A Coldwater, una piccola cittadina nel sud del Michigan, crebbero spensierati i fratelli Fair, David e Jad. Nel 1974, i due andarono a vivere, insieme con l'amico David Stansky, in una tettoia per barche, cui fu dato il nome di Bessie's Paris. Iniziarono così i primi "esperimenti" con chitarre, batteria raffazzonata, pentole di alluminio (!) e sax. Mentre Stansky poteva contare su qualche piccola conoscenza musicale, i due fratelli erano completamente a digiuno di nozioni. Non per questo, però, evitarono di darsi da fare, conducendo le loro prime session in maniera così audace e spericolata da venire a capo di un suono fino allora inconcepibile. Gli standard che venivano riletti di volta in volta ("Gloria", "All Day And All Of The Night", "Ain't No Santa Claus On The Evening Stage") si basavano su pochissimi accordi, ma erano talmente sviscerati dalla loro forza primitiva e nichilista da risultare irriconoscibili. Gli stessi "brani" autografi firmati in quel periodo mostrano come i tre avessero imboccato una strada che già prefigurava quella sintesi abominevole che gli Half Japanese regaleranno al mondo della musica come una delle conquiste più importanti e oltraggiose di tutti i tempi. Sulla scorta di pilastri del primitivismo e dell'"analfabetismo" musicale come "Philosophy Of The World" delle Shaggs e "Trout Mask Replica" di Captain Beefheart, Jad Fair (che alla lunga si rivelerà essere il vero genio della situazione) aveva, insomma, messo a punto il primo discorso compiuto sul "lo-fi", quella cultura musicale che fa del "pressappochismo" tout court la forza motrice primaria dell'atto compositivo ed esecutivo.
All'altezza di questo periodo, venne anche coniato il monicker "Half Japanese" (alcune parole, scritte su striscioline di carte, furono estratte a caso da un cappello). Contemporaneamente, David fu costretto a letto da una malattia e gli altri due membri dovettero arrangiarsi alla meglio… Altri "musicisti" - cui era imposto il divieto tassativo di imparare a suonare uno strumento - presero parte, sporadicamente, alle interminabili sedute musicali che si tenevano a Bessie's Paris. Nel 1976, però, la band dovette momentaneamente sospendere la sua attività "clandestina". David s'era infatti trasferito in California, mentre Jad si spostò a Uniontown, nel Maryland, al seguito dei genitori.
Tuttavia, poco dopo, i due riesumeranno la band. David, infatti, raggiunse il fratello nel Maryland. Senza l'apporto di Stansky - che in qualche modo fungeva da "collante"- il suono si fece ancora più incomprensibile e sbilanciato. Il repertorio continuava a inglobare cover di artisti quali Who, Lou Red, Rolling Stones, Sonics, etc., e originali firmati in coppia. Al canto - cui fino a quel momento si era dedicato Stansky - Jad conferì un ulteriore senso della disintegrazione e della "riduzione": egli, infatti, cantava in maniera totalmente sfasata, strascinando le sillabe una dentro l'altra, dando la sensazione di un enorme ammasso di non-senso, un flusso di coscienza "nerd", quasi come se il canto rispecchiasse, in tutto e per tutto, l'andamento torrenziale, disumano e altamente informale della musica.
Quella degli Half Japanese è musica che, prima del punk, ha già inglobato ed elaborato quella lezione iconoclasta, superandola in un modo così rivoluzionario da avvicinarsi a una versione epilettica di "lo-fi" astratto, ma dal piglio intellettuale. Musica che si crogiola nel caos, che deve fare i conti, in un modo o nell'altro, con le Shaggs, con mastro Van Vliet, con gli Stooges (quelli di "Raw Power"), con le tavolozze "esplose" di Jackson Pollock, con i Velvet Underground (di una "Sister Ray" liofilizzata) e, tanto per gradire, con le esplorazioni al limite dell'automatismo psichico del free-jazz.
Queste coordinate furono meglio sviluppate con la messa a punto del nuovo materiale. Siamo nel 1976. I temi delle "canzoni" sono quelli classici: amore, sesso, denaro. Ma nei due fratelli prendono direzioni opposte. In David, le canzoni d'amore, ad esempio, partono da un input interno, convergendo, poi, verso l'esterno, in un ampliamento universalistico. L'approccio è quasi sempre "positivo". In Jad, invece, pur essendoci lo stesso sense of humor, la prospettiva è opposta: dall'esterno verso l'interno, in una rievocazione speculare di quel macro-fenomeno che a cavallo tra i Sessanta e i Settanta spostò il baricentro della musica giovanile dal senso di comunitarietà della stagione di Woodstock a quello individualistico dei loft, delle camerette buie e polverose della "blank generation".
