Ci sono due cose che mi vengono in mente quando ascolto i Goat: i Tinariwen e lo psych-rock dei tardi anni 60. Eppure il fantasioso collettivo non proviene né geograficamente dalle oasi del Sahara, mete dei tuareg in perenne nomadismo, né temporalmente dalla summer of love di californiana memoria.
Questi musicisti mascherati, che celano le rispettive identità e basano la propria estetica sul mistero, arrivano dal freddo polare di uno sperduto paesello di 600 anime posto nella zona settentrionale della Svezia, Korpilombolo, conosciuto nei paesi scandinavi più che altro perché Agnetha Faltskog (una delle biondissime degli ABBA) lo citò in un singolo solista del 1972: “Tio mil kvar till Korpilombolo”.
“Commune” prosegue il felice sabba ancestrale di “World Music” (raramente titolo è stato più programmatico), il loro apprezzato esordio di due anni fa, risultato di sontuose impalcature dove i “suoni dal mondo” vengono incastonati in preziose architetture ad altissimo contenuto lisergico.
Anche questa volta, pur risultando attenuato l’effetto sorpresa, si raggiungono vette ardite, come nella conclusiva “Gathering Of Ancient Tribes” (attenzione: se prendete le iniziali delle quattro parole del titolo otterrete il nome del gruppo), sapiente associazione chimica fra meccanismi basati sulla ripetizione e chitarre lisergiche, sulla quale si innesta un cantato assolutamente efficace. Il medesimo approccio ritorna nell’ancora più selvaggia “Bondye”, la principale divinità voodoo.
In alcuni momenti emerge la determinante influenza di suoni indiani e mediorientali (“Hide From The Sun”, ma i chitarroni ci sono sempre, e in questo caso anche un bel closing acustico), in altri è la componente rock a essere messa in primo piano (“Goatslaves” e “Goatchild”, ma i riferimenti etnici sono sempre dietro l’angolo)
Altrove si disegnano bozzetti altamente evocativi, dove il tema del viaggio resta sempre centrale (“To Travel The Path Unknown”), puntando maggiormente sulla sintesi ed il basso minutaggio rispetto al passato (“The Light Within”).
Ma in questo percorso a ritroso nella tracklist, per inserire “Commune” nella lista dei migliori dischi dell’anno basterebbero le due tracce d’apertura, esemplari rappresentanti del duplice volto della band: “Talk To God” è il giusto trait d’union con l’esordio, un brano che dispiega le ali su una calda psichedelia venata di esotismi ipnotici, “Words” è una delle migliori composizioni in assoluto dei Goat, dove ritmi tribali e sei corde riempite di fuzz prendono il centro della scena in maniera chiara e diretta. L’eclettismo diviene così l’obiettivo massimo di una musicalità in grado di miscelare con naturalezza tradizione e modernità.
“Commune” in tutto contiene poco più di mezz'ora di musica, ma è quanto basta per lasciar schiudere davanti a noi un piccolo grande mondo da scoprire, respirare, vivere, e (perché no?) contribuire a diffondere.
02/10/2014