Dobbiamo dimostrare che adesso siamo diventati adulti. Non siamo un gruppo punk, siamo un gruppo new wave.
(Jello Biafra)
Se si è abituati a vedere la musica rock da una prospettiva storica, e cioè come un continuo processo di trasformazione e contaminazione dei vari generi e stili, allora è probabile che la parabola dei Dead Kennedys per molti rappresenti lo stadio finale del processo di mutazione del punk in hardcore. Fenomeno nato a New York con i Ramones nel 1976, il punk, ed emigrato in Gran Bretagna per mostrarsi al mondo intero, sfociato poi in due importanti movimenti culturali oltre che musicali: la new wave e l’hardcore. Si sta semplificando, ovvio: probabilmente punk lo erano già gli Who, i New York Dolls, gli MC5 e gli Stooges; ancor prima, forse, lo era Link Wray.
Ma se è complicato stabilire come si arrivi al punk, appare più semplice delineare come da quest’ultimo si arrivi all’hardcore. Basta trasferirsi in California e chiedere dei Germs a Los Angeles e dei Dead Kennedys a San Francisco. Nel 1979 la band di Derby Crash (morto a 22 anni nel 1980) pubblicava, infatti, quell’immensa, seminale pietra miliare chiamata "(GI)", che rimane il loro unico album vero e proprio; ma tanto bastò per far sì che il proto-punk di Detroit, la foga punk‘n’roll newyorchese e il nichilismo dei Sex Pistols venissero centrifugati, amplificati e soprattutto accelerati in violenza sonora, potenza ritmica e dramma esistenziale (“We must bleed”, “dobbiamo sanguinare”, fu la loro “Anarchy In The U.K.”).
Ai Dead Kennedys, allora, spettò il compito finale: quello di istituzionalizzare (che brutto termine!) l’hardcore (ritmi più veloci, chitarre più pirotecniche e “I don’t need your way of life”), riscoprendo anche una consapevolezza politica e sociale, seppur ferocemente connotata da ironia e cinismo. Il loro album d’esordio sarà all’insegna del proto-hardcore più ferino e mirabolante mai ascoltato, laddove il successivo mini In God We Trust apparirà come il più classico dei dischi di un genere che, insieme ai coevi lavori di Minor Threat e Black Flag, andava raccogliendo l’eredità più ferina del punk. Sono proprio gruppi come gli appena citati Black Flag e Minor Threat, insieme a molti altri nomi "minori" della scena hardcore come TSOL e MDC, a dover molto al gruppo di Jello Biafra. Infatti, i Dead Kennedys, pur esordendo su disco nel 1980, erano già attivi a San Francisco sin dal 1978, mentre l’anno successivo pubblicavano su singolo “Califonia Uber Alles”, portando in giro per i locali californiani un tipo di musica che loro stessi definivano new wave; una definizione che a molti farà storcere il naso, ma che a ben vedere non è campata in aria. In un certo senso i Dead Kennedys erano la dimostrazione che il punk era maturato e l’hardcore che da esso era nato non era che una nuova, più violenta e consapevole, onda punk.
La band venne fondata da Eric Boucher, che si ribattezzò Jello Biafra, prendendo a prestito il marchio commerciale di un dolce gelatinoso (Jell-O) e il nome di una regione secessionista nigeriana (il Biafra), dal chitarrista East Bay Ray, dal bassista Klaus Flouride e dal batterista Carlos Cardona, che venne presto sostituito da Bruce Slesinger. Biafra era una sorta di agitatore politico, famoso a San Francisco per essersi candidato a sindaco, nel 1979, con un programma elettorale pseudo-anarchico, ottenendo il non irrisorio risultato di arrivare quarto, col 4% dei voti, su dieci candidati.
