sulle identità dei Goat, il collettivo scandinavo che ha scelto di mostrarsi al mondo privo di nomi e volti, perennemente celato dietro maschere dal sapore primitivo. Non più un singolare ensemble folkloristico, ma una delle migliori chiavi per riassumere in maniera compiuta e definitiva lo stato dell’arte della world music contemporanea. “Requiem”, il loro terzo album, nello spazio di tredici tracce e oltre un’ora di coloratissima musica spazza via qualsiasi perplessità circa la reale consistenza artistica del gruppo. L’idea centrale resta saldissima: concentrare influenze stilistiche trasversali, fondere in maniera naturale tradizione e modernità, scrivere sabba ancestrali densi di suoni mutuati dal mondo, sintetizzandoli in chiave altamente lisergica.
I flauti andini che subentrano ai rumori della natura in “Union Of Sun And Moon” sono soltanto l’introduzione a una nuova magica avventura, che attraverso la rilassante danza dal profumo esotico “I Sing In Silence” conduce per mano verso la prima traccia-chiave del disco, l’esplosione ritmica di “Temple Rhythms”, un raga psichedelico che risulta una delle tre colonne portanti della ricca tracklist.
Le altre due sono “Goatband” - irresistibile torrenziale mini-jam strumentale per percussioni, chitarre e sassofono - e l’acidissima “Goatfuzz”, altro simbolo della personalissima miscela costruita per demolire qualsiasi barriera stilistica, e creare un’oasi sonora cosmopolita.
“Requiem” è un viaggio intorno al mondo in grado di riunire linguaggi, condensare contaminazioni, trasmutarsi in scenari imprevedibili, arricchirsi ora di ascendenze funk, ora di intermittenze rock (vedi il solo nella seconda parte di "Alarms"), ora di ipnosi kraut, schiudendosi persino in un finale declinato new age (“Ubuntu”).
I ragazzi arrivano dal Nord della Svezia ma sanno rappresentare tutti i Sud del mondo, rileggendoli attraverso il gusto occidentale: c’è l’India (“Try My Robe” suona molto Bollywood), l’Africa, il Sud America, i canti muezzin innestati su tramonti messicani (“Psychedelic Lover”) e tantissimo altro.
E’ la migliore attualizzazione di quello che fu il lavoro svolto da Brian Eno e David Byrne nel seminale “My Life In The Bush Of Ghosts”, ma anche da Paul Simon in “Graceland” (ascoltate con attenzione “Trouble In The Street”) o da Peter Gabriel con le produzioni marchiate Real World. Dietro permane un’idea forte, un disegno caparbio, solo apparentemente in controtendenza rispetto ai nostri tempi: la dimostrazione di come si possa riuscire a preservare la propria (anonima) identità anche nell’era dei social network e del Grande Fratello.
I Goat sanno mischiare le carte senza far mai apparire il risultato finale fuori contesto o eccessivamente pretenzioso. I detrattori saranno pronti a sostenere come tutto sommato non abbiano inventato nulla, ma la musica del nuovo millennio, in una comunità sempre più interrazziale, non può prescindere da un approccio musicale così variegato, che non tarderà a generare proseliti.
In quest’ottica “Requiem” si impone come un disco prezioso, potente, per molti versi indispensabile, che centrifuga linguaggi, popolazioni, aromi, riunendo tutto assieme, magicamente, come in pochi hanno fatto prima d’ora. Riuscire a darne dimostrazione per la terza volta consecutiva era tutt’altro che scontato.
04/10/2016