George Clinton nasce il 22 luglio del 1941 a Kannapolis, un paesone situato all’interno dell’area metropolitana di Charlotte, la città più popolosa del North Carolina. Dopo essersi trasferito al seguito della famiglia nel New Jersey, a Plainfield (sorta di quartiere dormitorio di New York), George in età adolescenziale apprende il mestiere di barbiere, divenendo presto comproprietario di un barber shop che in breve tempo assurge al ruolo di riferimento per cantanti e musicisti locali. Proprio il retro del negozio, a metà degli anni Cinquanta, è il quartier generale della prima band che Clinton cerca di assemblare, con lo scopo di intrattenere i clienti del negozio. Si tratta di un gruppo doo-wop, genere che identifica una diramazione del rhythm & blues diffusa fra gli adolescenti afro-americani nelle grandi città degli Stati Uniti negli anni Quaranta dello scorso secolo, basato su armonie vocali, linee melodiche, strutture molto semplici e strumentazione ridotta all’osso, se non inesistente, perfetta quindi per esibirsi in uno spazio angusto, ispirandosi a formazioni di successo, quali i giovanissimi Frankie Lymon & The Teenagers. Clinton identifica il neonato progetto con il nome The Parliaments, mutuandolo da una marca di sigarette prodotta dalla Philip Morris: è soltanto l’inizio di una quella che diventerà una storia memorabile.
Durante gli anni Sessanta, Clinton si divide fra il ruolo di songwriter, attivo dietro le quinte nello staff di compositori della Motown, e il tentativo di raggiungere il successo con i Parliaments, che si stabilizzano intorno a una line-up composta da cinque cantanti: oltre al leader, ne fanno parte Ray Davis, Fuzzy Haskins, Calvin Simon e Grady Thomas. Clinton, che contribuisce alla scrittura di piccole hit altrui del circuito black, quasi ogni settimana si reca a Detroit, dove si occupa di produrre singoli per diverse etichette che si muovono in ambito soul, entrando così in contatto con un gran numero di musicisti talentuosi. Nel 1967 riesce finalmente a piazzare una hit con i Parliaments, Si tratta di “(I Wanna) Testify”, che si arrampica fino alla terza piazza delle chart r&b, consentendo al gruppo di allestire un tour arruolando una backing band composta da cinque musicisti: Billy “Bass” Nelson (basso), Eddie Hazel (chitarra solista), Tawl Ross (chitarra), Tiki Fulwood (batteria) e Mickey Atkins (tastiere).
La label per la quale viene incisa “(I Wanna) Testify”, la Revilot Records, finisce però presto in bancarotta, e Clinton a causa di cavilli contrattuali si ritrova impossibilitato a utilizzare il nome Parliaments. Per poter continuare a incidere con altre etichette, escogita una scorciatoia: modificare la ragione sociale, trasformando il nome della sua creatura in Funkadelic, parola ottenuta dalla fusione dei termini “funk” e “psychedelic”, stratagemma che palesa in maniera evidente l’intenzione di mettere a punto una rilevante svolta stilistica: abbandonare il doo-wop per tentare la strada di un rock psichedelico dai lineamenti black-funk. Nelle intenzioni iniziali, i Funkadelic individuano i cinque musicisti arruolati come backing band dei Parliaments, mentre i cinque cantanti fondatori risultano come ospiti.
Parallelamente, assodato il fallimento della Revilot Records, a partire dal 1970 Clinton riesuma il nome Parliaments, mutandolo nella forma al singolare Parliament (sempre a causa dei soliti cavilli), e mantenendo la line-up precedente, backing band compresa. Nella nuova versione, i Parliament sono destinati a diventare un collettivo soul-funk arricchito dalla presenza dei fiati, mentre ai Funkadelic spetta il compito di esplorare il versante più psych-rock. Nell’ingegnoso disegno di Clinton, Funkadelic e Parliament avrebbero operato per due etichette differenti, sviluppando due diversi approcci alla materia funk. E’ l’inizio di una clamorosa e avvincente avventura che definirà i connotati della moderna musica funk, prima abbeverandosi alla fonte del miglior rock psichedelico di matrice sixties, poi contaminandosi in maniera ancora più netta con il jazz e la tradizione black. La materia “psych-soul” era già stata affrontata in passato, ma mai con tanta forza, e mai con la visione avanguardistica di Clinton e compagnia, che si distinguono da molti altri musicisti a loro contemporanei per il ricorso a un look stravagante, da alieni extraterrestri, che in parte anticipa travestimenti e lustrini del glam. Da Prince agli Earth Wind & Fire, da Michael Jackson a mezza scena disco, saranno in molti ad abbeverarsi dalla fonte delle loro geniali trovate, sia musicali che estetiche. Ma andiamo con ordine…
Febbraio 1970: Funkadelic
Nel febbraio del 1970, giusto all’alba del nuovo decennio, su Westbound Records arriva Funkadelic, l’omonimo esordio, nel quale la neonata band si pone domande programmatiche, cercando di dare delle risposte: “Mommy, What’s A Funkadelic?” e “What Is Soul” sono due titoli perfetti per argomentare sulle innovazioni sonore che Clinton e soci si prefiggono di delineare. Nella prima traccia, scelta, come scoppiettante incipit del disco, la band non ha timore di divertirsi a giocare per quasi dieci minuti con il riff di “Whole Lotta Love”, incisa dai Led Zeppelin appena sette mesi prima: sono soltanto i primi assaggi delle ancora parzialmente espresse qualità del giovane Eddie Hazel, un virtuoso destinato ad assicurarsi un posto nella ristretta cerchia dei chitarristi più iconici di sempre.
