Beastie Boys

Beastie Boys

Three Mc's And One Dj

Da antesignano trio rap bianco a ensemble quasi zappiano, collettivo aperto e creativo. Laboratorio di scienziati pazzi recettivi ai fermenti più interessanti provenienti non solo dalla scena hip-hop ma dai generi più distanti e disparati. Decantando il tutto in una discografia essenziale. Dal mitologico esordio "Licensed To Ill" fino a "Hot Sauce Commitee", un quarto di secolo nel segno dei Beastie Boys

di Simone Coacci

Ripercorrendone la storia col senno del poi, è curioso notare come un gruppo (apparentemente) senza futuro abbia potuto partorire scenari musicali tanto significativi e futuribili, destinati a durare nel tempo, al pari del gruppo stesso. L'estemporanea invenzione iniziale di Ad-Rock, Mike D & Mca (e di Rick Rubin e dei Run DMC) - sorta di "b-boy band" ante litteram, sebbene stracolma di talento latente - s'è dimostrata, negli anni, un esempio più unico che raro di longevità e capacità di rinnovarsi, specie per un combo hip-hop nato e concepito come mainstream e da sempre abituato a stazionare nelle parti alte delle classifiche di vendita. In poco più d'un quarto di secolo i Beastie Boys sono passati, nella considerazione di critica, pubblico e addetti ai lavori, da fenomeni da baraccone a fenomeni musicali. Da derivativi a innovativi. Da antesignano trio rap bianco capace di "spacciare" la "roba" del ghetto nero per servirla su un vassoio d'argento ai giovanotti "smanicati" e fancazzisti di metà anni 80, a ensemble quasi zappiano, collettivo aperto e creativo.
Laboratorio di scienziati pazzi ("The Sounds Of Science", non per nulla) recettivi ai fermenti più interessanti provenienti non solo dalla scena hip-hop ma dai generi più distanti e disparati (dall'electro/dub alla dance "intelligente", dalla psichedelia al jazz, dal funk-core alla musica caraibica), e in grado di filtrarli in una propria, inconfondibile forma-canzone. Ai Beastie va ascritto non soltanto il merito di aver officiato le nozze laiche fra lo scibile rap e la musica rock, ma soprattutto quello di essersi spinti ben oltre le colonne d'Ercole del canonico crossover e aver allargato a dismisura lo spettro della sua linfa armonica ed estetica. Plasmando il substrato rap attraverso il prisma caleidoscopico e onnivoro di un sound sempre al passo coi tempi, in continua evoluzione e visionario al punto da prefigurare, a tratti, il rap "bianco", alternativo e astratto degli anni Zero.
Grazie a una fitta rete di collaborazioni prestigiose - dai Dust Brothers a "Money Mark" Nishita - e a un'esuberante strategia audiovisiva e multimediale - i loro videoclip sono spesso piccoli innovativi film firmati dai migliori registi del settore, hanno pubblicato e diretto  fanzine e riviste di successo caratterizzate dall'immancabile marchio Beastie - i tre eterni ragazzi ebrei di Brooklyn hanno sviluppato un personale immaginario a metà strada fra l'avanguardia situazionista, i fumetti di Robert Crumb, l'umorismo di "Mad Magazine" e la demenzialità di un John Belushi. Il tutto decantato in una discografia centellinata ed essenziale (sette album "ufficiali" in venticinque anni), praticamente senza punti deboli. Dal mitologico esordio "Licensed To Ill" all'attesissimo "Hot Sauce Commitee", pluri-rinviato e pubblicato nell'autunno 2010, sarà lungo e piacevole il cammino che ci attende.

Giovani Aborigeni e Ragazzi Bestia: creature centaure, fra rap e punk, nella NY dei primi anni 80


L'Ayatollah Komehini fa il suo ritorno trionfale in Iran dopo la rivoluzione che ha posto fine al regno dell'ultimo scià di Persia. Nel confinante (e futuro nemico) Iraq un certo Saddam Hussein si auto-proclama presidente della Repubblica. Altre brutte notizie per gli Stati Uniti nell'immenso scacchiere della Guerra Fredda: i sandinisti (che saranno omaggiati anche dai Clash l'anno successivo) conquistano il potere in Nicaragua e l'Urss invade l'Afghanistan assoggettandolo nel giro di pochi giorni. Frattanto, nel mondo libero, Margaret Thatcher è la prima donna a essere eletta primo ministro di Sua Maestà britannica. Mentre nell'ex-colonia americana la disastrosa gestione della "crisi degli ostaggi" di Teheran chiude nel peggiore dei modi la presidenza di Jimmy Carter, spianando di fatto la strada all'avvento dell'era reaganiana.
In ambito più strettamente musicale la Sony lancia i primi walkman e compact disc; escono "London Calling" dei Clash, "GI" dei Germs, "New Picnic Time" dei Pere Ubu, "Unknown Pleasures" dei Joy Division, "Fear Of Music" dei Talking Heads e il disco "punk" di Neil Young, "Rust Never Sleeps". Sempre a proposito di icone punk: mentre John(ny) "Rotten" Lydon pubblica "Second Edition" con i suoi Public Image Ltd, un altro ex-Pistols, il fatuo ed emblematico Sid Vicious, viene trovato morto per overdose nella sua stanza d'albergo a New York. Ed è proprio qui, nella città che non dorme mai, quella che ha più di un milione di storie da raccontare, che comincia anche la nostra. È il 1979.

La musica è come l'energia: nulla si crea e nulla si distrugge, al massimo può cambiare forma. Il punk tira ancora abbastanza, specialmente in America, dove l'hardcore fa il suo ingresso di prepotenza, senza bussare, mentre l'hip-hop, benché in quel 1979 compaiano i primi veri singoli di un certo successo firmati Sugarhill Gang ("Rapper's Delight") e Kurtis Blow ("Christmas Rapping", "The Breaks"), è ancora un fenomeno sotterraneo e localizzato che ha il suo epicentro proprio a New York, nel Bronx, con i tre grandi dj e pionieri assoluti del genere a dividersi la piazza: Afrika Bambaata zona sud-est, Kool Herc a ovest e Grandmaster Flash nel mezzo. A Brooklyn, invece, dall'altro lato del fiume, quattro ragazzini bianchi formano un gruppo chiamato The Young Aborigines: sono Michael Diamond, che poi si farà chiamare Mike D (batteria e poi voce), John Berry (prima chitarra e poi basso), Jeremy Shatan (che si scambia spesso di ruolo con Berry) e la "maschiaccia" del gruppo, Kate Schellenbach (che prima suona le percussioni a mano e poi eredita la batteria di Mike D). Hanno dai 14 ai 16 anni. Dicono d'ispirarsi a Siouxsie and the Banshees e ai Joy Division. In realtà sono poco più che degli emeriti casinisti, dei selvaggi pestoni, come suggerisce il nome, e delle loro scarne composizioni non è sopravissuto granché. Anche se, probabilmente, parte di quel "casino" confluirà nel repertorio dei primissimi Beastie Boys. Un nome che i quattro teppistelli adottano a partire dal 1981. Quando nella line up entra un diciassettenne amico di Diamond, Adam Yauch, il futuro Mca, per sostituire il dimissionario Shatan al basso.
Inizialmente non significa proprio niente, è solo un nome cazzuto, di quelli che suonano bene subito quando li pronunci, con quella bella doppia B, proprio come i Bad Brains, il mitico gruppo meticcio di Washington Dc, inventore del funk-core, per il quale i nostri hanno una sorta di venerazione. Poi, elucubrandoci un po' sopra a posteriori tra il serio e il faceto, s'inventano anche un acronimo: "Boys Entering Anarchistic States Towards Internal Excellence". Comunque sia, il nuovo moniker porta bene davvero: il sound dei Beastie, in stretta osservanza ai dettami dell'hardcore di quegli anni, panacea di ogni insipienza strumentale, è più ficcante, veloce ed elementare, senza fronzoli e imbottigliato come una molotov in brani di uno-due minuti. Tanto che il gruppo, stabilizzatosi finalmente in una formazione un po' più coesa, comincia a ingranare. I primi concerti in locali di una certa capienza, i primi fan oltre la cerchia di amici e conoscenti, i primi contatti con una label indipendente, la Rat Cage di Dave Parsons, che si offre di registrargli e pubblicargli un 7" che diventerà il primo reperto ufficiale della loro discografia come Beastie Boys.

