Un pazzo. O forse una mente lucida in un mondo di folli. Frank Zappa è qualsiasi cosa mente umana possa suggerire, ma è soprattutto un artista difficile da dimenticare e da catalogare una volta fatta la sua conoscenza. Negli anni 50 aveva un amore e una meta: amava il blues e voleva attraverso questo fare soldi in gran quantità, anzi lo dichiarava sfacciatamente: "Voglio avere una mia band e fare soldi a palate".
Zappa, fin da subito, ha ben chiaro in mente cosa vuole fare da grande. Si ispira ad artisti avanguardistici contemporanei come Edgar Varèse, Igor Stravinskj e Karlheinz Stockhausen, la cui influenza sul nostro sarà tangibile fin dalle prime opere. È un artista colto, Zappa, che non ha scrupoli a prendersi gioco del bigottismo imperante nella società perbenista americana del periodo. Le sue canzoni vanno oltre il semplice ausilio di melodia, la musica nelle sue mani diventa un'affilatissima spada con cui fare a pezzi il tradizionalismo, non solo di costume: quello che Zappa propone è di stravolgere il sistema dall'interno, per poi far sì che cambi anche all'esterno.
Ecco quindi "Freak Out", fondamentale album d'esordio, che altro non è che un attacco coraggioso a menti preconfezionate, fatte di salutismo ormonalmente represso. È una sfida satirica, una presa di giro colta e ironica nei confronti di un mondo che si gongolava in un "American Dream" all'epoca ancora integro e senza rughe. Zappa dimostrava che questo sogno era una utopia: attraverso le sue "canzoni stupide" (come lui per primo amava definirle) si faceva portavoce anarchico dei "diversi", di coloro che vogliono il cambiamento, e lo vogliono subito.
Non interessa a Zappa cosa gli altri penseranno di lui, non interessa se sarà bandito o sbeffeggiato - riesce a vedere nel futuro e attraverso questa ottica particolare riesce a veicolare la sua musica manipolandola per i propri fini. Attraverso melodie subdole e ammiccanti, Zappa cita frasi rivoluzionarie che, come strali, produrranno tempeste scandalistiche facendo gridare all'orrore: "Mister America, tira dritto/ davanti alle menti che non riesci a dominare/ Mister America, cerca di nascondere/ il vuoto che hai dentro/ Se anche ti rendessi conto di come hai mentito/ e degli squallidi trucchi che hai tentato/ neppure allora fermeresti la marea crescente...". Frasi che hanno in sé i geni della rivoluzione.
A modo suo, Zappa è stato un precursore del movimento anarcoide che di lì a qualche anno verrà catalogato sotto l'etichetta "punk", ancor prima nei contenuti che nell'impatto sonoro e soprattutto visivo. Lui per primo si è sentito un diverso, in un mondo anomalo, stravagante in una società bigotta e perbenista, ma intimamente stupida e timorosa dei cambiamenti, impaurita di guardare verso l'orizzonte del futuro, una generazione grottesca di tanti Peter Pan che in definitiva (anche se la massa del periodo non lo ammetterà mai) non ne voleva sapere di crescere e aveva paura di guardarsi allo specchio, fino a diventare una caricatura di se stessa. Ed è da queste caricature che Zappa costruisce il suo mondo freak, nel tentativo stravolgerlo. Come un ragno che costruisce la tela per intrappolare la propria preda, Zappa attraverso suoni (a tratti) dolci e melodici avvicina l'ingenuo ascoltatore per sorprenderlo con i pantaloni abbassati e far vedere, come in uno specchio immaginario, tutto quello che l'ascoltatore è in realtà e che per lungo tempo si è ostinato a non voler riconoscere.