L’anno dopo vide la luce Fresh Fruit For Rotting Vegetables, album in cui, in effetti, di politica ce n’è tanta, anche se fortunatamente le liriche non scadono mai nella semplicistica propaganda o nell’innocuo moralismo. Non erano politically correct, i Dead Kennedys, e come potevano esserlo con quel nome, e la copertina di questo primo album, una fotografia che mostra una scena di guerriglia urbana durante le White Night Riots[1], ne è un chiaro esempio: una foto in bianco e nero, macchine della polizia che bruciano, le fiamme che salgono verso il cielo, il fumo che si sperde nell’aria. In alto, a sinistra, una scritta verde a caratteri gotici con il nome del gruppo, “Kennedy Morti”. Sacrilegio, eresia, bestemmia.
Nome della band e packaging del disco ebbero da soli già effetti deleteri sulla fama del gruppo, a prescindere dalla violenza sonora e verbale della musica, tanto che la Irs Records, etichetta americana per cui la band aveva firmato, riscontrò enormi difficoltà nella distribuzione del disco; alla fine fu l’etichetta inglese Cherry Red a rendere reperibile, tramite importazione ovviamente, l’album in America. Non è un caso dunque che l’esordio dei Dead Kennedys vendette meno in America che in Inghilterra; addirittura i Dead Kennedys partirono per un tour in terra d’Albione dove mostrarono che se in Gran Bretagna e in gran parte degli Usa il punk era morto mentre partoriva la new wave, in California si era trasformato in hardcore.
Le canzoni di Fresh Fruit For Rotting Vegetables sono sparate a una velocità folle: detonano nel chitarrismo brado di East Bay Ray e nelle performance istrioniche di Jello Biafra; crepitano nella dinamitarda sezione ritmica allestita da Klaus Fluoride e Bruce Slesinger. L’inizio di "Kill The Poor" distorce gli stilemi di certo pop-rock britannico: è come nuclearizzare i Beatles o i Kinks a base di riff trucemente acidi (East Bay Ray in tale pratica si destreggiava particolarmente); da parte sua, Biafra declama come un clown scalmanato, mentre la sezione ritmica accelera bruscamente accompagnando un ritornello al fulmicotone. “I don’t need this fucking world”, "Non ho bisogno di questo fottuto mondo", urla Biafra nella successiva "Forward To Death": più che una canzone, un empito deflagrante di un minuto e venti secondi.
"When Ya Get Drafted" è il manifesto estetico del rock proposto dai Dead Kennedys: ci sono l’ironia (espressa attraverso il canto malato di Biafra), la ferocia (presente nelle devastazioni ritmiche di Fluoride e Slesinger) e il senso del macabro (avvertibile nelle armonie tremolanti tratteggiate da East Bay Ray). Ma i Dead Kennedys, pur essendo già con un piede nella fossa dell’hardcore, con l’altro restano miracolosamente attaccati a un’idea malsana di rock’n’roll, propulsivo e corrosivo all’ennesima potenza ("Let’s Lynch The Landroad", "Stealing People’s Mail", "Funland At The Beach" e la cover di "Viva Las Vegas", canzone resa famosa da Elvis).
I pezzi più complessi sono senz’altro "Chemical Warfare" (furioso ballo belligerante, interrotto da uno scarmigliato giro di valzer), "Ill In The End" (un pezzo talmente distorto, caratterizzato da repentine involuzioni ritmiche e armoniche, da farsi quasi decostruito) e il mantra atomico di "Drug Me".
La strada verso l’hardcore viene spianata da pezzi atroci quali "I Kill Children" e "Forward To Death", le cui liriche sono, per livore, impatto e realismo, un vero e proprio calcio nei coglioni: “I kill children/ I love to see them die/ I kill children/ And make their mammas cry" ("Io uccido bambini/ Amo vederli morire/ Io uccido bambini/ E faccio piangere le loro madri").
E infine ci sono i due insuperati capolavori del disco: "California Über Alles" e "Holiday In Cambodia".