Quello che ne tirano fuori è "Pollywog Stew", registrato nel 1982 con la produzione, fatta in casa, del fratello di Mike D, Stephen Diamond. Otto canzoni per poco più di dieci minuti di musica che vedono un gruppo ancora acerbo ruminare la lezione di Germs ("Beastie Boys") e Black Flag ("Transit Cop", "Egg Raid On Mojo"). Ovviamente Mike D non è Henry Rollins o Darby Crash - fa anzi un certo effetto, abituati al falsetto fanciullesco che lo renderà celebre, ascoltarlo qui mentre cerca, invano, di graffiare i pezzi cantando tutto di gola - e John Berry, tornato alla chitarra, non è Greg Ginn o Pat Smear, così le tracce soccorrono via rapide e monocordi, con poche variazioni degne di nota, come "Jimi", in cui tentano qualche svolazzo psico-funk alla Bad Brains, o "Riot Fight" in cui sembrano voler strizzare i Clash nel tritarifiuti: epilettica, sparuta e sgangherata com'è. Chi mostra di cavarsela meglio di tutti è proprio la Schellenbach, che difatti "da grande" diventerà un'apprezzata batterista alt-rock con Luscious Jackson e altri.

Dignitoso nella sua urgenza e ingenuità espressiva ma, superfluo forse sottolinearlo, indietro anni luce rispetto ai capolavori hardcore usciti in quel fruttuoso 1982. I pezzi in questione, dopo un lungo oblio, rispunteranno nel 1994, quando i nostri sono ormai delle superstar di livello mondiale, grazie a una compilation dal titolo significativo: Some Old Bullshit. Difficile capire se, continuando su quelle basi, il gruppo avrebbe avuto comunque successo oppure no. L'Ep, in ogni caso, ha una discreta circolazione negli ambienti hardcore newyorkesi e frutta ai Beastie ingaggi prestigiosi in locali leggendari quali il Cbgb's e il Max's Kansas City, o di supporto a fuoriclasse come Dead Kennedys, Misfits e financo agli amati Bad Brains. Suonano anche insieme a un gruppo che si chiama The Young And The Useless. Dei carneadi destinati a rivelarsi più importanti dei grandi nomi precedentemente citati per il futuro della band. Perché nelle loro fila milita come chitarrista un tale Adam Horowitz. È proprio lui, "Ad-Rock", il tassello mancante che in quel fatidico 1983 si aggiunge agli altri due storici Beastie, dopo l'uscita volontaria di John Berry, che proseguirà, senza grande fortuna, nei Thwig.

Gelati, linee aeree e riff altrui: l'invenzione del rap-rock


Trovata la quadratura del cerchio, i nostri mettono subito in mostra una delle caratteristiche (extra)musicali che faranno la fortuna del gruppo: fiutano il vento e, come avrebbe detto di lì a qualche anno Spike Lee, "fanno la cosa giusta". C'è aria di novità, infatti, nel reticolo di cielo sopra gli skyscraper della City: mentre di punk si parla ormai sempre meno (al massimo di new wave o di post-punk), la scena hip-hop è giunta a un punto ottimale di ebollizione, quello che prelude al successo, al sacco della grande industria discografica, ai soldi veri. Un terremoto di singoli come "Planet Rock" (1982) e "Renegades Of Funk" (1983) di Afrika Bambaataa, "Message" (1982) e "White Lines" (1983) di Grandmaster Flash, "Sucker MC's" (1983) dei Run DMC e "Rock The House" (1983) dei quasi omonimi B-Boys hanno dimostrato che non è solo fallace improvvisazione o semplice musica da party, ma una vera e propria "street art" (e anche redditizia).
Così anche i Beastie - aperti, curiosi e scaltri in egual misura - decidono di riporre momentaneamente le chitarre e di abbracciare le meraviglie del "ghetto blaster" e del campionatore. L'amore - in nuce ma fulminante - per questo tipo di sonorità prende forma in un nuovo Ep di soli quattro pezzi intitolato "Cooky Puss" (1983). È appunto la title track, presente in due versioni: una censurata e una no, la pietra filosofale del nuovo corso "bestiale". Una telefonata scherzo degli stessi Beastie alla Carvel Ice Cream (produttrice del famigerato Cooky Puss, una specie di gelato biscotto che, pare, quell'anno andasse a ruba) viene campionata e innestata su una base elementare, fatta di scratch e scarne linee di chitarra e batteria sbozzate dal gruppo, e cadenzata in una specie di testo demenziale e "parolacciaro" (i doppi sensi fra "puss" e "pussy" naturalmente si sprecano). È il loro primo brano rap (o rap-rock) a tutti gli effetti. E trascinerà i Beastie al centro delle prime polemiche e di sterili accuse di maschilismo per sparate come "bitch, I kick your fuckin' ass" che presto diverranno uno dei più triti e inestirpabili luoghi comuni del genere (e nessuno ci farà più caso). A fargli compagnia nell'arco del 12": "Beastie Revolution", una specie di lungo reggae/post-punk goliardico e demenziale (con un occhio ai soliti Bad Brains), che nella seconda parte diventa più apertamente dub ed elettronico, e "Bonus Batter" sempre fra hip-hop e dub. Un'influenza, quest'ultima, che i Beastie si porteranno dietro per tutta la loro carriera: certa musica anglo-jamaicana e artisti come Keith Hudson e Lee "Scratch" Perry (con cui collaboreranno in Hello Nasty) rimarranno un'ispirazione costante.

Sempre rilasciato dalla Rat Cage, questo secondo Ep, pur nella sua sostanziale ristrettezza di mezzi e di materiale, ha un impatto che surclassa quello del precedente tentativo. Il brano "Cooky Puss" diviene, in breve tempo, una hit ragguardevole nei dance club della New York più "hip-hop oriented". E poi ci si mette anche la fortuna ad arridere sfacciatamente ai quattro punk-rapper: un altro brano contenuto nell'Ep, "Beastie Revolution", viene infatti usato in uno spot della British Airline (!?) senza il consenso del gruppo, che può quindi citare con successo la compagnia aerea e ricavarci 40 bei pezzi da mille che investiranno nell'acquisto di un grande appartamento al 59 Chrystie Street di Chinatown. Da quel momento l'abitazione si trasformerà in sala prove, studio di registrazione e quartier generale di una band che comincia a prendere sul serio (si fa per dire, data l'indole regressiva e dissacrante dei soggetti) la propria carriera, determinata cavalcare fino in fondo l'onda del rap-rock per puntare in alto, molto in alto.

Un genere, quest'ultimo (rap-rock, rap-metal o crossover, che sia), che avrà una larga eco nei 90 e 2000 ma che viene in pratica codificato, per quanto concerne i suoi elementi basici, nei due anni successivi l'uscita di "Cookie Puss" con il singolo "Rock Box" (1984) e i primi due album del Run DMC, l'omonimo (1984) e "King Of Rock" (1985) e, cosa che più c'interessa, il terzo Ep dei Beastie Boys "Rock Hard" (1985), tutti prodotti dalla fervida mano del giovanissimo "mogul" Rick Rubin (appena ventiduenne, un anno in più del più "vecchio" dei Beastie). L'incontro dei Nostri con il produttore, anche lui di origini ebraiche e anche lui transitato dalla passione per l'hardcore a quella per il rap, che ha da poco fondato la sua etichetta, la Def Jam, con l'aiuto di Jazzy Jay della Zulu Nation e di Russell Simmons, fratello di Joseph "Run" dei Run DMC, avviene nei dormitori dell'Università di New York, frequentata da ambo le parti con più interesse per la musica e i party che per i corsi di laurea. Rubin spinge i Beastie ad accentuare il loro cotè più provocatorio e delinquenziale, quell'immagine da "tough guys", teppisti cresciuti per strada e quindi "meritevoli" di rispetto presso la comunità rap di colore.
Anche per questo alla Schellenbach, poco adatta (e propensa) ad assimilare una siffatta metamorfosi, viene fatto chiaramente capire di non essere più indispensabile. Sul piano musicale il connubio fra le solide radici rock e hardcore-punk e i nuovi stimoli hip-hop ne risulterà ancor più amplificato.