Il disco non entra nella Top 100 di Billboard, dovrà accontentarsi della posizione 126, ma raggiungerà un’onorevole ottava piazza nella classifica degli album soul. Funkadelic sarà poi di gran lunga rivalutato nel tempo, e considerato uno dei migliori album della band. Nella reissue del 2005, alle sette tracce originali vengono aggiunte alternative version e B-side mai incluse in alcun album del collettivo. Fra questi bonus, l’unica vera curiosità emerge però giusto dall’ascolto di “Can’t Shake It Loose” e “As Good As I Can Feel” (incisa dalle Supremes nel 1968, con Clinton co-autore), registrate nel 1969, nel primissimo periodo di attività del gruppo, dalle quali si evincono ancora forti le radici più tradizionalmente soul.
Uno dei tratti distintivi di Funkadelic è per diversi tratti la struttura in lunghe jam, durante le quali si lascia andare a briglie sciolte l’estro dei musicisti: una prima – già decisamente a fuoco - versione di quello che diventerà uno dei modus operandi del collettivo, ovverosia una sorta di orgia musicale free form, che troverà piena sublimazione nella trasposizione live. Clinton e soci dimostrano di aver studiato alla perfezione la strada maestra tracciata da James Brown, Jimi Hendrix e Sly Stone per rendersi pionieri non soltanto di un suono, ma di un vero e proprio atteggiamento complessivo dai tratti fortemente innovativi, che nel tempo farà scuola.
Funkadelic fissa le basi di una nuova grammatica della musica nera, che getta le fondamenta sulle quali costruire un nuovo impero del funk. Una miscela esplosiva in grado di sparigliare le carte in territori funk e psych (“I Got A Thing, You Got A Thing, Everybody Got A Thing”, il super trip di otto minuti “Good Old Music”), di trasfigurare e modernizzare il blues (“Music For My Mother” e ancor più la torrida “Qualify And Satisfy”), di centrifugare nel futuro quel che resta delle alternanze vocali del doo-wop, come accade nel singolo “I’ll Bet You”, ripreso di lì a poco dai bambini prodigio Jackson 5 nel loro album “ABC”. I Beastie Boys anni dopo ne utilizzeranno un sample per “Car Thief” (dall’indispensabile “Paul ‘s Boutique”, 1989), mentre i Red Hot Chili Peppers eseguiranno spesso dal vivo il riff di “Mommy, What’s A Funkadelic?” con sovrapposte alcune porzioni del testo di “What Is Soul” (una versione apparirà come B-side del singolo del 2002 “By The Way”).
Luglio 1970: Free Your Mind… And Your Ass Will Follow
Erano tempi nei quali gli album si producevano a spron battuto: appena sei mesi ed ecco che il secondo atto dei Funkadelic è già cristallizzato, reclamizzato all’epoca attraverso uno spot che lo annunciava come “un nuovo concetto di soul music”. Sin dal titolo, e dalla torrenziale title track, posta in apertura per fissare quella che si pone come una vera e propria dichiarazione d’intenti, il lavoro appare come una versione hard soul dell’apertura delle porte della percezione profetizzata pochi anni prima dai Doors. Ma all’intellettuale seriosità di Jim Morrison si sostituisce uno humour di derivazione zappiana, che caratterizzerà sempre molti dei testi dei Funkadelic. Un umorismo che nel tempo saprà mostrarsi tagliente, irriverente, a volte persino macabro, alternato a una spiritualità (sottolineata da armonie vocali che richiamano il gospel) dai tratti inequivocabilmente lisergici, ben foraggiata da droghe delle più svariate tipologie (si narra che questo disco sia stato concepito e registrato interamente sotto acido), unita alla disponibilità da parte di Clinton ad accogliere nel collettivo musicisti fortemente condizionati dall’uso smodato di sostanze stupefacenti, come nel caso dei fratelli Collins, che ebbero invece vita difficile alla corte dell’intransigente James Brown.
Free Your Mind… And Your Ass Will Follow completa e perfeziona i contenuti dell’esordio, contribuendo a delineare alla perfezione l’estetica della band, che si conferma, in maniera ancor più compiuta, fautrice di una rivoluzione soul senza precedenti, pioniera di uno stile inconfondibile, in grado di palesare spettacolari intuizioni. Tracce come “Friday Night, Augst 14th”, “Funky Dollar Bill” e “I Wanna Know It’s Good For You” sono sovraccariche di blackness, ma rinforzate da tonnellate di elettricità, psichedelia e interferenze rock, come mai era accaduto prima.
La black consciousness sbandierata nei dischi di Sly & The Family Stone trova una nuova, inedita forza, la lezione di Hendrix diviene megafono per uno stile mai udito, i semi sparsi da James Brown fioriscono tanto quanto nemmeno lui stesso avrebbe mai potuto immaginare. Si apre così un nuovo eccitante capitolo per la musica nera, che sarà in grado di ispirare in futuro una moltitudine di artisti, grazie all’estro di musicisti mai meno che straordinari: oltre al già citato Eddie Hazel, in questa line-up vanno ricordati almeno Bernie Worrell, che suona le tastiere come se fossero un’ulteriore diabolica chitarra, e Tiki Fulwood, il cui drumming riesce miracolosamente a mantenere nei giusti binari tutto il debordante materiale suonato, un flusso magmatico sul quale si innestano voci che invocano lussuria, salvezza e redenzione.
Luglio 1971: Maggot Brain
Dopo i primi due album, registrati nello spazio di pochi mesi, e il contemporaneo start-up del progetto Parliament, George Clinton non ha più granché nei cassetti, a parte una micidiale “Super Stupid” che da sola inventa mezza discografia di Lenny Kravitz. Ma sa di poter contare sul gigantesco talento di Eddie Hazel, uno che aveva mandato a memoria la lezione di Hendrix facendola propria. Dentro Maggot Brain, pubblicato nel luglio del 1971, c’è il brano che più di ogni altro lo rappresenta, e che lo renderà per sempre immortale. E’ noto l’aneddoto secondo il quale un giorno Clinton mise Hazel davanti al microfono dicendogli: ora suona come se avessi appena saputo che tua madre è morta. Ciò che ne seguì, buono alla prima take, è un assolo di dieci minuti che consegna alla storia uno dei brani più significativi della black (ma in questo caso potremmo anche dire rock) music degli anni Settanta.