"California Über Alles" è un’invettiva lanciata all’allora governatore della California Jerry Brown, con riferimenti al nazismo e al romanzo "1984" di George Orwell: “I will be Fuhrer one day... now it’s 1984” ("Un giorno sarò un Furher... adesso è il 1984"). Il pezzo inizia con il sordo maciullare dei tamburi aggrediti dal rumor bianco della chitarra, ed esplode poi in un anthem tanto memorabile quanto nefasto. "Holiday In Cambodia" è invece una sorta di viaggio punk-psichedelico la cui rotta è tracciata dalla chitarra di East Bay Ray, che dilata l’atmosfera per mezzo di prolungati riff liquidi, e dall’interpretazione di Biafra, che raggiunge picchi di cinismo, isteria e delirio nel proporre tanto a collegiali radical-chic che a figli viziati di buone famiglie una “bella” vacanza in Cambogia, in mezzo alla guerra civile e agli stermini sistematici operati dal guerrigliero-dittatore Pol Pot, il cui nome è anche citato alla fine del testo, ma con valore esclusivamente onomatopeico.
Nel 1981 i Dead Kennedys tornarono con un nuovo Ep, In God We Trust, Inc., e con una nuova line-up (Bruce Slesinger era stato sostituito da D.H. Peligro). Il nuovo innesto dietro ai tamburi diede un’ulteriore accelerata ai brani: il ritmo delle canzoni divenne più incalzante, mentre le liriche di Biafra gettavano altra benzina sul fuoco già appiccato con l’album precedente. I brani simbolo di quest’ultimo passo verso l’hardcore sono “Nazi Punk Fuck Off!”, che rappresenta una dura abiura dell’ala nazistoide del punk, e “Religious Vomit”, che è invece un attacco a tutte le religioni, accusate di adescare fedeli promettendo loro l’eternità in cambio di soldi (“free for a fee”). A questo proposito, risulta esplicativo anche l’artwork di copertina del disco, ideato dallo stesso Biafra e realizzato dal grafico Winston Smith, che mostra l’immagine di un Cristo crocifisso su una croce fatta di invitanti bigliettoni. Ma stavolta, per evitare problemi di distribuzione e aggirare ogni tipo di censura, Biafra decise di fondare una propria etichetta, la Alternative Tentacles, che non solo producesse In God We Trust, Inc. e i successivi album dei Dead Kennedys, ma che sostenesse anche altre band emergenti della scena hardcore statunitense (memorabile fu la compilation dal titolo “Let Them Eat Jellybeans”, licenziata dalla neonata label nel 1981, nella quale comparivano, tra le altre, band del calibro di Black Flag, Bad Brains, Half Japanese, Flipper, Circle Jerks e DOA).
Come già accennato in precedenza, con Peligro ai tamburi la ritmica delle canzoni accelera bruscamente e i tempi diventano quelli serratissimi dell’hardcore vero e proprio. Ciò comporta dei cambiamenti anche per gli altri elementi del combo: le asprezze delle chitarre raggiungono il loro apice, che diverrà in qualche modo anche uno standard, mentre il canto da giullare rivoluzionario di Biafra si assesta su declamazioni più dure e dirette, seppur colorate da estrose sfumature timbriche.
Gli elementi portanti dell’hardcore vengono definiti chiaramente in pezzi come "Hyperactive Child", "Kepone Factory", "Dog Bite", nonché nelle già citate “Religious Vomit” e “Nazi Punks Fuck Off”, in un disco che, nonostante la brevità, resta un punto di partenza (o di arrivo, dipende dai punti di vista) per la musica hardcore tutta. Si sottraggono parzialmente a tali schemi solo "Moral Majority", che prima di scatenarsi in un pandemonio immane si cinge di insoliti umori liturgici, e “We’ve Got A Bigger Problem Now”, ovvero una sorprendente prova d’abilità camaleontica dei Nostri, che trasformano “California Über Alles” in uno swing per jazzisti falliti (il bersaglio di Biafra stavolta non è Jerry Brown, ma un certo Ronald Reagan)!