”Rock Hard” (1985) ricalca per certi versi la formula dell'Ep precedente (ancora quattro pezzi, dei quali l'ultimo è solo una ripresa strumentale del primo), ma qui c'è la produzione più curata e professionale di Rick Rubin (che funge anche da dj e collabora alla stesura dei pezzi) e una maggiore consapevolezza nei propri mezzi e sulla direzione da intraprendere: quella di un hip-hop oldschool, rocky, festaiolo. C'è, soprattutto, una cannonata quasi epocale come "Rock Hard", rapping puramente autoreferenziale su base ricavata dal riff di "Back In Black" degli Ac/Dc (per il quale gli interessati non concessero mai i diritti, cosa che limitò fortemente il successo e la circolazione del pezzo), un panzer che riassume in sé tutta l'irriverenza del party rap adolescenziale e la tracotanza dell'hard-rock ("I can play the drums, I can play guitar/ Not just b-boys, but real rock stars" declama il testo con solenne naivetè) anticipando di un anno l'exploit di "Walk This Way" (Run DMC e Aerosmith) e preannunciando già una componente fondamentale di quello che sarà l'album di debutto: Licensed To Ill. Più confusa ed estesa, "Party's Get Rough" punta tutto sul beat electro, scarno e ultrasincopato, con pochi scratch e ancor meno sample (in uno si distingue la voce di Robert Plant, un piccolo indizio del culto zeppeliniano dei Beastie) ma poi si sbriciola in uno sketch centrale parlato in cui Rubin e i Beastie fingono di litigare per ricomporsi nella lunga coda strumentale che aggiunge alla base iniziale un drone di chitarra distorta. Trascinante anche "Beastie Groove", oldschool classica e puramente ritmica. Ancora più interessante è notare l'evoluzione vocale del trio che, abbandonati gli sterili tentativi di cantare in modo convincente, si trova ora perfettamente a suo agio coniando una personale formula di rappin' polifonico a incastro, con le voci (quelle acute di Mike D e Ad-Rock e quella più roca e bassa di Mca) che si alternano e si sovrappongono con dinamiche più reminescenti dei coretti sguaiati e aggressivi che contrappuntano certo punk oi e beach, che dei call and response del blues o del soul, a cui talvolta sono state, lontanamente, paragonate.

I brani (e il nuovo stile/immagine del gruppo) ottengono l'effetto sperato: i Beastie Boys diventano gli astri nascenti dell'hip-hop newyorkese, la grande speranza bianca, il loro nome è già sulla bocca di tutti quando Rubin, per catalizzare la crescente popolarità del terzetto, decide di mandarli in tour. Con un repertorio all'osso e senza neanche aver pubblicato un vero e proprio album.
Nel 1985 aprono per un vecchio idolo come Lydon (ancora i Sex Pistols che ritornano, quasi fosse un presagio) e i suoi  Public Image Ltd, in fase di luna calante e momentaneamente affratellatisi alla scena hip-hop newyorkese nella persona di Afrika Bambaataa con "World Destruction" (1985). Quindi diventano supporter fissi del "The Virgin Tour" di Madonna che offre loro la possibilità di esibirsi davanti a un pubblico sicuramente molto vasto, anche se un po' eterodosso. L'anno successivo poi è la volta del "Raising Hell Tour" in compagnia degli altri pezzi da novanta della Def Jam - l'etichetta che, auspice Rubin, s'è ormai definitivamente assicurata le prestazioni del trio di Brooklyn (e che, di lì a poco, metterà a segno un altro colpaccio mica da ridere ingaggiando i Public Enemy) -  gente come Run DMC, LL Cool J e Whodini. Dello stesso periodo è la partecipazione alla soundtrack di "Krush Groove", il primo film di una major (la Warner Bros) sul mondo dell'hip-hop, sintomo evidente della grande esposizione mediatica raggiunta dal fenomeno. Poi, negli ultimi mesi del 1986, anticipato dai singoli "Hold It Now, Hit It" e "Paul Revere/The New Style" è la volta del Big Bang: Licensed To Ill.

Fight For You Right (to Party): licenza di fare casino

Reagan è ai ferri corti con la Libia e alle prese con lo scandalo Irangate (di mezzo ancora Iran e Nicaragua). La "Lady di Ferro" con l'Ira e lo scioglimento dell'Assemblea Nazionale nell'Irlanda del Nord, Gorbaciov con i parafernalia del tardo impero sovietico e la catastrofe di Chernobyl. A quote siderali, sopra il cielo dove parecchi aerei vengono dirottati o abbattuti da operazioni militari sotto copertura o da terroristi islamici (come il Boeing 727 che si schianta, sinistro presagio per i newyorkesi, contro il fianco di una montagna sulla copertina del primo album dei Nostri), la sonda europea Giotto fotografa il passaggio della Cometa Halley. È il 1986. Al cinema vanno forte "Ritorno Al Futuro" di Zemeckis e "Peggy Sue si è sposata" di Francis Ford Coppola: l'America di Ronald Reagan ("Chi? L'attore? Naaa!" masticherebbe scettico Emmett "Doc" Brown) ha voglia di anni 50 e Hollywood li ricostruisce come un'isola virtuale e fantascientifica, spensierata e priva di conflitti (a parte forse quello edipico: col rischio che la tua stessa madre da giovane s'innamori di te). E se nel 1956 c'era il rock 'n' roll, nel 1986 c'è il party rap rumoroso dei Beastie Boys. Mutatis mutandis, la storia si ripete: i neri hanno le idee, il talento e fanno da apripista, ma per arrivare al primo posto di Billboard ci vuole un gruppo di bianchi (che, ringraziando gli dei del rap e pure quelli rock, non sono poi tanto male).
D'altro canto, sempre a proposito di corsi e ricorsi storici, a qualcuno, più che il 1956, viene in mente il 1977: Rubin potrebbe essere il nuovo Mc Laren e i Beastie le sue "pistole del sesso", la meteora destinata a spremere al massimo (in termini economici e sociologici) l'ondata della nuova musica di strada e poi a disintegrarsi, in una scia di fuoco fatuo, di lì a qualche anno. Non andrà propriamente a finire così, ma ci mancherà poco. Licensed To Ill, in ogni caso, è il crogiolo perfetto, specchio mainstream dei suoi tempi musicali, in cui rock di strada, vestigia punk e tecniche hip-hop finalmente affinate oltre il (buon) livello semi-amatoriale dei "corti" precedenti (grazie anche al supporto di J. "Run" Simmons e Jam-Master Jay dei Run DMC) fermentano in modo calcolato e proficuo. Di loro, rispetto al black-rock di gruppi come rap come i Run DMC ad esempio, i Beastie ci mettono l'attitudine demenziale e regressiva (tipica di certo punk americano dai Ramones in poi), (auto)ironica (anche se, all'epoca, questo aspetto verrà scarsamente percepito da critica e pubblico) e cartoonesca (slittando l'identificazione cronachistica fra persona e personaggio tipica del rap delle origini), edonista ma non stupida anche nella gazzarra più assurda e infantile. Ed è proprio questo, a prescindere dal colore della pelle, il segreto del loro incoercibile successo.

Dal punto di vista musicale l'album si divide, grosso modo, in tre tipologie di brani. Innanzitutto gli archetipici rap-rock di "Rhymin' And Stealin'", coi sample di Black Sabbath, Led Zeppelin e di "I Fought The Law" dei Clash, in cui i Nostri si presentano come bucanieri da fumetto all'assalto dei tesori del samplin' e della vita da rockstar, "She's Crafty", ancora i Led Zeppelin con una vampa di "The Ocean", in cui si rimorchiano una ladra che li riduce in mutande, "Slow And Low", lenta e potente, scritta e prestata loro dai Run DMC; e poi veri e propri pezzi suonati con gli strumenti, alla vecchia maniera, come lo street-punk da high school di "Fight For Your Right (To Party)" e la parodia dell'heavy-metal di "No Sleep 'Till Brooklyn", il riff e l'assolone finale gentile concessione di Kerry King degli Slayer (altro gruppo al lavoro, in quello stesso periodo, con l'eclettico Rubin).
Poi i brani più organicamente hip-hop: i beat oldschool scarni e iperstilizzati di "Posse In Effect", metallica e tagliente, "Paul Revere" (altro pezzo scritto a "dodici mani" con i Run DMC), lenta e cadenzata, tutta costruita sui bassi profondissimi con qualche inserto di scratch, "The New Style", piena di pause e cambi di ritmo nonché di sfacciati riferimenti sessuali (persino con ragazzine minorenni) che sarebbero piaciuti a Chuck Berry.
Un discorso a parte meritano, infine, i pezzi più ricchi e originali: il collage dissonante di "Hold It Now, Hit It", la breakdance jazzata e sincopata dell'irresistibile "Brass Monkey", il sampling elegante ed elaborato di "Time To Get Ill" (dove ai soliti Zeppelin si uniscono i Creedence e si va da Stevie Wonder a Barry White passando per un maestro del rap newyorkese, non troppo noto al grande pubblico, come Schooly D) che in un certo qual modo anticipa la densità stilistica e il sound magistrale del loro capolavoro "Paul's Boutique".