Maggot Brain nel 2015 diventa “pietra miliare” di OndaRock, e nell’approfondimento scritto per l’occasione, i due autori Giuliano Delli Paoli e Salvatore Setola allestiscono un suggestivo parallelo: se la chitarra di Hendrix ghermiva lo scoppio delle mitraglie nell’inferno del Vietnam, quella di Hazel solleva le membra dei marines rispedite a casa in una bara e le carcasse dei vietkong lasciate a decomporsi sull’asfalto. Hendrix era la guerra, la catastrofe, l’apocalisse; Hazel è il giorno dopo, la conta dei danni, il cordoglio, la paura, la sfiducia. I fragili argini di acido lisergico dietro i quali un’intera generazione aveva creduto di riuscire a rifugiarsi per sfuggire agli attacchi di un mondo infido iniziavano a scricchiolare. Il sipario stava calando su un’intera epoca, sulla vitalità tracotante della beat generation, sulle giovanilistiche utopie flower power. “Maggot Brain” (la canzone) rappresenta un vero e proprio requiem: Hazel si ispira a Hendrix ma non tanto con l’intento di imitarlo, quanto di farlo proprio, di rimasticarlo per tirar fuori qualcosa di nuovo.
Un’altra traccia che partecipa in maniera determinante a qualificare Maggot Brain come lavoro indispensabile è la conclusiva “Wars Of Armageddon”, oltre nove minuti di delirio psichedelico, un lungo baccanale space-funk costruito su poliritmi esagitati, un folle caos organizzato che scandisce nuovi possibili rituali voodoo. Brani come questo sintetizzano alla perfezione lo spirito alieno dei Funkadelic, sottolineato dal look extraterrestre fatto di gilet e bikini metallizzati, copricapi etnici e tuniche piumate, che sarà riconosciuto come antesignano dell’estetica afro-futurista, un movimento culturale volto a rileggere in chiave fantascientifica la condizione storica di subalternità dei neri rispetto ai bianchi, per cui gli elementi cardine del genere vengono caricati di simbologie razziali: i robot schiavizzati dall’uomo bianco, le astronavi che li deportano come un tempo facevano le navi negriere. Un ruolo pionieristico condiviso assieme a un altro gigante, Sun Ra, altra chiara fonte d’ispirazione per l’estetica di Clinton e soci.
Nella reissue dell’album, parecchi anni più tardi, sarà inclusa una versione alternativa di “Maggot Brain”, registrata full band. Nonostante nel tempo il disco sia divenuto uno dei più iconici dei Funkadelic, per molti il loro migliore in assoluto, all’epoca non riuscì a sfondare nelle classifiche di vendita, attestandosi grosso modo sugli stessi risultati dei lavori precedenti: numero 108 nella chart generalista di Billboard, numero 14 nella chart black, non pervenuto nelle classifiche inglesi. Menzione finale per la copertina, nella quale appare un singolare scatto che immortala il volto della modella Barbara Cheeseborough, che nei primi anni Settanta rappresentava uno dei massimi standard di riferimento della bellezza femminile afro-americana, tanto da essere scelta per la copertina del primo numero del celebre magazine Essence.
Maggio 1972: America Eats Its Young
Dopo tre dischi che ebbero per la musica black una portata rivoluzionaria paragonabile ai primi tre dei Led Zeppelin per la musica rock, il lavoro successivo - America Eats Its Young - viene registrato senza il contributo della chitarra di Eddie Hazel (eccetto un paio di interventi fondamentali che arrivano in corrispondenza di “Miss Lucifer’s Love” e “I Call My Baby Pussycat”, nuova versione di una traccia già inclusa nell’esordio dei “cugini” Parliament), a causa di dissensi sugli aspetti finanziari legati alla ripartizione di royalties e proventi. Senza la sua funambolica sei corde, il suono dei Funkadelic muta registro: persa parte dell’elettricità rock, si focalizza maggiormente su un marcato hard-funk. Disco più esteso dei precedenti (uscirà come doppio), America Eats Its Young – come si può evincere dal titolo - mette da parte l’oramai consolidato humour (anche se nei testi e in alcune impostazioni vocali resta qualcosa di vagamente zappiano) per lasciar spazio a canzoni di denuncia, con riferimenti contro la guerra in Vietnam e in favore della black consciousness, sulla falsariga di quanto fatto da Sly Stone, che nel frattempo ha raggiunto il successo miscelando funk, soul e protesta nei due bestseller “Stand!” (1969) e “There’s A Riot Goin’ On”, uscito solo da pochi mesi, nel novembre del 1971.
Il risultato è un crossover che, pur se ancora alla ricerca di una direzione stilistica precisa, inizia e fissare i canoni della nuova scena funk-r&b, che crescerà rigogliosa nella seconda metà degli anni Settanta. L’organo assume una posizione più centrale rispetto alle chitarre, come ben rappresentato dalla scoppiettante doppietta iniziale “You Hit The Nail On The Head”/“If You Don’t Like The Effects, Don’t Produce The Cause”, la prima un energetico riempipista (con non poche geniali variazioni sul tema) di oltre sette minuti, la seconda affidata a un coro di voci a prevalenza femminile.
Per sopperire all’assenza di Hazel, e cercare nuove idee da iniettare, entrano nel collettivo il bassista Bootsy Collins (che mette anche la voce nelle egregie “Philmore” e “Balance”, memorabili concentrati di Hendrix e James Brown, con il quale Bootsy aveva suonato in passato), il batterista Ginger Baker, già con Cream e Blind Faith, e il giovanissimo – appena diciottenne - guitar hero Garry Shieder, che si fa notare per il lavoro realizzato in occasione della title track, una sorta di personale “Maggot Brain”.