Il seguito non si fece attendere molto; nel novembre del 1982, infatti, arrivò nei negozi Plastic Surgery Disasters, disco che da un lato consolida gli stilemi dell’hardcore, confermando la formula stilistica dei due dischi precedenti, e dall’altro camuffa in avamposti dinamitardi inflessioni rock’n’roll (l’andamento di “Halloween” ricalca quello dei classici del rockabilly), surf (in questo caso, mettete a verbale l’incipit di “Forest Fire”), ska (gli irriverenti contrappunti di sax e clarinetto in “Terminal Preppie”) e persino pop (“Moon Over Marin” è un’insolita gemma melodica, resa leggermente grezza dalla performance vocale di Biafra, in grado di competere con gli Husker Du più ispirati nel fondere hardcore e pop). A ben vedere, una delle qualità principali della band californiana è stata proprio la capacità di saper declinare al verbo hardcore una piccola fetta di quel nutrito sottobosco di musiche che sono per tradizione prettamente americane (certo, non possono esserci tracce di blues o di folk nella musica dei Dead Kennedys, ma, come si è già visto, è altrettanto vero che il rock’n’roll e la musica surf sono territori comunque forieri di spunti per la band di Biafra, così come lo diverrà in futuro la musica country).
Ovviamente tutto ciò non preclude ai quattordici brani in scaletta di imporsi come veri e propri carri armati sonori, pronti a devastare tutto quello che incontrano lungo la loro strada: dalle orecchie dell’ascoltatore al suo cervello. La sezione ritmica è ormai collaudata: il basso di Klaus Flouride ha il compito di avviare i brani e di aprire la strada agli straripamenti ritmici di Peligro, mentre East Bay Ray con la sua chitarra si produce, oltre che nel suo consueto campionario di disarmonie efferate, in assoli al fulmicotone meno strabordanti che in precedenza, ma non meno efficaci.
I testi di Biafra, come al solito, sono invettive politiche e sociali scagliate con rabbia e acrimonia: il trash’n’roll di “Bleed For Me” denuncia le torture e gli stermini compiuti dalla Cia in nome della pace, mentre la già citata “Terminal Preppie” si scaglia invece contro i “preppie” (termine intraducibile che designa una tipologia di persone simile ai nostri paninari, tanto per intenderci, solo un po’ più cool perché tipici collegiali).
L’unico appunto che si può muovere a Plastic Surgery Disasters è la mancanza di brani clamorosi, capaci di racchiudere in sé l’essenza del disco, della band e, perché no, di un’intera scena musicale (in fondo è quello che avevano fatto le varie “California Über Alles”, “Kill The Poor” e “Holiday In Cambodia”). La loro rivoluzione, però, i Dead Kennedys l’avevano già fatta, e al loro terzo disco non si poteva chiedere altro che omogeneità stilistica e alta qualità media dei brani; obiettivi, questi, centrati in pieno. Allora, se proprio si dovesse indicare un brano su tutti, la scelta non potrebbe non ricadere su “Riot”, canzone di sei minuti che inizia come un pezzo di cabaret dell’orrore e prosegue in una cavalcata sinistra, scandita da tamburi ancestrali e fuzz lisergici.
La riedizione più recente dell’album, quella della Manifesto del 2001, accoppia Plastic Surgery Disasters al precedente Ep: una ristampa imperdibile.
L’uscita di Frankenchrist nell’ottobre del 1985 coincide con un punto di arresto nell’elevata qualità dei lavori discografici dei Dead Kennedys riscontrata fino a Plastic Surgery Disasters.