Frank Zappa è un genio assoluto, che non può essere circoscritto semplicemente sotto la voce di musicista o chitarrista: è un artista, un innovatore, forse l'innovatore per eccellenza. Colui che mai ha ripetuto un lavoro, un disco, simile a quello precedente, un personaggio che oltre a prendersi gioco e sfidare la società ha saputo ridersi addosso, con una sottile e intelligente autoironia. Un artista integro e onesto che ha cavalcato l'istinto creativo del genio, percorrendo strade sempre tortuose che in molti casi non sono state capite dalla massa nel presente ma riscoperte nel futuro proprio perché troppo innovative per quei giorni. È stato un pioniere del rock, uno dei pochissimi. A volte ha smarrito la retta via, ma senza mai vendersi.
Tutto questo è "Freak Out", e molto di più. Disco fenomenale, dunque, che però non va visto attraverso ogni singola canzone che lo compone, ma nella sua interezza: i titoli non hanno importanza, in quanto si fondono fra loro, plasmandosi a vicenda. "Freak Out" è un disco che non esaurisce il proprio messaggio dopo un certo numero di ascolti, racchiudendo in sé una miriade di colori e sfumature che sorprendono sempre. Anche dopo anni di ascolto, infatti, è possibile trovare tra questi solchi sonori la più piccola delle idee che per tanto tempo era sfuggita anche al più attento degli ascoltatori. Ed è fondamentale, quell'idea sfuggita, proprio perché rimette "in gioco" tutto il discorso artistico di questa opera.
L'iniziale "Hungry Freaks Daddy" è un rock-blues impregnato di beat, nonché un diretto atto di accusa verso il sistema: i suoni sono ancora un po' acerbi, ma sono l'integrità artistica e gli arrangiamenti a sorprendere. Piccoli rumori disseminati qua e là, quasi fossero jingle pubblicitari, che creano un effetto volutamente fumettistico. "I Ain't Go No Hearth" è un altro tassello importante del disco, forte di un cantato a più voci dai forti colori blues di matrice britannica. Un brano "progressivo", nel senso che ha proprio nella sua sequenza melodica un crescendo di tensione, che raggiunge il climax attraverso una ritmica grintosa e un cantato sempre più sbeffeggiante.
"Who Are The Brain Police?" poggia su di un riff angusto e sinistro di basso, il cantato è sardonico, e si fonde in un bisbiglio tempestato da dissonanze elettriche che spazzano via i coretti solo apparentemente innocenti che l'avevano precedute. Frank Zappa si addentra a piene mani nell'avanguardismo più colto creando sonorità ai confini dell'ascoltabilità e di difficile fruizione, sperimentando alla radice il suono e soffermandosi anche più volte su questo aspetto, quasi a voler rimarcare il senso di caos rumoristico da cui scaturisce non solo questo brano, ma tutto l'album. Caos, senso di disagio, regole che saltano travolte da venti potenti di cambiamento, arte melodica messa alla berlina attraverso una ricercatezza spasmodica e profonda: è il controsenso zappiano. Dietro a un alone di finta stupidità si cela una ricerca seriosa che cozza con l'immagine satirica e grottesca che imperversa nel disco.
È un vero spasso ascoltare la musica di Zappa, dimostrazione ne è "Go Cry On Somebody Else's Shoulder", vero divertissement e presa di fondelli di tanti mielosi balli liceali anni 60, egregiamente ricreati attraverso perfette esecuzioni di voci e falsetti, cori nasali e negroidi, tutto all'insegna di un sentimento diabeticamente zuccheroso in cui Zappa sguazza quasi fosse uno squalo in un mare popolato da pesciolini rossi. Divertimento allo stato puro. "Motherly Love" è una beat song rabbiosa, arrangiata sinfonicamente e spezzata dai soliti brevi intermezzi spiazzanti, fatti di tanti gorgheggi e bozzettistici rumori vocali. "How Could I Be Such A Fool" lascia intravedere sonorità soul, e per un attimo Zappa sembra farsi serioso, meno velenoso, e forse più accomodante - ma è solo un'impressione, che viene spazzata via da "Wowie Zowie", con quel suo ammiccante e limpido riff chitarristico e il solito ripetitivo cantato sardonico, fatto di coretti e supportato da un tappeto ritmico a base di rock'n'roll e ritornelli rumoristici, popolati da tante gag cabarettistiche, con voci sgraziate che fanno capolino fra i solchi del brano come voci fuori dal coro, che proprio non vogliono saperne di tacere.