Se “Everybody Is Going To Make It This Time”, “We Hurt Too” e “That Was My Girl” dal punto di vista squisitamente musicale volgono lo sguardo alla tradizione soul del decennio precedente, risultando per questo motivo meno interessanti, la band in altri frangenti mostra un’anima più marcatamente funk, con tanto di inserti di fiati (lo strumentale “A Joyful Process”, la più lunga e strutturata “Wake Up”), oppure sfodera tutti i crismi del potenziale hit spacca-classifiche (“Loose Booty”).
“That Was My Girl”, già incisa nel 1965, fu ripescata dal repertorio dei Parliaments. Gli arrangiamenti degli archi sono affidati a David Van De Pitte, che per molti anni lavorò per la Motown, contribuendo al successo di alcuni fra i nomi più importanti dell’etichetta, quali Temptations, Four Tops, Jackson 5, Stevie Wonder, Gladys Knight e Marvin Gaye, per il quale fu responsabile degli arrangiamenti per gli immortali album “What’s Going On” e “Let’s Get It On”.
Luglio 1973: Cosmic Slop
Il minutaggio ridotto giova al successivo Cosmic Slop, che, pur non confermandosi ai livelli del trittico degli esordi, rivelandosi debolino dal punto di vista compositivo, indica una direzione più precisa rispetto al lavoro precedente. I Funkadelic in questa occasione si pongono alla ricerca di una nuova identità estetica e stilistica attraverso un processo di semplificazione delle strutture. Clinton, concentrato anche sulla ripartenza del progetto Parliament (rimasto in naftalina per tre anni e che negli anni successivi saprà assicurare maggiori soddisfazioni dal punto di vista delle vendite) deve dividersi fra i due gruppi, come del resto altri componenti della line-up. Per ottimizzare i tempi, la realizzazione dei dischi (saranno quasi sempre uno all’anno per ciascun progetto) si risolve nella registrazione di lunghe sessioni, in parte frutto di improvvisazioni, che si tengono nei momenti liberi dai tour: free session dalle quali vengono estrapolate idee per organizzare le canzoni, e durante le quali le droghe svolgono un ruolo non certo secondario.
Successivamente rivalutato da critica e fan, Cosmic Slop è comunque l’ennesimo (e col senno di poi anche inspiegabile) flop commerciale dei Funkadelic, che anche questa volta mancano l’ingresso nella Top 100 di Billboard (arriverà al massimo alla posizione 112), accontentandosi di un modesto ventunesimo posto nelle graduatorie r&b. Da questo disco al 1981 l’artwork dei Funkadelic sarà seguito da Pedro Bell, artista e illustratore precursore del moderno graphic novel e dell’intero movimento afro-punk, sottocultura americana di una scena prevalentemente bianca.
Il brano di riferimento di Cosmic Slop è la title track, che senza troppi riscontri commerciali sarà pubblicato anche come singolo, e del quale si realizzerà un videoclip promozionale: il divertente testo narra di un bambino che ascolta segretamente la madre chiedere perdono a Dio dopo essersi prostituita per sfamare la propria famiglia. Gli altri momenti caratterizzanti del disco sono quelli che proseguono nella costruzione del nuovo immaginario sex-funk anni Settanta, e in questo si rivelano interessanti l’iniziale “Nappy Dugout” e l’ironica “You Can’t Miss What You Can’t Measure”, rifacimento di un vecchio brano già inciso come Parliaments nel 1965.
Così come nel disco precedente, anche questa volta Eddie Hazel ha un ruolo soltanto marginale nell’economia della scrittura e della registrazione, contribuendo come co-autore soltanto in due tracce. Per sopperire a tale assenza, che giocoforza conferma l’allontanamento dal timbro più marcatamente psych-rock degli esordi, Clinton affida le parti di chitarra a Ron Bykowski e Gary Shider, che ci danno dentro soprattutto verso fine scaletta, in corrispondenza della hendrixiana “Thrash A Go-Go”.
Luglio 1974: Standing On The Verge Of Getting It On
Standing On The Verge Of Getting It On, pubblicato nel luglio del 1974, è il disco che segna il rientro a tempo pieno di Eddie Hazel, e si sente, già dallo sprint impresso nelle prime note delle micidiali “Red Hot Mama” e “Alice In My Fantasies” (molto “Foxy Lady”, in purissimo Hendrix-style), i due pezzi super-funk posti non a caso a inizio tracklist, degni continuatori del sound di “Super Stupid”. Questa volta Hazel è autore di gran parte del materiale, figurando però sotto mentite spoglie, utilizzando il nome della madre, Grace Cook, per evitare problemi di carattere contrattuale.
Standing On The Verge Of Getting It On ritrova un’invidiabile compattezza d’insieme e sancisce la vera seconda ripartenza dei Funkadelic, i quali si sforzano di concentrare le proprie idee in un formato canzone efficace e poco dispersivo, raggiungendo risultati davvero notevoli.
“I’ll Stay” è una sublime guitar ballad da camera da letto, l’uso del falsetto in “Sexy Ways” fornirà al giovane Prince materiale dal quale prendere più di qualche spunto, la title track ha un irresistibile groove proto-disco (e siamo ancora nel 1974) in grado di prestare a Mick Hucknall l’idea base per mezzo ritornello della hit dei Simply Red “The Right Thing”, la struggente “Good Thoughts, Bad Thoughts” è invece il magistrale tentativo di scrivere una nuova “Maggot Brain”.
Per gli appassionati completisti, segnaliamo che durante le session di registrazione “Red Hot Momma” proseguiva con una jam strumentale, la quale sarà utilizzata per il Lato B del singolo, con il titolo “Vital Juices”, risultato dello sforzo compositivo svolto da Eddie Hazel e Ron Bykowski. Nonostante venga riconosciuto fra i migliori dischi in assoluto pubblicati dai Funkadelic, anche Standing On The Verge Of Getting It On dovrà accontentarsi di una modesta 163° piazza nella chart generalista di Billboard, e di una tredicesima in quella r&b. Davvero pochino, vista la bontà del materiale.