Frankenchrist è un disco anche coraggioso in un certo senso, perché rifugge quasi completamente gli schemi canonici dell’hardcore, ma allo stesso tempo si tratta anche di un lavoro non molto convincente: in pratica, la band californiana evita di cadere nella padella della ripetizione stantia di modelli ormai cementati, finendo però nella brace di un rock certo variegato (dai retaggi dark-psichedelici di “A Growing Boy Needs His Lunch” al western tirato a lucido di “Goons Of Hazzard” passando per il pogo psychobilly di “Macho-Rama”), ma in fondo convenzionale e inoffensivo, nonostante la consueta verve polemica delle liriche (“Chicken Farm” è forse il brano più sciatto mai inciso dai Nostri). Anche il canto di Biafra risulta in qualche modo ingentilito e non più feroce come in passato, tanto da sciorinare con nonchalance persino performance da crooner nottambulo come nell’iniziale “Soup Is A Good Food”. Si registrano altre anomalie nelle trombe mariachi di “Mtv Get Off The Air” e nei pesanti zampilli di synth che trasformano “At My Job” in un improbabile tribal-industrial alla 23 Skidoo; anomalie che però non sarebbero in sé dannose, se non fosse per quella patina di gratuità che le avvolge.
Appena un anno dopo, nel novembre del 1986, Biafra e soci rispolverarono l’artiglieria pesante in Bedtime For Democracy: ventuno pezzi, di cui diciotto dalla durata media di due minuti. Sfoderata di nuovo la brutalità messa da parte nel disco precedente, i Dead Kennedys ricorrono comunque, in modo sporadico ma caparbio, a stilemi ritmici e armonici derivati stavolta dalla musica country (le iniziali “Take This Job And Sove It”, rilettura di un brano di David Allan Coe, e “Hope With The Jet Set”). La scaletta dell’ultimo disco in studio dei Dead Kennedys è completata da altri tre brani più lunghi: “Cesspools In Eden”, brano non certo memorabile ma che si segnala per gli schizzi elettrici di East Bay Ray; “Chickenshit Conformist”, che vive di improvvisi cambi di tempo; “Lie Detector”, impetuoso e perfetto inno hardcore-punk. Anche Biafra nei suoi testi ritrova acume e brillantezza, spiattellando in faccia ai bulli hardcore-metal la loro insicurezza in “Macho Insecurity” e inveendo contro gli ipocriti acquirenti di spille e maglie con il simbolo dell’anarchia in “Anarchy For Sale”.
La storia dei Dead Kennedys in quanto gruppo finisce nel 1986, prima ancora della pubblicazione di Badtime For Democracy. Il brutto periodo per i Nostri era iniziato infatti l’anno in cui era stato pubblicato Frankenchrist, che conteneva la riproduzione di un’opera del grande artista H.R. Giger dal titolo “Penis Landscape”, “paesaggio di peni”. Le irriducibili associazioni di genitori rompipalle e bigotti temettero per l’incolumità psichica dei loro figli e intentarono causa all’Alternative Tentacles. Alla fine il processo si concluse con un nulla di fatto (in culo al perbenismo moralista; mi si perdoni il linguaggio inelegante) ma il sostenimento delle spese legali aveva comunque messo sul lastrico Biafra e soci, inducendoli alla separazione.
Il vocalist avvierà una carriera solista dignitosa, ma sarà trascinato in tribunale nel 2000 proprio dai suoi ex-compagni in merito a questioni di royalties: East Bay Ray, Peligro e Flouride lo accusarono di aver incassato larga parte dei diritti d’autore delle canzoni senza corrispondere agli altri tre la vera somma che a loro spettava. Biafra fu condannato per frode e dovette versare nelle tasche degli ex-membri dei Dead Kennedys la bellezza di duecentomila dollari. Sono in molti a pensare che in realtà i tre trascinarono Biafra in tribunale per vendicarsi della mancata concessione di “Holiday In Cambodia” per uno spot della Levi’s. Seguiranno un triste teatrino di reciproche accuse, dispute sulle attività commerciali legate al marchio Dead Kennedys e all’utilizzo delle loro canzoni in film e spot e persino un nuovo processo, che si concluse con la concessione agli altri tre membri di riesumare la sigla Dead Kennedys senza la presenza del suo fondatore storico.
Tornando alla musica, c’è ancora da segnalare la pubblicazione di Give Me Convenience Or Give Me Death, gustosa raccolta di b-side e rarità, uscita nel 1987 sempre per la Alternative Tentacles.