Nel loro storytelling post-adolescenziale e autoindulgente i Beastie fanno ampio riferimento a marchi commerciali, specie alimentari come gli hamburger White Castle e la birra Budweiser (citata in continuazione nei testi e dalla quale, si dice, fossero pagati profumatamente per questa sorta di pubblicità nemmeno tanto occulta), alla pop culture, ai videogame e ai miti giovanili degli anni 80, con un umorismo salace e parecchio sopra le righe che sembra una riedizione (molto più sboccata e infantile) di quello di Chuck Berry alla fine dei Fifties. Quanto basta, a molti, per additarli negativamente, contrapporli al rap più conscious e "impegnato" di gente come i Public Enemy, Eric B & Rakim o della Zulu Nation, e considerarli un vacuo fenomeno consumistico alla stregua di quelli esaltati nelle loro rime.

1987-88, successo e fuga dalla Def Jam: we're the Beastie Boys not the Sex Pistols

Licensed To Ill
è una botta da capogiro. Un successo travolgente: primo posto nella Top 200 Chart di Billboard e più di nove milioni di copie vendute di lì a un anno. Propulsi dai videoclip in rotazione su Mtv, anche i singoli "Fight For Your Right (To Party)", "No Sleep Till Brooklyn" (due veri "stracult" d'epoca) e "Hold It Now, Kick It" si comportano bene. Chi invece non ha nessuna intenzione d'imparare le buone maniere sono proprio le tre "bestiole" che, alla ricerca sistematica dell'oltraggio e dello scandalo propedeutico ad attirare ancora di più l'attenzione sul loro bestseller, s'imbarcano in un tour mondiale che definire turbolento è un eufemismo.
Tra scenografie composte da ragazze seminude chiuse in gabbie sadomaso, vibratori giganti gonfiabili rimediati a qualche svendita degli Stones degli anni 70, i Beastie, con il tacito appoggio dei loro sponsor e del loro entourage, salgono sul palco visibilmente ubriachi e provocano la folla degenerando quasi ogni data in risse, interruzioni, oscenità. Il caos organizzato culmina nel famigerato concerto del 30 maggio 1987, al Royal Court Theatre di Liverpool: il trio resterà in scena appena una decina di minuti prima che fra gli spettatori esploda un tafferuglio gigante nel quale, menando e buscando a destra e a manca, si tuffa (dal palco, letteralmente) anche Ad-Rock, poi arrestato dalla polizia del Merseyside con l'accusa di aggressione e resistenza alla forza pubblica. Era probabilmente dai tempi del punk e dei Sex Pistols che il self control dei britannici non veniva messo così a dura prova.

Ma dopo la sbornia, di eccessi e di successi, solitamente arriva la nausea. E dopo la nausea, anche qualche momento di fastidiosa lucidità, per non dire di autocritica. In uno di questi "satori" Mike D, Mca e Ad-Rock realizzano che la visione che la Def Jam ha del progetto (o "prodotto") Beastie Boys, per quanto gratificante a livello economico, è castrante e limitativa e che una condotta del genere alla lunga rischierebbe d'imprigionarli nella sterile ripetizione di clichè, in una caricatura della caricatura (come succederà difatti a molti artisti rap della stessa scuderia, su tutti LL Cool J e gli stessi Run DMC). Quindi se vogliono salvarsi, se hanno l'ambizione d'incidere qualcosa che rispecchi più fedelmente il loro onnivoro e variegato background musicale, devono crescere e in fretta.
Ma prim'ancora devono cambiare tutto: aria, staff, etichetta, collaboratori. Cambiare o sciogliersi, come i Sex Pistols. Per loro e nostra fortuna, la scelta non cadrà sulla seconda opzione. Nel 1988, dopo un'ultima, simbolica, partecipazione a "Tougher Than Leather" il film scritto e diretto dal factotum Rubin e da Rick Menello, già autore dei succitati video per i Beastie, con cui i Run DMC tentano (senza troppo successo) di lanciare su scala mondiale il loro quarto album dallo stesso titolo, i Boys recidono il cordone che li lega alla Def Jam, strappano alla Capitol un contratto fra le cui clausole è prevista un'ampia autonomia creativa e abbandonano persino l'amata New York, trasferendosi per qualche tempo in California, a Los Angeles. È in questo clima di grandi mutamenti, interiori oltre che esteriori, che si vanno creando le condizioni favorevoli per il concepimento di quello che resterà agli annali come il loro massimo capolavoro: Paul's Boutique.

La scienza dei suoni: Paul's Boutique

Grandi mutamenti, dicevamo. Il Muro di Berlino comincia a scricchiolare prima di cedere di schianto, salutato dalle note dei Pink Floyd. A Praga con la "rivoluzione di velluto" si avvera, vent'anni e troppe anime morte dopo, il sogno di un ragazzino di nome Jan Palach. A Tienanmen, per un attimo, anche il monolite giallo vacilla di fronte alla determinazione di altri ragazzi che, come hippie "regolari" in giacca e camicia, sfidano a mani nude i carri armati. Mentre in Sudafrica, almeno a giudicare dalle aperture del nuovo presidente De Klerk, l'”arida stagione bianca” sembra ormai agli sgoccioli. È il 1989.

Pure i Beastie, nel loro piccolissimo, si accingono a rivoluzionare il loro sound. E il microcosmo dell'hip-hop, più in generale. Una formula copernicana che, proprio partire dal 1989 e da dischi come "3 Feet High And Rising" dei De La Soul, "Done By The Force Of Nature" dei Jungle Brothers oltre che naturalmente dal nostro Paul's Boutique, verrà denominata hip-hop progressive o alternative. A designarne la natura più ricercata, libertaria, anticonformista, sia dal punto di vista della musica che dei testi. Ovviamente quando i nostri mettono piede per la prima volta a Los Angeles hanno solo una vaghissima idea di tutto questo. Hanno con sé una montagna di dischi che vorrebbero campionare, una marea di spunti e di rime caotiche e la ferrea determinazione di fare un disco completamente diverso da Licensed To Ill. Ad aiutarli in questa impresa è un amico di Yauch (Mca), Matt Dike, che introduce il trio a un duo molto in vista sulla costa occidentale alla fine degli anni 80: E.Z. Mike e King Gizmo, aka The Dust Brothers. I due hanno cominciato più o meno negli stessi anni dei Beastie, prima come dj radiofonici, poi animando i rap-party più memorabili sulla mappa losangelina, infine diventando beatmaker e produttori con la loro Delicious Vinyl Label. Negli anni 90 troveranno la fama mondiale producendo "Odelay" di Beck e poi dedicandosi alla musica per il cinema (epocale la colonna sonora griffata per "Fight Club" di David Fincher), ma nel 1989 vivono già una sorta di stato di grazia, dando alle stampe altri due album di enorme successo come "Lòc-ed After Dark" di Tone Lòc e "Stone Cold Rhymin'" di Young Mc.
Paul's Boutique
, però, è un'altra cosa.

Ascoltando le basi che i Dust Brothers stanno preparando per un loro progetto essenzialmente strumentale i Beastie, come Alice, attraversano lo specchio e dall'altro lato trovano un paesaggio sonico surreale, iper-sincretico, praticamente inesplorato in ottica hip-hop. E vogliono entrarci dentro con tutte le loro forze. Coadiuvati da una nuova squadra di collaboratori che si allarga fino a diventare un vero e proprio ensemble (Dj Hurricane al turntable, Matt Dike e Mike Simpson come arrangiatori, Mario Caldato Jr. come co-produttore) i Boys e i Brothers danno vita a un affresco sonoro fra i più arditi e caleidoscopici della loro epoca. Utilizzando un numero inverosimile di sample (da tre a dieci per ogni canzone), raccordi ambientali, lunghe code e passaggi strumentali, i Nostri scardinano il concetto tradizionale di disco rap come semplice contenitore di canzoni, per plasmarlo in una sorta di streaming onirico, di fiume di citazioni, di mosaico di stili organizzato in modo perfettamente coerente. Il rap-rock succinto e "strappato" del disco d'esodio viene messo definitivamente in naftalina per far posto a un sontuoso abito multistrato dalle infinite cuciture, a un citazionismo zen e cinematico antenato del Tarantino di "Kill Bill" o "Grindhouse", a fragranti reliquie che omaggiano la musica degli anni 60 e 70. Non solo funk e black, pure basali, nella texture armonica di "Paul's Boutique" ma un hellzapoppin' in cui si compenetrano dub, musica jamaicana, pop psichedelico, rock della west-coast, persino country e folk. Così accanto a Curtis Mayfield, George Clinton, Sly & The Family Stone, Isaac Hayes e James Brown volteggiano Beatles (sprazzi di ben cinque loro canzoni incastonate nel bel mezzo di quella gemma che è "The Sounds Of Science"), Pink Floyd, Jimi Hendrix, Black Oak Arkansas, Eagles, Bob Marley e perfino Johnny Cash (antologico il suo campione che a Mike D che dice "I shot a man in Brooklyn..:" risponde "...just to watch him die"). Con questo disco il sampling viene elevato a cut-up surrealista e trasversale, a call and response gravido di rimandi espressivi e testuali, a vero e proprio wall of sound. Tanto da spingere molti critici a definire Paul's Boutique come il "Sgt. Pepper" o il "Freak Out" dell'hip-hop.