Aprile 1975: Let’s Take It To The Stage
I Funkadelic nel 1975 hanno un nuovo grande chitarrista e il suo nome è Michael Hampton. A soli 17 anni lasciò di stucco Clinton suonando nota per nota l’intera “Maggot Brain” e venne di lì a poco arruolato, mantenendo il proprio ruolo anche quando sporadicamente l’ex-titolare Hazel decideva di prendere parte alle session in studio; dal vivo, a volte, si ritrovavano fianco a fianco per eseguire proprio “Maggot Brain” a due chitarre: provate a cercare sul Tubo.
Ma se Hampton possedeva la medesima tecnica di Hazel, al momento non poteva certo avere il medesimo talento compositivo, tanto che in Let’s Take It To The Stage, pubblicato ad aprile del 1975, eccetto l’assolo che caratterizza la parte finale di “Baby I Owe You Something Good” e il lavoro svolto sottotraccia per l’intera durata di “The Song Is Familiar”, per assistere a uno slancio chitarristico rilevante, Clinton deve affidarsi a un ospite misterioso. La leggenda narra che durante le session un tossicodipendente chiese a Clinton di poter suonare qualcosa in cambio di 50 dollari: il tizio suonò un vero pezzo di storia, “Get Off Your Ass And Jam”, e lo fece come se fosse posseduto da un’entità misteriosa (magia delle droghe…). Soltanto nel 2009, durante un’intervista, Paul Warren dichiarò di essere stato lui a suonarlo, un sessionman che lavorò – fra gli altri - con Temptations, Rod Stewart, Tina Turner, Richard Marx, Joe Cocker e per diversi anni persino con… Eros Ramazzotti.
Let’s Take It To The Stage ha tutte le sembianze del disco di transizione e, nonostante il buon inizio di “Good To Your Earhole”, veleggia fra continui alti e bassi (pedante la conclusione affidata ad “Atmosphere”, basata su un assolo di tastiere che si trascina per oltre sette muniti), rivelandosi come un evidente passo indietro rispetto al lavoro dell’anno precedente. E’ l’ultimo atto dei Funkadelic, nel quale ancora si notano tracce del glorioso passato psych-rock, un attimo prima di immergersi completamente nel funk più totalizzante: da dischi come questo prenderanno comunque appunti molti protagonisti della nascente scena hip-hop, sia per la tecnica utilizzata nelle parti spoken, perfezionata di lì a poco nel rap, sia per il saccheggio di sample attraverso i quali verranno costruite decine e decine di nuove canzoni.
Let’s Take It To The Stage, pur non incrementando la fila di estimatori, consolida la fama dei Funkadelic presso il proprio pubblico, e non solo, visto che finalmente una major prende l’iniziativa per mettere il collettivo sotto contratto: si tratta della Warner Bros, che potrà assicurare ai Funkaelic un budget promozionale all’altezza della situazione, per tentare – e sarebbe ora - il grande salto.
Ottobre 1976: Hardcore Jollies
Primo album edito per una major, Hardcore Jollies, pubblicato dalla Waner Bros nell’ottobre del 1976, dimostra la caratura del giovane Michael Hampton, anche se Eddie Hazel - da dietro le quinte, non accreditato - continua a fornire preziosi contributi. Ne esce un disco funky dal mood prepotentemente elettrico, a tratti nuovamente hendrixiano, nel quale a emergere, oltre alla strumentale title track, sono la torrenziale “Comin’ Round The Mountain” e una nuova versione al fulmicotone di “Cosmic Slop”, ripresa live a New York il 26 settembre, appena pochi giorni prima del mastering finale dell’album.
Più spostate verso il versante soul-funk risultano invece “Smokey”, ”If You Got Funk, You Got Style” (vera dichiarazione d’intenti…), “Soul Mate” e “You Scared The Lovin’ Outta Me”, mentre gli intrecci fra organo e chitarra nella conclusiva “Adolescent Funk” si aprono verso pericolosamente ingombranti scenari prog-fusion. La band ha ancora molto da dire e, nonostante il cambio di label, per il momento non si registrano particolari mutazioni nel sound rispetto ai lavori immediatamente precedenti.
Settembre 1976: Tales Of Kidd Funkadelic
Ma per chiudere il rapporto con la Westbound occorre consegnare un ultimo disco. Per sbrigare la pratica, Clinton prende gli “avanzi” di Hardcore Jollies e li raccoglie in quel che diventa Tales Of Kidd Funkadelic, pubblicato velocemente dalla Westbound un mese prima, per bruciare sul tempo il fratello maggiore confezionato dalla Warner Bros. “Kidd Funkaddelic” era il nomignolo affibbiato al giovane Michael Hampton, e alcune sue intuizioni chitarristiche sono fra i pochi motivi che giustificano l’ascolto di questa che se non appare come una modesta raccolta di outtake, è senz’altro considerabile un lavoro minore nella prestigiosa discografia della band.
Accattivanti le intuizioni nell’iniziale “Butt-To-Buttresuscitation”, con tanto di funambolico solo finale, ma gran parte delle sette tracce qui incluse restano al di sotto dello standard medio di Clinton e soci, compresi l’anemico singolo “Undisco Kidd” e l’infinita jam di oltre dodici minuti che dà il titolo all’intero album, nella quale la chitarra di Hampton è spesso letteralmente mangiata dai sempre più protagonisti tastieroni di Bernie Worrell, che in questa occasione conferiscono un’impronta più “cosmica” al suono.