Il doppio colpo iniziale di “Police Truck” e “Too Drunk To Fuck” è senza dubbio micidiale, ma sono notevoli anche episodi come “The Man With The Dog”, “Life Sentence” e “Saturday Night Holocaust”, tutte canzoni che grondano sangue, adrenalina e napalm. Risultano interessanti, poi, sia le single version di capolavori come “California Über Alles” e “Holyday In Cambodia”, presentate in vesti leggermente meno enfatiche e morbose, sia la cover di un classico di Bobby Fuller come “I Fought The Law”. Resa epica e commovente (un’esplosione di gioia ribelle incontenibile) nelle versione che nel 1977 ne diedero i Clash, “I Fought The Law” diventa nelle mani dei Dead Kennedys più minacciosa e disillusa. Sono da segnalare, infine, anche i divertissment live di “Pull My String” (inizia accennando “California Über Alles”, poi fagocita “My Sharona” dei Knack, facendola diventare polemicamente “My Payola[2]”, ed esplode in un canto liberatorio ed esaltante) e “Night Of The Living Rednecks” (la sezione ritmica improvvisa un be-bop e Biafra ci ricama su una storia da declamare delirando).
Se questi diciassette brani si possono considerare, almeno dal punto di vista discografico, dei figli minori, non si può però non riconoscere l’indubbio valore di una raccolta che, lungi dall’essere una semplice accozzaglia di materiale celebrativo, ci restituisce alcuni degli episodi meno conosciuti, ma ugualmente meritevoli di interesse, della band californiana.
Nel 2001 la Manifesto Record pubblicò il disco live Munity On The Bay, che raccoglie brani dal vivo registrati in giro per gli States dal 1982 al 1986, al quale fece seguito l’uscita nel 2004 del ben più importante Live At The Deaf Club, registrazione di un intero concerto che i Dead Kennedys tennero al Deaf Club di San Francisco il 3 marzo del 1979. Quest’ultimo live, rispetto al precedente, è vivamente consigliato, non solo perché si tratta di un’importante testimonianza storica in presa diretta, ma anche in virtù di una scaletta mozzafiato: da una sorprendente versione funk di “Kill The Poor” alla prima versione di “When Ya Get Draft intitolata “Back In Rhodesia”, dalle immancabili “California Über Alles” e “Holiday In Cambodia” a “Police Truck”, dalle piacevoli riletture di Honeycombs (“Have I The Right?”) e Beatles (“Back In The U.S.S.R.”) alla ormai classica cover di “Viva Las Vegas”.
È bello ricordarli così i Dead Kennedys, incazzati col mondo ma non ancora lacerati da beghe legali e da dissapori, lontani dalle trappole e dalle brutture che il sistema dell’industria discografica indipendente aveva in serbo per loro (si può giocare a fare i dissidenti quanto si vuole, ma alla fine il denaro ha sempre la meglio sulla musica, purtroppo). E non ha nemmeno tanta importanza sapere se avesse ragione Biafra o i suoi ex-compagni, non ha senso schierarsi con gli uni o con l’altro come hanno fatto molti fan, perché la memoria dei Dead Kennedys, quelli veri e rivoluzionari e non le macchiette riunitesi negli ultimi anni solo per racimolare qualche soldo, sarebbe dovuta venire prima di tutto. Über Alles.
Fresh Fruit For Rotting Vegetables (Cherry Red, 1980) | 9 | |
In God We Trust, Inc. (Ep, Alternative Tentacles, 1981) | 8 | |
Plastic Surgery Disasters (Alternative Tentacles, 1982) | 7 | |
Frankenchrist (Alternaive Tentacles, 1985) | 5 | |
Bedtime For Democracy (Alternative Tentacles, 1986) | 6,5 | |
Give Me Convenience Or Give Me Death (Alternative Tentacles, 1987) | 7 | |
Munity On The Bay (Manifesto Record, 2001) | 6 | |
Live At The Deaf Club (Manifesto Records, 2004) | 7 |
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