Non esattamente il tipo di lavoro che ci si sarebbe aspettati dai punkster "casinari", wanna be Sex Pistols, di Licensed To Ill. Che pure non lesinano i singoli ad effetto, come la monumentale "Hey Ladies", una "Time To Get Ill" all'ennesima potenza, il dancefloor abrasivo di "Shake Your Rump" con una vera e propria eruzione di bassi lavici nel ritornello, il funk battagliero e sincopato di "Shadrach" (con quel vocalizzo femminile a loop nel ritornello che entrerà nel mito), il passo rockabilly di "Johnny Ryall" e quello hardrock di "Looking Down The Barrel Of A Gun" (splendido l'innesto del riff elefantiaco di un classico minore come "Mississipi Queen” dei Mountains). E nel contempo si muovono in mille direzione diverse, senza perdere in fluidità e coesione: il funky-dub dell'intro "To All The Girls", la blaxploitation cineparodistica di "Egg Man", la magnifica psichedelia californiana di "High Plains Drifter" (che mescola senza pudore Eagles e Ramones). E, infine, se proprio fossimo costretti a scegliere una sola parte per il tutto: la zappiana/beatlesiana "The Sounds Of Science" (uno dei brani più geniali della storia dell'hip-hop, probabilmente) e la suite conclusiva "B-Boy Bouillabasse", dodici minuti in cui, tra fughe, stasi e ripartenze, trent'anni di stagioni musicali s'inseguono per almeno tre continenti.
Anche sul piano vocale e testuale siamo, rispetto al passato recente, su tutt'altro pianeta. Il rapping polifonico e ficcante del gruppo si complica nelle metriche, si fa acrobatico e spiazzante nell'esecuzione, mentre i testi amplificano e affinano l'iperrealismo demenziale degli esordi. Così l'omaggio iniziale all'altra metà del cielo di "To All The Girls" sembra voler idealmente rispondere alle ingenerose accuse di maschilismo rivolte ad alcuni brani del passato ("Girls", soprattutto), in "Johnny Ryall" delineano con gusto e umorismo la vignetta di un barbone ex-stella del rockabilly, in "Egg Man" danno vita a un delizioso pastiche comico-surrealista, in "Looking Down The Barrel Of A Gun", ironizzano in modo feroce sugli eccessi del passato e sulle insorgenti pose gangsta.

L'uscita di Paul's Boutique susciterà in critica e pubblico reazioni diametralmente opposte rispetto a quelle dell'esordio. Se infatti la prima si rende quasi unanimemente conto del valore intrinseco e della portata innovativa dell'opera ("il Pet Sounds/The Dark Side Of The Moon dell'hip-hop" strillerà estatico persino il "conservatore" Rolling Stone), il secondo rimane inizialmente spiazzato, perdendo così per strada un'enorme fetta del suo seguito più rock oriented e tardo-adolescenziale, acquistando però, anno dopo anno, una solida fisionomia di culto. I riscontri immediati sono tuttavia piuttosto deludenti se paragonati a quelli del predecessore e risulteranno, paradossalmente, fra i meno remunerativi nella carriera del trio newyorkese: un numero 14 di massimale a Billboard e un 36 per il singolo più in vista, "Hey Ladies". Le vendite, in ogni caso, cresceranno col tempo, fino a toccare i due milioni di copie a dieci anni circa dalla sua uscita, al pari della considerazione del disco. Considerazione che è già enorme fra gli addetti ai lavori se è vero che, sfogliando le cronache dell'epoca, ad applaudire convinto l'opus numero due dei Beastie troviamo addirittura un "pivellino" di nome Miles Davis e che Chuck D dei Public Enemy qualche anno dopo confesserà in un'intervista ciò che tutta la comunità rap di colore pensava, in quel lontano 1989, ma non aveva il coraggio di ammettere: l'essenza che i Beastie Boys (e i Dust Brothers) avevano distillato nei loro beat era di gran lunga il miglior suono hip-hop mai sentito fino a quel momento.

Check (the shit out of) Your Head: la terza via del crossover


A un anno dalla caduta dell'Unione Sovietica e dalla prima vittoriosa campagna contro l'Iraq di Saddam Hussein, il "sogno reaganiano" sembra quasi sul punto di avverarsi, ma la festa del suo successore George W. Bush Sr. viene rovinata dalla sconfitta nelle presidenziali di novembre ad opera dello sfidante democratico Bill Clinton. Nell'ex-madrepatria la regina Elisabetta II definisce un "annus horribilis" quello che ha travolto con scandali e polemiche la casa reale. Anche negli Usa c'è aria di tempesta e non solo per l'uragano Andrew che si abbatte sulle coste della Florida e invade il Tennessee, provocando una trentina di morti. La condanna di Mike Tyson per stupro al processo di Indianapolis, ma soprattutto il pestaggio in diretta del meno noto (almeno fino a quel momento) Rodney King e la sanguinosa guerriglia urbana che metterà a ferro e fuoco LA riportano in primissimo piano la questione razziale. A New York, John Gotti, l'”ultimo Padrino”, viene condannato al carcere a vita, mentre senza vita e praticamente congelato viene ritrovato, in Alaska, il corpo di Cristopher McCandless: quindici anni dopo la storia della sua vita verrà raccontata in un film-manifesto anticapitalista come "Into The Wild" di Sean Penn. A Mexico City governativi e ribelli firmano un trattato di pace che pone fine alla guerra civile che per quindici anni ha insanguinato il Nicaragua causando qualcosa come 75000 morti. È il 1992.

Fra New York e Los Angeles, nel frattempo, i semi gettati dal rap-rock a metà degli anni Ottanta danno vita a una nuova, più intricata e rigogliosa, fioritura. La sensazione del momento, grunge e gangsta rap a parte, si chiama crossover. Ed è abbastanza logico, anche per ragioni di patrilinearità, che i Beastie, distanti o poco interessati rispetto ai primi due fenomeni, si rivolgano al terzo come fonte d'ispirazione. C'è voglia di cambiare ancora, di tornare alle origini, per certi versi, con un approccio più diretto e "suonato" rispetto al costruttivismo sintetico di Paul's Boutique. Forse perché consapevoli di aver toccato un apice difficilmente replicabile nel suo genere, o forse perché un poco scontenti dei minori incassi ottenuti. D'altronde per i Beastie, che forti di un rinnovato accordo di distribuzione con la Capitol hanno appena inaugurato la loro etichetta indipendente, la Grand Royal, gli esempi a cui guardare non mancano: in quegli anni l'effettata miscela di hardcore, metal, funk, rap, reggae e via discorrendo, frutta risultati ottimali sotto molti punti di vista (estetico, commerciale, ecc.) come i Red Hot Chili Peppers di "Blood Sugar Sex Magic" (del 1991, diretto, fra l'altro, da un ex come Rick Rubin, l'uomo che, in qualità di produttore milionario, sta felicemente traghettando nel mainstream questo tipo di sound meticcio), i Rage Against The Machine in uscita col loro "miliare" disco omonimo (1992), i Faith No More pattoniani di "The Real Thing" (1989) e "Angel Dust" (1992), i Living Colour o un capolavoro isolato come "Bring The Noise" (1991), brano singolo firmato Public Enemy e Anthrax.