Settembre 1978: One Nation Under A Groove
Per la prima volta due anni di attesa per produrre un album, ma stavolta è quello giusto, quello che porterà i Funkadelic nella top 20 americana, salendo fino alla posizione 16, che resterà il loro miglior piazzamento in assoluto. Il risultato arriva grazie alla visibilità che una major come la Warner Bros può assicurare, rispetto al ben più fragile supporto promozionale fornito dalla Westbound. Ma il successo commerciale è anche frutto di un lavoro che abbraccia la modernità appropriandosi di un genere (il funk) che il collettivo di Clinton aveva contribuito a forgiare con i dischi precedenti.
One Nation Under A Groove, pubblicato a settembre del 1978, un vero omaggio al ritmo, non è considerato il miglior disco dei Funkadelic, ma al suo interno sono contenute alcune delle loro composizioni più riuscite e rappresentative, fra le quali spiccano la title track, con molta probabilità il loro pezzo più famoso (sei settimane in testa alla soul chart americana, il miglior risultato dell’intero 1978, e finalmente - anche se per l’unica volta - in Top Ten nel Regno Unito), e “Who Says A Funk Band Can’t Play Rock?”, che sin dal titolo sancisce la ferma volontà di superare gli steccati fra generi musicali. E poi c’è il miracolo della lunga “Promentalshitbackwashpsychosis Enema Squad (The Doo Doo Chasers)”, la quale delinea la strada maestra che Prince saprà poi ben monetizzare negli anni successivi.
One Nation Under The Groove è il disco che segna la definitiva trasmutazione dei Funkadelic in dei Parliament senza fiati, nel senso che viene definitivamente accantonata qualsiasi divagazione psych-rock per concentrarsi su un groove dancefloor-oriented e intriso di sapori black. Uno dei lavori meno sperimentali del collettivo, ma al contempo uno dei più solidi. Inizialmente composto di sole sei tracce, ebbe in allegato un Ep contenente ulteriori tra brani: una versione dal vivo di “Maggot Brain”, suonata full band a Monroe, Louisiana nell’aprile del 1974, la più heavy-rock “Lunchmeataphobia (Think! It Ain’t Illegal Yet!)” e uno stralcio strumentale di “Enema Squad”. Nelle emissioni successive i due dischi verranno riuniti in un unico album.
Settembre 1979: Uncle Jam Wants You
Suono che vince non si cambia: nel settembre del 1979 Uncle Jam Wants You si pone in scia al predecessore, ne sfrutta l’onda lunga, e si piazza discretamente in classifica. Ma la qualità inizia a scemare, e per Clinton, sempre impegnato su un doppio fronte, non è agilissimo mantenere alta la qualità complessiva dovendo assicurare una pubblicazione all’anno per ognuno dei propri progetti. Oltre tutto, siamo in pieno boom disco-funk, con molte formazioni che, apprendendo la lezione dei Funkadelic, stanno sviluppando e allargando il discorso, ottenendo anche risultati commerciali di gran lunga superiori. Basti pensare alla pulizia sonora di collettivi quali Earth Wind & Fire o Kool & The Gang, che in quegli anni vivono stagioni d’oro. Ma il funk ormai è ovunque, e governa lo scintillante regno delle discoteche, a partire dallo Studio 54 di New York, che fissa le tendenze internazionali. Perino una ex-pop band come i Bee Gees fa faville ovunque, dopo essersi convertita alla disco-music, diretta derivazione della lezione di Clinton e compagnia, sbancando alla grande grazie alla colonna sonora di “Saturday Night Fever”.
Uncle Jam Wants You è una chiamata alle armi dal taglio militaresco (basti la lettura di titoli quali “Uncle Jam”, “Field Maneuvers” e “Foot Soldiers”) che merita però di essere ricordata quasi esclusivamente per i contenuti del pirotecnico primo lato, due delle tracce che riescono nell’intento di codificare il significato di moderna funky music: "Freak Of The Week" e soprattutto “(Not Just) Knee Deep”, che con i suoi oltre quindici minuti è una sorta di mega-mix di sé stessa, una giostra multicolorata che pare volersi protrarre all’infinito. “Knee Deep” raggiunge il primo posto della chart americana dei singoli r&b e diviene un pezzo leggendario per gli amanti della pista da ballo: la linea di synth-bass suonata da Bernie Worrell non solo diventerà la base per “Me, Myself And I”, successo planetario firmato nel 1989 dai De La Soul, ma sarà saccheggiata da una moltitudine di artisti, fra i quali LL Cool J (per “Nitro”), MC Hammer (per “Straight To My Feet”), Snoop Dogg (per “Who Am I?”), Black Eyed Peas (per un remix di “Shut Up”, e in questo caso le parti finiranno in tribunale nel 2010), Everlast, Tone Loc, Bobby Brown, Geto Boys, Dr. Dre, 2Pac e Vanessa Williams.
1980: Connections And Disconnections
Come spesso accade alle band che dopo molti anni di gavetta riescono a raggiungere un successo più vasto, a seguito delle affermazioni realizzate dai due dischi pubblicati con la Warner Bros tornano nuovamente a emergere frizioni di natura contrattuale e finanziaria, che provocano malcontento all’interno del collettivo. Inoltre i componenti del primo nucleo del gruppo si sentono sempre più emarginati dopo l’ingresso di nuovi musicisti che imprimono una direzione sempre più P-Funk al sound. La rottura è presto inevitabile, e i Funkadelic si spezzano in due tronconi.
Connections And Disconnections nel 1980 è il prodotto di quanto registrato dai soli Fuzzy Haskins, Calvin Simon e Grady Thomas senza Clinton e privi di gran parte del collettivo storico.