Non è fuorviante, quindi, individuare nei primi passi del duo di Coldwater anche i germi di quel movimento, di quella "estetica" dell'auto-flagellazione e del nichilismo in musica che sarà denominata "no wave". I tratti caratteristici, infatti, vi sono già tutti: la violenza e la frenesia del punk, vivisezionate e trasferite nel territorio oscuro dell'atonalità; un carattere "intellettuale" (da bohèmienne dello schifo morale) che "zooma" sul processo di "primitivizzazione" della materia sonora; la dilatazione dei limiti dei brani che passa inevitabilmente lungo tangenti di matrice "free", con assoluta preponderanza dell'istinto amatoriale sulla ragione calcolante. La negazione dell'"onda", di un qualsiasi movimento, dimostra, inoltre, come il carattere ultimo della "no wave" fosse quello dell'"inclassificabilità": di generi, forme e stili.
Agli albori del 1977, in piena esplosione punk, gli Half Japanese realizzano il loro primo Ep, "Calling All Girls". Un anno dopo, sarà la volta di "Mono/No-No". Entrambi i lavori, autoprodotti, saranno distribuiti prevalentemente per posta. Altre cassette registrate alla meglio saranno inviate ai loro fans più incalliti. Un terzo Ep, "Oriental Girls", fu programmato ma non fu mai dato alle stampe.
Il 1979 è l'anno della definitiva svolta per il duo. Peter Dyer, un immigrato inglese residente ad Atlanta, contattò Jad e David, proponendogli di pubblicare qualcosa per la sua nuova label, la Armageddon. Come unica condizione, i due fratelli posero ed ottennero che il loro esordio sulla lunga distanza fosse un triplo Lp!
Uscito nel 1980, "1/2 Japanese/Not Beasts" resta, infatti, come l'unico triplo disco d'esordio della storia del rock…e, con pochissimi dubbi, come uno dei più radicali esempi di "rock-music" che si possano trovare sulla faccia del pianeta.
Tra le 50 tracce (difficile definirle "canzoni"…), trovarono spazio gran parte dei due Ep pubblicati, due documenti live (in cui i Fair sono affiancati da Rick Dreyfuss - batteria - e John Dreyfuss - sax), alcune cover e numerose nuove composizioni (alcune delle quali in doppia versione). Per quelli che ebbero la fortuna di imbattersi in quella copertina inquietante, lo shock fu enorme. D'un tratto, anche la punk-band più incapace apparve come un ensemble di musica da camera. E, a tutt'oggi, non è che le cose siano poi cambiate di molto… Gli Half Japanese non vogliono riscrivere le regole. Semplicemente, le ignorano. Coscientemente.
Un rullare inespressivo di batteria lancia la molotov sghemba, diabolica e, a suo modo, "ballabile" (!) di "No Direct Line From My Heart To My Brain", con finale per chitarre sventrate. "10th Avenue Freeze Out" riprende (?) Springsteen e lo trasforma in acciaio liquido, con chitarrine stuprate e progressioni di un minimalismo tribaloide e deficiente.
"Ta Sheri Ta Ta" è nonsense per percussioni sorde, tonfi di piatti, pulsioni ipnotiche di basso e canto-zombie. Scheggia di espressionismo subdolo, tenebroso. Altro che "no wave"! "No", e basta… In "My Girlfriend Lives Like A Beatnik" ci sono già i Royal Trux di "Twin Infinitives" (basta solo aggiungere maggiore spessore e profondità al suono). "Her Parents Came Home" è un tornado di devastazioni punk. Le frequenze lancinanti di "Shhh/shhh/shhh" (con piccoli accenni di tamburo e un lamento sinistro appena percepibile) sono un esempio di avanguardia tutt'altro che gratuita, che ritroveremo anche in "Rrrrrrrr" (per tastiere sgangherate e spasmi lisergici che dilaniano scampoli di elettronica Cage-ana), "Jodi Foster" (squallido groviglio dadaista di chitarre cadaveriche che farebbe impallidire Derek Bailey, ombra sinistra che s'allunga anche tra le pieghe dell'esperimento di ballata "archetipica" di "Ain't Too Proud To Beg"), "Tn Tn Tn Tn Ki" (in cui un rullante percosso ritmicamente fa da sfondo per le evoluzioni aleatorie di una linea in perenne frantumazione di synth), "Du Du Du/Du Du Du" (sette minuti e oltre di basso circolare e rullare militaresco: ovvero, dell'inutile - stesso discorso per "T/T/T/T/T/T", con riff monocorde e catramoso, battiti di macchina per scrivere e "bleeps" anemici), "I'm Going To The Zoo" (liriche idiote e polluzioni insistite), "Shi Yi Yi" (per lamenti e versi sub-umani), "BBBBBBB/BBBBBBB/BBBBBBBB" (in cui una figura di synth è ripetuta all'infinito, quasi a fungere da controparte onomatopeica del titolo) e, infine, "Grrrrrrrrrrrrrrrr" (che esplora i confini armonici generati dallo scontro tra una chitarra noise, rigurgiti sintetici e il blaterare demente di Fair).