"You Didn't Try To Call Me", almeno apparentemente, inizia in maniera insolita per i canoni di Zappa, con un'apertura chitarristica tanto solare da far sembrare che improvvisamente un cielo sereno si sia frapposto alla moltitudine della bizzarria fin lì mostrata; ma come al solito è solo un'impressione, che viene demolita da improvvisi cambi di ritmo e repentini stacchetti realizzati da strumenti fiatistici che innovano il verbo rock arricchendolo di quella sinfonia fin lì mai udita, e voci che si impongono con una melodia e subitamente si sovrappongono con melodie opposte, riuscendo a creare nell'ascoltatore una netta sensazione di disorientamento. Autentico esempio di eclettismo, di cambiamento, di idee che zampillano fuori, stravolgendo completamente tutto quello che inizialmente era stato proposto, e poi, come niente fosse, la melodia caotica si ricongiunge con apparente semplicità a quella di partenza, quasi fosse stato un gioco subdolo a incastri. Tutto questo discorso vale anche per il brano successivo, "Any Way The Wind Blows", che prosegue sugli stessi canoni dimostrando di quanta finta innocenza si cibasse la società del periodo.
"I'm Not Satisfied" è incalzante fin dall'inizio: un piano liquido in sottofondo ricama note melodiche che contrastano la melodia vocale di Zappa, che si ricongiunge attraverso grotteschi vocalizzi e ci conduce verso atmosfere di falso sapore beat'n'roll. "You're Probably Wondering Why I'm Here" si addentra in sonorità surf, che però vengono subito spazzate via dall'umorismo velenoso di Zappa, mentre "Trouble Every Day" è un vero e proprio atto di accusa nei confronti degli incidenti del quartiere di Watts, a Los Angeles: l'atmosfera che si respira è incandescente, con un'armonica lamentosa che si mischia a un cantato duro e diretto. Le sovraincisioni delle chitarre elettriche sono avvolgenti e ripetono la stessa melodia, la ritmica è pesante e incisiva. Un rap primordiale, oserei dire, con il suo incedere cupo e senza via di scampo, così come anche "Help, I'm A Rock", contraddistinto da una cappa funesta e ripetitiva, monotamente agghiacciante, con quelle voci fuori campo e basso e chitarra che procedono a braccetto, scandendo come un metronomo triste il grigiore metropolitano.
"It Can't Happen Here" è un'iniziale esplosione di voci stonate, un linguaggio amorfo, che si spegne in prossimità di strumenti lasciati in piena libertà di spaziare in ambiti free jazz, ma le voci si intromettono nuovamente staccando le prese della corrente agli amplificatori e creando quell'ammasso di mormorii tali da rendere la canzone un corpo amorfo senza linee ben definite. Mentre un dialogo a due si esaurisce, prende corpo quel capolavoro che "The Return Of The Son Of Monster Magnet". Gigantesca suite di 12 minuti, con suoni spaziali e ritmica solitaria senza l'ausilio di un accompagnamento melodico, tribalismo eccentrico e confusionario, sperimentazione ai confini dell'immaginario sono gli ingredienti di questa partitura traboccante di rumore e portatrice di segnali provenienti da un regno anarchico, dove tutte le leggi e le regole sono andate a farsi benedire e l'unico inno a cui tutti sono devoti è esattamente l'assenza di un qualsiasi ordine specifico.
Per concludere, una menzione speciale per quella prima fantastica formazione che rispondeva al nome di Mothers of Invention e cioè: Ray Collins alla voce e armonica, Roy Estrada, basso, Elliot Ingber alla chitarra ritmica, Jimmy Carl Black alla batteria, oltre al nostro anfitrione, ma lui non ha certamente bisogno di presentazioni...
14/11/2006