Connections And Disconnections è un articolo minore nel catalogo Funkadelic, un lavoro frutto più del mestiere che del genio, senz’altro in linea con il sound all’epoca in voga (in alcuni frangenti, come ad esempio nella rotonda “Come Back”, le idee sono perfette per il circuito disco di quei giorni), ma il suono tanto plasticoso e dozzinale, senza particolari guizzi, a tratti persino spento, non riesce a distinguersi rispetto alla moltitudine di ottimo materiale funky-oriented prodotto in quel periodo. Come è facile immaginare, l’utilizzo della ragione sociale “Funkadelic” provocò un’aspra disputa legale con il management di Clinton, ed è probabile che possa aver accelerato il processo di disgregazione dell’intero collettivo.
Nel 1992, in occasione di una ristampa curata dalla Rhino Records, l’album verrà riedito con il titolo Who’s A Funkadelic, il medesimo della traccia conclusiva.
Aprile 1981: The Electric Spanking Of War Babies
Nei mesi successivi Clinton si ricongiunge al resto della compagnia per The Electric Spanking Of War Babies, pubblicato ad aprile del 1981, titolo fortemente politico contenente allusioni alla guerra in Vietnam e all’emergente generazione dei baby boomer. La fiamma però non arde più come un tempo e anche le idee scarseggiano: i Funkadelic si dimostrano non più in grado di spostare l’asticella verso l’alto, limitandosi ad allinearsi ai suoni più in voga in quei mesi, proposti da artisti che loro stessi avevano precedentemente influenzato: le migliori tracce del lotto non fanno altro che riprendere le fila delle produzioni degli Earth Wind & Fire (a ben vedere, la title track non si discosta poi molto da una “Let’s Groove” o da una “Boogie Wonderland”, sembrandone però una sbiadita brutta copia), oppure posizionarsi su sentieri musicalmente simili a quelli percorsi da Michael Jackson in “Off The Wall”, peraltro di due anni precedente, come accade in “Electro-Cuties”.
Per ampliare lo spettro stilistico si ricorre ai sapori caraibici di “Brettino’s Bounce”, incentrata sulle percussioni, e di “Shockwaves”, indirizzata invece verso il versante reggae giamaicano, ma i risultati restano altalenanti. Va giusto un pochino meglio con la malinconica “Oh, I”, una miscela di sax, pianoforte, chitarre e cocktail-jazz, che a suo modo anticipa certi suoni sofisticati anni Ottanta.
Dei membri originali, oltre a Clinton, nella line-up restano soltanto Ray Davies ed Eddie Hazel, il quale peraltro suona la chitarra in una traccia soltanto. Quella che ascoltiamo in The Electric Spanking Of War Babies è dunque opera di una formazione completamente rivoluzionata rispetto a quella di dieci anni prima, e per provare a movimentare la situazione, alle registrazioni prendono parte Sly Stone (co-autore e voce nella scialba “Funk Gets Stronger”) e Roger Troutman. Che il disco non fosse un granché se ne accorge in primis il management della Warner Bros, che decide di stamparlo in appena centomila esemplari, censurandone la copertina curata da Pedro Bell, ritenuta inappropriata a causa della presenza del disegno di un’astronave dall’evidente forma fallica che trasporta una donna nuda. Il disegno venne parzialmente occultato da un patchwork multicolor, sul quale compare la scritta “Oh look. The cover they were TOO-SCARED to print”. Una sorta di dichiarazione di guerra nei confronti della major.
The Electric Spanking Of War Babies è il canto del cigno, la pietra tombale posta sul periodo più florido dei Funkadelic, ormai apprezzati da una fascia sempre più ampia di ascoltatori e con un appeal commerciale di gran lunga superiore rispetto agli esordi, ma presto destinati a essere identificati come un fenomeno da baraccone, nonostante la generale rivalutazione della discografia pregressa.
George Clinton dimostra comunque di non essere a corto di idee e in questa caotica situazione decide di intraprendere la carriera solista. Molti dei protagonisti dell’ultima fase Funkadelic, formalmente sciolti nel 1981, così come i Parliament, resteranno al suo fianco sia nel mega-collettivo “P-Funk All Stars”, sia nei lavori pubblicati a proprio nome. The Electric Spanking Of War Babies sarebbe dovuto uscire come doppio: bocciata l’ipotesi dalla Warner Bros, Clinton fa defluire alcune canzoni verso altri progetti, e ad “Atomic Dog” spetta il ruolo di primo singolo (sarà n° 1 nella chart americana r&b) del suo esordio a proprio nome, Computer Games, pubblicato dalla Capitol Records nel novembre del 1982, che raggiunge la 40° posizione nella chart di Billbord e la terza nella classifica r&b.
I lavori successivi saranno via via meno interessanti, e mai in grado di raggiungere i livelli delle migliori produzioni dei due principali collettivi guidati da Clinton nel corso degli anni Settanta.
2007: By Way Of The Drum
Ma fra il 1981 e il 1983 una delle tante line-up dei Funkadelic si ritrova per registrare diverse session che però non saranno mai pubblicate. Fino al 2007, quando verranno raccolte in By Way Of The Drum. E’ sostanzialmente un disco per completisti, con un uso più spinto dell’elettronica rispetto al passato, pochissimi sussulti (“Freaks Bearing Gifts”) e la prescindibile cover del classico dei Cream “Sunshine Of Your Love”.
Nel frattempo, nel 1992 era venuto a mancare a soli 42 anni Eddie Hazel, colui che dimostrò quanto il funk e il rock avessero la possibilità di coesistere. Da molti considerato il vero erede di Jimi Hendrix, Hazel pubblicò anche una manciata di dischi a nome proprio, senza mai riscuotere particolare successo. Pochi mesi prima della morte sembrava si stesse concretizzando l’opportunità di realizzare un trio con Billy Cox e Buddy Miles, per riformare la Band Of Gypsys con lui al posto del grande Hendrix. Non fece in tempo. Ai funerali di Eddie Hazel venne suonato “Maggot Brain”: il brano che più di ogni altro lo rese immortale.
Nel 1997 Clinton, Hazel e altri 14 membri dei Funkadelic-Parliament riceveranno l’onore dell’ammissione nella prestigiosa Rock’n’Roll Hall Of Fame, un posto fra i più grandi di sempre.