Anche se probabilmente, mentre lavorano sulle canzoni di Check Your Head, i Nostri hanno in mente altri modelli rispetto a quelli citati sopra: gli olandesi Urban Dance Squad, uno dei primi gruppi rock al mondo a esibirsi dal vivo con un dj, che proprio in quel periodo codificano il genere con un titolo come "Life 'N Perspective Of A Genuine Crossover" (1991), i veterani losangelini Fishbone (con cui avevano diviso parecchie date americane negli anni ottanta) e i Primus di "Sailing The Seas Of Cheese" (1991). Ma non prima di aver ricalibrato il tutto nel loro inconfondibile, stralunato formato Beastie. Musicalmente, infatti, "Check Your Head" si muove lungo una terza via alternativa sia al classico crossover degli anni 90, per la maggior parte ancorato al metal, sia al canonico hip-hop con inserti rocky e chitarristici che aveva battezzato gli esordi del gruppo.
Forti di una tecnica strumentistica che si è parecchio affinata rispetto ai tempi in cui erano un quartetto hardcore (Mike D torna dietro le pelli, Ad-Rock ed Mca imbracciano chitarra e basso, rispettivamente), della fondamentale collaborazione di un musicista genialoide come Mark Ramos Nishita aka "Money Mark" (di fatto il quarto o quinto membro semi-ufficiale del gruppo), che suona ogni tipo di strumento a tastiera e arrangia praticamente tutto l'album, e dei riconfermati Dj Hurricane e Mario Caldato Jr. Grazie a questo nuovo assetto, i tre Beastie danno vita a un album d'hip-hop strumentale fortemente espanso, impregnato di umori funk, jazz e psichedelici anni 70 e caratterizzato da un uso corposo e sapiente del sampling (non solo i soliti Funkadelic, Bad Brains, Led Zeppelin, ma anche Bob Dylan e Cheap Trick, tanto per darvi un'idea), a complemento delle parti suonate. Il che dimostra come il gruppo abbia fatto ampiamente tesoro della lezione di Paul's Boutique. Non mancano passaggi che guardano all'hardcore più viscerale e al rock alternativo portato in auge, in quegli anni, da festival itineranti e neo-comunitari come il Lollapalooza.

Il risultato è un album interessante e sperimentale, che poco ha da invidiare al più celebrato successore - Ill Communication - a parte forse la mancanza di singoli passepartout in grado di fare proseliti anche al di fuori del comunque già vasto pubblico della band. Un pezzo come "So What'cha Want", hard-funk sporco e solforoso su cadenze hip-hop e ritornello sguaiato e contagioso, ci va molto vicino (tanto che, remixato in svariate salse, negli anni a venire otterrà  molto più successo). Come pure "Pass The Mic", che mescola echi dub e chitarre noisy, il rap-core di "Gratitude", quasi la prova generale di un capolavoro come "Sabotage" (la chiave di volta del disco successivo). Altrove invece i Beastie s'immergono in una zona black più onirica e progressiva ("Funky Boss", "Lighten Up", "Pow"), in aperture zen e orientaleggianti ("Finger Lickin' Good" e "Namastè") che riflettono il loro maturato  interesse nei confronti del buddismo e delle filosofie orientali, nelle sfumature jazz della dissonante "Stand Together" e di "Groove Holmes", basata, come specificato nel titolo, su un giro d'organo di Richard "Groove" Holmes, grande nome dell'hard-bop e precursore dell'acid-jazz, scomparso l'anno prima. Il loro tipico gusto per la variatio e lo sketch musicale trovano modo di palesarsi con il lounge d'atmosfera di "Something Got To Give" e la goliardica "Professor Booty".
Check Your Head riceve un'accoglienza commerciale più positiva rispetto al suo predecessore: debutta al 10 di Billboard e si laurea in breve doppio platino. Sebbene, per contrappasso, nel corso degli anni finirà con l'essere un po' snobbato e spesso ingiustamente  considerato un episodio minore.

Still Ill (after all those years)

Nei due anni successivi i Beastie si dedicano ad ampliare il roster della Grand Royal, pure ispirato a un'idea di trasversalità e contaminazione rispetto ai generi, mettendo sotto contratto gruppi come Luscious Jackson (la nuova band della Schellenbach, che evidentemente non serbava rancore per essere stata, ai tempi, "scaricata"), un figlio d'arte come Sean Lennon e un promettente cantautore come l'australiano Ben Lee. Parallelamente debuttano anche nel campo dell'editoria pubblicando una rivista, "Grand Royal Magazine", e procedono alla stesura del nuovo album: Ill Communication.

Con il loro quarto lavoro i Beastie ribadiscono il concetto di gruppo allargato - alla formazione del disco precedente si uniscono Eugene Gore al violino, Eric Bobo alle percussioni e Amery Smith (ex-Suicidal Tendencies) alla batteria - e sublimano in maniera ancor più convincente quella speciale alchimia fra rap (semi)strumentale e crossover allargato già sperimentata su "Check Your Head". La maturazione intercorsa fra i due album si fa sentire nella più efficace fusione degli elementi derivanti dall'hip-hop alternativo con il particolare funk-core sviluppato in sede strumentale, in una produzione più oculata e brillante e in una scrittura maggiormente incisiva e centrata sui pezzi (che funzionano alla grande anche presi singolarmente). Non è un caso, infatti, che Ill Communication possa fregiarsi di alcuni dei singoli più ricercati e al contempo di maggior impatto e potenza nella carriera dei Beastie, come l'alt-rap da manuale di "Get It Together" (che risente, in positivo, della partecipazione di Q-Tip degli ATCQ), il giro di flauto ipnotico e il battito tagliente di "Sure Shot", l'oldschool rivisitata di "Root Down" e il post-core a punta cava, blindato col rap, di un anthem devastante come "Sabotage". Allo stesso modo, il resto del disco testimonia la lievitazione creativa di un gruppo capace di realizzare puzzle di suoni e generi sempre più eclettici e fantasiosi: sia che si tratti di hip-hop strumentale conturbato di funk, jazz e psichedelia alla canapa indiana ("The Scoop", "Alright Hear This", "B-Boys Make In With The Freak Freak"), di hardcore ridotto a schegge iperrealistiche ("Tough Guy", "Heart Attack"), di brani strumentali come "Eugene's Lament", basata sul tema di violino klezmer di Eugene Gore, di "Ricky's Theme", sorta di lounge-funk cinematico, o di "Sabrosa", di mantra buddisti come "Bodhisattva Vow" e "Shambala" o di robot-funk antipasti del sound futurista di "Hello Nasty" ("Do It") con inflessioni à-la Daft Punk ante litteram. Venti pezzi secondi, per inventiva e ricchezza, solo a Paul's Boutique.
Sul piano dei contenuti lirici, l'approccio ironico, ricercato e riflessivo già sviluppato nei dischi precedenti (ed evidente nell'estroversa spiritualità di un brano come "Bodhissatva Vow") si sposa con un ritorno ai temi autoreferenziali e ai luoghi della oldschool newyorkese, di cui delineano un ritratto ironico e affettuoso ("Root Down", "Get It Together", "Sure Shot"), e con recrudescenze di riottoso antagonismo giovanile ("Tough Guy", "Sabotage"). L'ormai consumata maestria nel rapping e la vividezza degli intrecci vocali, fanno il resto.
Con Ill Communication i Beastie  si dimostrano, ancora una volta, perfettamente sintonizzati con i tempi musicali che corrono (post-grunge, alternative, crossover) e segnano il loro maggior risultato commerciale dai tempi dell'esordio, toccando per la seconda (e non ultima) volta il numero uno nelle classifiche americane. Altrettanto lusinghiero è l'esito dei singoli "Sabotage" (merito del pezzo ma anche dello strepitoso video realizzato da un giovane Spike Jonze, il futuro regista di "Being John Malkovich"), "Get It Together", "Sure Shot" e "Root Down".

Crossover goodbye, hello Mix Master Mike

Galvanizzati dal successo ottenuto, i Beastie si lanciano in uno dei tour più lunghi mai intrapresi fino ad allora. Un massiccio impegno on the road che comincia capitanando, insieme agli Smashing Pumpkins, il carrozzone del Lollapalooza, prosegue sempre in suolo americano col tutto esaurito in stadi e arene, fino a toccare, per la prima volta nella loro carriera, il Sudamerica e il Sud Est Asiatico. Nello stesso periodo trovano anche modo di concedersi qualche divertissement: come pubblicare un amarcord del loro, ormai lontano, apprendistato hardcore, Some Old Bullshit (1994), che contiene pezzi provenienti dagli Ep "Pollywog Stew" e "Cooky Puss", una raccolta di brani strumentali (editi) dal sapore jazz-funk, The In Sound From Way Out! (1996) e un ozioso Ep di brani punk-rock intitolato "Aglio e Oglio" (in onore del frugale piatto di pasta italiano di cui i tre sono ghiotti). Roba per ferventi completisti, anche se quest'ultimo, con "Deal With It", "Nervous Assistant" e "You Can't Catch A Bad One", riesce piazzare qualche discreto affondo.