Tutte soluzioni che potrebbero far pensare a una versione per l'era post-atomica della new-age, così come le stesse "Bogue Millionaires/Cool Millionaires", "Dream Date" e "I Ta Na Si Na Mi Eee" sembrano evidenziare oltremisura. Incredibile a dirsi, ma "Girls Like That" ha una parvenza di riff chitarristico e un andamento quasi canonico, ma da ballata eroinomane. Il manifesto "progressista" di "No More Beatle Mania" potrebbe essere un brano dei Big Black, ma suonato a velocità supersonica. Pura estetica dell'annientamento applicato. Da qualche parte, in "Tangled Up In Blue", c'è il fantasma di Bob Dylan… "Patti Smith" gioca con scampoli di hard-rock lobotomizzato. "The Worst I'd Ever Do" inciampa in insensatezze soniche da manicomio criminale, mentre "School Of Love", "Ann Arbor, Mi" e "Rip My Shirt To Shreds" si spingono ancora oltre nella deflagrazione atonale della materia sonora.
Sono brani che non concedono alcuna tregua. Le stesse cover, che pur dovrebbero conservare qualche legame con la versione originale, non fanno altro che implodere rovinosamente su se stesse, dilaniate da una foga vertiginosamente assassina. La cover non è più un omaggio a chicchessia e nemmeno un modo per confrontarsi con creazioni altrui. E' un atto deliberato di appropriazione indebita. Senza rispetto.
Altri artisti costretti a subire questo trattamento sono Buddy Holly ("Rave On"), i Modern Lovers ("She Cracked", ridotta a filastrocca demente intervallata dal pigolio graffiante del synth, prima della sua completa "cancellazione" nel finale), i Velvet Underground ("I Can't Stand It Anymore", con il tam-tam a là Maureen Tucker - ancora più ossessivo - e le chitarre-droni che vanno e vengono).
Le dissertazioni "minimali", oscure e pesanti della "no wave" trionfano in brani quali "I Love Oriental Girls", "Shy Around Girls", "Till Victory" (quest'ultimo, impossibile incrocio surrealista tra i Mars, Zappa e una band di trogloditi vestiti a festa), "I Don't Want To Have Mono No More" (con una delle performance vocali più spastiche dell'intero lotto) e nella fanfara-giocattolo di "I'm Sorry". Dentro questi brani, sepolte da qualche parte, ci sono anche mine vaganti di psichedelia cacofonica, soprattutto nei solo miniaturizzati delle chitarre. Come quelli che, ad esempio, impazzano nei due documenti live, "Live In Baltimore MD." (20'16") e "Live In Washington DC" (18'16").
Dal vivo, la forza dirompente e brutale dei loro assalti diventa ancora più insostenibile, grazie anche all'apporto di batteria e sax - quest'ultimo, dal suono torrido, nevrastenico fino alla follia (punto di passaggio tra Ayler e l'"avant-shronk" dei Borbetomagus). Baccanali dissennati, che fondono i Dead Boys con i rituali annichilenti degli Electric Eels, erigono un monumento all'irrazionalità e all'incapacità strumentale. Una non-musica suonata da non-musicisti per un non-pubblico, in quanto non più spettatore, ma traghettato oltre se stesso, verso il più barbaro dei deliri. Nelle tracce restanti, anche il funk subisce torture al limite della sopportazione, come in "Funky Broadway Melody", dove la batteria (o chi per essa…) pulsa asettica e rassegnata. Ultimi lampi d'isteria sono quelli di "Battle Of The Bands" (che è l'esasperazione psicopatica del punk più "arty", con i versi generazionali "New Wave, New Wave! No More Beatle Mania!"), "Knock On Wood" (che si getta a rotta di collo in un'impenetrabile bolgia poliritmica), "Top Secret" (brevissimo cataclisma percussivo circolare), "Guitar Solo" (trillante concerto di accordi dissonanti) e "Calling All Girls".
Lo scempio è reiterato e totalizzante. E' l'essenza stessa del rock a essere intaccata. Un colossale patchwork di generi, frullati da un violentissimo impeto post-moderno: ecco cosa è diventata la musica giovanile. Scrittura automatica dello spirito e del corpo. Musica "troppo nuda e pura per essere fraintesa", come ha rilevato Byron Coley. Musica come istinto, come urlo liberatorio, come espressione assoluta e senza compromessi. Istantanea in technicolor deteriorato di una generazione in frantumi.
30/10/2006
Disc 1
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