2008: Toys
Nel 2008 la Westbound Records raschia pesantemente il fondo del barile e pubblica Toys, una compilation con nove inediti risalenti al periodo 1970-1974. Originariamente schedulata nel 2002, l’uscita di Toys sarà ritardata a causa di problemi legali aventi per oggetto l’utilizzo del nome Funkadelic.
Sebbene oltre metà delle tracce ripescate dagli archivi siano strumentali, segno che furono accantonate e mai completate, con la chiara intenzione di non destinarle alla pubblicazione, evidenti motivi di interesse risiedono nell’ascolto dell’iniziale “Heart Trouble aka You Can’t Miss What You Can’t Measure”, con protagoniste le voci del bassista Billy Bass Nelson e del chitarrista Eddie Hazel. Nella versione su cd è inserito il videoclip del brano “Cosmic Slop”, realizzato catturando la band per le vie di New York.
Novembre 2014: First Ya Gotta Shake The Gate
Nel novembre del 2014 i Funkadelic tornano con un triplo album, il dispersivo First Ya Gotta Shake The Gate, animato dalle presenze – oltre che di Clinton - di Bernie Worrell (che verrà a mancare il 24 giugno del 2016), Michael Hampton e Sly Stone. Disco imponente, ben 33 tracce, una per ogni anno di vita dei Funkadelic, First Ya Gotta Shake The Gate rappresenta l’enciclopedico sforzo di sdoganare il marchio Funkadelic nel nuovo millennio. Operazione concretizzata con risultati non sempre all’altezza, lasciando filtrare nel songwriting tipicamente black-oriented le influenze più svariate e solo apparentemente inconciliabili.
C’è molto hip-hop, anche di buona fattura (“Creases”, “Not Your Average Rapper”), apprezzabili aperture verso atmosfere jazzy (“Baby Like Fonkin’ It Up”), divagazioni fusion (“In Da Kar”), lenti da mattonella che si protraggono all’infinito (ben dodici minuti per “Mathematics Of Love”) e persino dimenticabili sortite con l’autotune e chitarroni ai confini con il metal. Un bel minestrone, a tratti un po’ confuso, attraverso il quale i Funkadelic continuano volutamente a suonare “strani”.
Quasi in contemporanea, George Clinton pubblica l’autobiografia “Brothas Be, Yo Like George, Ain’t That Funkin’ Kinda Hard On You?”, nella quale – fra le altre cose - racconta una serie di incredibili aneddoti. Nel 2016 il brano “Ain’t That Funkin’ Kinda Hard On You?” sarà remixato da Kendrick Lamar con un featuring di Ice Cube.
Il mito dei Funkadelic continuerà a essere sostenuto negli anni attraverso la periodica pubblicazione di compilation e “greatest hits”, di solito concepiti per assemblare materiale appartenente a particolari momenti della carriera del gruppo. Fra i migliori e più centrati, meritano di essere segnalati almeno Finest, edito dalla Westbound nel 1997 e focalizzato sul primo periodo della band, e The Original Cosmic Funk Crew, comprendente invece materiale del periodo Warner Bros.
L’influenza dei Funkadelic sulle generazioni coeve e successive è incalcolabile, e a cadenza periodica non mancano gli omaggi. Fra i più recenti va ricordato quello portato da alcuni musicisti dell’area di Detroit in "Reworked By Detroiters", diffuso nel 2017 dalla Westbound. Il disco raccoglie 17 fra remix e rework realizzati – fra gli altri – da Dirtbombs, Moodymann e numerosi protagonisti della club culture locale. Un lavoro che travalica i confini di genere, mantenendo la città di Detroit come denominatore comune. Presentato in doppio cd e triplo vinile, "Reworked By Detroiters" si avvale anche di un artwork spaziale che richiama la tradizione del collettivo della Motorcity.
La figura di Clinton resta assolutamente centrale anche oltre la musica: il rapper e attore americano Wiz Khalifa lo interpreterà in un biopic dedicato alla celebre Casablanca Records, che dal 1974 al 1980 pubblicò ben otto album dei Parliament. La sua figura leggendaria è stata omaggiata anche da Plainfield: la cittadina dove iniziò a muovere i primi passi artistici ha deciso infatti di intitolargli una via.
Proprio durante la scrittura di queste righe, il 6 gennaio del 2022 giunge notizia della scomparsa di Calvin Simon, 79 anni, a fianco di Clinton sin dai tempi dei primi passi compiuti come Parliaments, dei quali fu membro fondatore. A marzo del 2023 sarà purtroppo la volta di Clarence "Fuzzy" Haskins (81 anni), anche lui a fianco di Clinton sin dal quintetto iniziale negli anni Sessanta.
Le morti di Simon e Haskins sono solo i più recenti eventi luttuosi che hanno colpito i tanti musicisti che negli anni hanno fatto parte del collettivo. Nel 2020 era venuto a mancare Mickey Atkins, il primo tastierista del gruppo, e nel 2017 Junie Morrison, polistrumentista (già con gli Ohio Players) in line-up nel periodo 78/81, quello di maggior successo commerciale.
Nonostante la non più giovane età, il ritiro dall’attività live (ma un tour che toccherà 17 città degli Stati Uniti è stato programmato per l'estate del 2022) e una delicata operazione chirurgica, Clinton continua occasionalmente a collaborare con altri artisti, quasi sempre di area black. Una delle ospitate più prestigiose degli ultimi anni è nel disco del 2019 di Flying Lotus, “Flamagra”, per il quale è co-autore e collabora alla registrazione della traccia “Burning Down The House”. Lo stesso anno giunge anche uno dei riconoscimenti più ambiti e prestigiosi: l’assegnazione a George Clinton e all’intero collettivo P-Funk (Parliament + Funkadelic) del Grammy Award alla carriera.