Il meglio, però, lo tengono in serbo per un come-back "ufficiale" in grande stile. Il quale si farà attendere fino al 1998, ma ne varrà ampiamente la pena. Simili a rabdomanti ipersensibili alle novità più interessanti (e più facilmente incorporabili nel loro sound) che agitano la scena pop, con il loro quinto album i Beastie assestano una nuova sterzata a 180 gradi. Espunti gli ultimi cascami crossover, conservando però la capacità di miscelare musica strumentale e sample elettronici, i tre di Brooklyn progettano un ritorno all'hip-hop più artsy, formalmente  erede di Paul's Boutique. Ma quello che hanno in mente è un sound che tenga anche conto delle molte cose che, rispetto al 1989, sono radicalmente cambiate dentro e fuori l'hip-hop. E per agevolare questa transizione optano per un avvicendamento che si rivelerà fondamentale: fuori l'ottimo Dj Hurricane, fra gli artefici della crescita musicale del gruppo ma forse troppo legato alla oldschool, e dentro il fenomeno Mix Master Mike, sorta di Paganini del turnables, già plurivincitore di tutte le "battle" e i concorsi mondiali della specialità. È anche grazie al suo virtuosismo nei cut e negli scratch, che acquistano spazio e diventano un vero e proprio strumento solista, e a un approccio bulimico verso sonorità più eterodosse e (post)moderne che il beastie-sound può accedere a un nuovo, futuribile, stadio evolutivo.

Fortemente influenzato da subcorrenti dance, electro, dub, trip-hop, astrazioni e rarefazioni in stile Warp e sovrastrutture sci-fi alla Daft Punk, Hello Nasty, dietro l'apparenza catchy e l'impeto da dancefloor, è un disco denso, complesso, raffinato. Aderente al formato rap caro ai Nostri, eppure diverso, nella fattura, da ogni cosa prodotta in passato. Tormentoni come "Super Disco Breakin'" (oldschool proiettata nell'iperspazio), "Body Movin'" (sincopando in maniera inimitabile il sample di "Oye Como Va") e "Intergalactic" (un estratto dal "Prelude In C# Minor" di Rachmaninov più un refrain che farebbe impazzire di gioia i Daft Punk) non sono soltanto agili e orecchiabili ma anche impeccabili nel dissimulare le loro certosine strategie produttive. E poi, come da copione, i Beastie sono bravi a non farsi mancare nulla: ancora i Daft Punk denaturati e ricontestualizzati in "And Me", il battito agro e notturno, fra dub e trip-hop, di "Putting The Shame In Your Game", ancora dub ma stavolta essenzialmente jamaicano in "Dr. Lee" (con la partecipazione speciale di Lee "Scratch" Perry, of course), il jazz-lounge "Sneaking Out The Hospital" e quello modanato di bossa di "Song For Junior", l'assolo personale di Mix Master Mike nell'anthem "Three Mc's And One Dj", una ballad indie-pop cantata da Miho Hatori dei Cibo Matto e una soul-jazz "Picture This" (con la parte vocale affidata all'ottima corista Brooke Williams). Che i Beastie Boys (e il collettivo che con loro s'identifica: Mario Caldato Jr., "Money Mark", Eric Bobo e una schiera di turnisti inseriti nell'occorrenza) non siano soltanto dei maghi nel rielaborare le nuove tendenze ma che, nel manipolarle, gettino le basi per sviluppi immaginifici lo ribadiscono due pezzi come "Electrify" e "The Negotiation Of Limerick": il primo è una sorta di collage dissonante che campiona nientemeno che "The Firebird Suite" di Stravinsky, il secondo un hip-hop straniato e minimalista (distintivo il suono del violoncello inciso per l'occasione da una musicista underground come Jane Scarpantoni) al limite dell'abstract rap degli anni Zero.

Il restyling sonoro e l'indubbia caratura dei singoli - con un altro video/grindhouse superlativo: quello di "Body Movin'" in cui omaggiano il "Diabolik" del nostro Mario Bava - ha un effetto positivo anche sulle vendite, in virtù delle quali i Beastie Boys centrano per la seconda volta consecutiva il primo posto nelle classifiche americane (cui va ad aggiungersi un secondo, record, in quelle inglesi) e inanellano un altro bestseller milionario. Anche la critica, pressoché unanimemente, s'inchina alla nuova trovata dei tre folletti di Brooklyn.

To The 5 Boroughs: it takes time to build on Ground Zero

Mentre Hello Nasty fa incetta di Grammy e Mtv Awards - fra cui il Video Vanguard Award per il loro contributo all'arte del video musicale - i Beastie intensificano il loro impegno politico e umanitario come testimoniano le iniziative in favore del Tibet libero e i lungimiranti distinguo a non confondere musulmani e terroristi islamici pronunciati nel 1999, all'indomani degli attentati alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. Sempre attenti alle novità e ai cambiamenti, sono fra i primi artisti a costruire un website ufficiale e a distribuire la loro musica su internet. Nel 2000, invece, gli appassionati della loro musica perdono un'occasione forse irripetibile: vederli condurre al fianco dei Rage Against The Machine il "Rhyme And Reason Tour", monumento ideale alla carriera dei due gruppi forse più significativi della fusion fra rap e rock/metal. Mike D, che avrebbe dovuto suonare la batteria in un set completamente strumentale, si frattura la clavicola cadendo dalla bicicletta e quando si rimette il gruppo di Zack De la Rocha e Tom Morello ha già annunciato il proprio split. Un vero peccato.

Nel frattempo, però, l'attenzione generale viene monopolizzata da eventi ben più drammatici: nel novembre del 2000 George W. Bush Jr. vince, con uno scarto irrisorio, le elezioni più contestate della storia repubblicana, fra voti elettronici fantasma e forti sospetti di brogli nello stato della Florida governato dal fratello del futuro presidente. Poi gli eventi precipitano: l'11 settembre del 2001 due aerei dirottati dai terroristi islamici si schiantano contro le Twin Towers, nel cuore di New York, uno contro il Pentagono, mentre un quarto si abbatterà nei dintorni di Shanksville, Pennsylvania; Al-Quaeda rivendica gli attentati e Osama Bin Laden diventa per tutti il babau, il nemico pubblico numero uno, l'azionista di maggioranza di questa sorta di "Spa del terrore". La risposta di una delle amministrazioni più estremiste che la Casa Bianca abbia mai ospitato non si fa attendere: nello stesso anno, con la scusa di dare la caccia ai terroristi e con l'obiettivo più reale di aprirsi una testa di ponte nel ventre molle del Medio Oriente ricco di petrolio, G.W. Bush, in qualità di capo supremo di tutte le forze armate, inaugura l'operazione "Enduring Freedom" e invade l'Afghanistan, nel 2003 sarà la volta dell'Iraq del supervillain Saddam Hussein (minacciando, invano, di estendersi fino all'Iran). Quali fossero i legami di quest'ultimo con lo sceicco stragista, nel gioco alle tre carte messo in piedi dai servizi segreti della coalizione internazionale guidata Usa e Inghilterra, nessuno lo capirà mai. Un'intera nazione (per non parlare del resto mondo) sprofonda nella paranoia di un nuovo attacco, mentre le multinazionali che investono sulla ricostruzione e sulla sicurezza macinano miliardi di dollari.

Forti di una coscienza civile che nessuno avrebbe mai sospettato in loro nei bagordi demenziali della gioventù, i Beastie fanno la loro parte istituendo un fondo in favore dei familiari delle vittime degli attentati e supportando un'idea di pace e di dialogo fra uomini e culture in antitesi con il militarismo revanscista che va per la maggiore fra gli americani. Nel 2003, registrano e pubblicano gratuitamente sul web la loro prima vera "canzone di protesta", un combat rap intitolato "In A World Gone Mad" nel quale, dando fondo alle consuete armi della provocazione e dell'ironia, attaccano frontalmente l'amministrazione Bush e i principi teo-conservatori che la cementano. Sarà uno dei brani più scaricati di quella stagione. Nello stesso periodo il gruppo lavora in studio a quello che diventerà il suo sesto album: To The 5 Boroughs.
Autarchicamente prodotto (declinando, dopo quindici anni di sodalizio, il prezioso contributo di Mario Caldato Jr.) e dedicato, come si evince dal titolo, alla loro città natale e a un'idea di palingenesi democratica che si rivolge a tutto il paese, il concept segna un ritorno anche alle atmosfere tirate, vibranti ed essenziali della oldschool costa Est. Non un semplice ricalco, in ogni caso, ma un'attenta rivisitazione attraverso un'elettronica moderna, che spesso guarda, con moderato interesse e senza mai sbilanciarsi troppo, ai suoni minimali e astratti di certo avant-hop. Fra passaggi abrasivi e bombastici degni dei Public Enemy ("3 The Hard Way" e "It Takes Time To Build"), electro-funk bambaatiani aggiornati ai tempi che corrono ("Oh Word" e "Crawlspace"), omaggi agli Chic e alla Sugarhill Gang ("Triple Trouble"), cinematica (l'epica "Right Right, Now Now" e la cupa "Rhyme The Rhyme Well"), dancefloor intelligente ("All Lifestyles"), i Beastie dimostrano che i sei anni di attesa non sono trascorsi invano e che la capacità di auto-rigenerare i propri tessuti musicali funziona ancora alla grande. I due singoli di maggior visibilità descrivono alla perfezione i principali coté del loro corso attuale: quello circense e citazionista di "Ch-Check It Out" e quello più fiero e "impegnato" di "An Open Letter To NYC" (con una stilla d'esprit punk d'altri tempi: il sample di "Sonic Reducer" dei Dead Boys), zenith emotivo dell'album, una toccante dichiarazione d'amore alla città umiliata e offesa dai barbari che si ergono su entrambi i fronti della "Guerra al terrore", la cosa più vicina alla poesia di strada che i tre abbiano mai scritto.
Un album compatto e vigoroso, che ribalta il cliché di "Fight For Your Right To Party" in "Party For Your Right To Fight". E centra l'ennesimo risultato commerciale favorevole con un altro primo posto (il quarto finora) nelle classifiche americane e un grande riscontro anche in Europa.

Stravaganze di mezz'età: The Mix Up

Appagati dai successi ottenuti e da uno status ormai semi-mitologico, pressoché unico per longevità e risonanza nell'ambito della musica hip-hop, i Beastie Boys interrompono la loro consueta, pingue, pausa di riflessione discografica solo nel 2007.
E lo fanno con un disco che più distante non potrebbe essere da tutti quelli che l'hanno preceduto. The Mix Up è un progetto sperimentale, stravagante e un po' autoindulgente: concepito e suonato, cioè, più per se stessi, per sfogare un lato della loro personalità musicale che  rischiava altrimenti di rimanere risicato e oscurato dai grandi successi rap, che per il grande pubblico che di solito li acclama. Rinunciando momentaneamente all'apporto del dj Mix Master Mike, i tre caballeros tornano a suonare i rispettivi strumenti (accompagnati dal fondamentale "Money Mark" e dall'ottimo percussionista Alfredo Ortiz) ma con un taglio molto diverso rispetto ai loro dischi crossover degli anni 90.

Tira aria cinematica, da colonne sonore anni 70 in The Mix Up, disco completamente privo di testi e di parti vocali. Fra blaxploitation ("14th St. Break", "B For My Name"), kung-fu movie tarantiniani ("The Cousin Of Death"), sci-fi ("The Gala Event"), lounge ("The Melee"), funk-jazz, accenni quasi post-rock ("Off The Grid"), qualche inserto electro (l'exotica "Suco De Tangerina") e la solita psichedelia slabbrata e goliardica, è come se le sonorità che i Beastie avevano infilato e compresso nei loro arlecchineschi sample si dilatassero a dismisura, liberi d'ogni rigida forma rap, e vivessero di vita propria in ogni pezzo. Un divertissement ozioso e piacevole, probabilmente più divertente da suonare che da ascoltare. Comunque una discreta conferma del "travestitismo" e della curiosità musicale dei Beastie, ritratti in copertina con la loro nuova, singolare mìse: giacca e cravatta di sartoria italiana e occhiali scuri (un cappello a borsalino per Ad-Rock, l'inedita e foltissima capigliatura crespa di Mike D), una via di mezzo fra i Blues Brothers e dei jazzisti cool.

Hot Sauce Commitee Part 2 (2011)

Annunciato da quasi due anni attraverso la pubblicazione dei singoli "Too Many Rappers" (che si guadagnò una candidatura ai Grammy come miglior performance di un gruppo rap nel 2009) e "Lee Majors Come Again" e pluri-rinviato a causa di problemi personali (il decorso, fortunatamente positivo, del linfoma alla ghiandola salivare che ha colpito Adam Yauch/Mca) e produttivi (l'abbondanza di materiale che ha convinto i Beastie a programmare, in corsa, un doppio album e quindi a tornare in studio per registrare nuovi brani a tale scopo), il tanto atteso come-back del leggendario gruppo newyorkese è giunto infine a compimento. Cominciando dalla seconda parte, che esce dunque nella data inizialmente fissata, ma contiene praticamente le stesse canzoni accreditate, a suo tempo, alla prima. Non è dato sapere se la bizzarra trovata sia dettata da ragioni promozionali o se sia una specie di gag demenziale a cui il terzetto non ha saputo rinunciare.


Al capovolgimento eponimo, se non altro, ne corrisponde anche quello sul piano musicale e temporale. Con Hot Sauce Committee Pt. 2, infatti, tornano all'antico, bypassando di netto l'ultimo decennio (peraltro avaro di pubblicazioni: un solo disco più uno interamente strumentale), e riallacciandosi concretamente al sound che li consacrò negli anni 90.
Si va dagli anthem rap-rock come la groovy e festosa "Make Some Noise", la tagliente e fuzzy "Too Many Rappers" (in una veste nuova rispetto al singolo originariamente pubblicato), il rap-core di "Say It" che rimanda allo schema classico di "Gratitude" o "Sabotage", al funky-dub psichedelico e avvolgente figlio di Paul's Boutique ("Nonstop Disco Powerpack", "Funky Donkey", "Crazy Ass Shit"), all'electro più algida e robotica di Hello Nasty (le venature funk e gotiche di "Long Burn The Fire", il simil-glitch di "Tadlock's Glasses", "Ok" che sta al crocevia con Ill Communication). Un percorso archetipale attraverso l'amalgama che negli anni ha costituito l'immaginario collettivo del beastie-sound, condensato in un formato rap dall'impianto tradizionale, tirato ed estroverso quanto basta. Non mancano divagazioni più pop come il reggae rilassato ed insinuante di "Don't Play No Game That I Can't Win" (cantata da Santigold) o il divertito ripescaggio dai loro esordi hardcore di "Lee Majors Come Again" che cita sia "Sabotage" che i Bad Brains.
I Beastie Boys del 2011 non sono, né potrebbero essere, un gruppo nelle corde di chi è a caccia spasmodica di novità. Dopo trent'anni di carriera, d'altronde, sarebbe ingeneroso chiedergli qualcosa di più che mantenere dignitosamente alti i loro standard.

Beastie Boys

Discografia

Licensed To Ill (Def Jam, 1986)

7

Paul's Boutique (Capitol, 1989)

8

Check Your Head (Grand Royal, 1992)

7

Ill Communication (Grand Royal, 1994)

7,5

Some Old Bullshit (antologia, Grand Royal, 1994)

The In Sound From Way Up! (Capitol, 1996)

Hello Nasty (Grand Royal, 1998)

7,5

Anthology: The Sound Of Science (doppio cd, antologia, Capitol, 1999)

To The 5 Boroughs (Capitol, 2004)

7

Solid Gold Hits (antologia, Capitol, 2005)

The Mix Up (Capitol, 2007)

6

Hot Sauce Commitee Part 2 (Capitol, 2011)

6,5

Pietra miliare
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Fight For Your Right (To Party) (videoclip da License To Ill, 1987) 
No Sleep Till Brooklyn (videoclip da Licensed To Ill, 1987)
Hey Ladies(videoclip da Paul's Boutique, 1989)
Shadrach(videoclip da Paul's Boutique, 1989)
So Watcha Want (videoclip da Check Your Head, 1992)
Something Got To Give(videoclip da We Are The Night, 2007)
  Sabotage (videoclip da Ill Communication, 1994)
  Root Down (videoclip da Ill Communication, 1994)
  Body Movin' (videoclip da Hello Nasty, 1998)
  Intergalactic (videoclip da Hello Nasty, 1998)
  Ch-Check It Out (videoclip da To The 5 Boroughs, 2004)