Figli degeneri e tossici del rock più bislacco e malsano, pronipoti sbandati del blues più viscerale e marcio, i Royal Trux (Neil Hagerty, ex Pussy Galore, alla chitarra e Jennifer Herrema all'organo) riuscirono con "Twin Infinitives" nell'impresa di massacrare trent'anni di rock, da allora irrimediabilmente "mutante" e, con buona pace di molti, davvero "post-".
E' sintomatico che questa rivoluzione epocale (e, precisiamolo, ancora scevra di sviluppi concreti…) sia stata avviata con un decisivo quanto programmatico ritorno all'origine; ai Rolling Stones, per la precisione: la band con cui il rock divenne definitivamente adulto. Che poi anche le "pietre rotolanti" fossero a loro volta figli del blues e del rock'n'roll primigenio, questo è oltremodo indicativo di come ogni vera innovazione-rivoluzione sia solo (?) un poggiare più deciso sulla testa dei giganti. Perciò, se qualcuno ha proferito il nome di Robert Johnson (ma anche di altri grandi bluesmen delle origini), allora si faccia avanti, spiegando cosa ci fosse dietro quegli accordi sghembi e stranamente indecisi; dietro quel canto-recitazione così sofferto e pregno di vita. Magari, dica anche che, in fondo, il blues (quello vero…) è l'urlo di Munch che fa a cazzotti col pentagramma…
Il blues, certo; quello che lega indissolubilmente i Rolling Stones, Captain Beefheart, i Cramps, i Pussy Galore… insomma, le influenze più esplicite del duo di Washington trapiantato a New York. Tuttavia, i Royal Trux sarebbero inconcepibili senza le cacofonie spaziali e maciullanti dei Chrome, gli scenari tetri e gelidamente espressionisti dei Faust, le sevizie elettroniche con cui i Pere Ubu detonavano il garage-rock, il caos scheletrico e sanguinario della "no-wave", e, volendo, anche le psicosi industriali dei Throbbing Gristle.
In sostanza, è come se Hagerty e Herrema, nell'accostarsi al mistero sacro del blues, scoprissero che una sua rilettura "radicale" non può non tener conto di tutti gli sviluppi eversivi che la musica del diavolo, sotto le finte spoglie del rock, ha subito in circa trent'anni di vita. E, allora, il blues è diventato per forza di cose "altro" da sé, filtrato da mille generi e da mille registri. Questo "altro", viene portato a compimento (cioè, rivelato) da "Twin Infinitives", opera incredibile, mostruosa, abnorme: irreparabilmente… miliare.
In che modo viene sviluppato questo "altro"? In che modo il duo attua la decostruzione (atonale, dissonante, "primale") del rock? Ebbene: lì dove i Pussy Galore si erano fermati ("Dial M For Motherfucker", 1989); lì dove i Sonic Youth, nel tentativo di re-inventare il rock (mediante la re-invenzione del suo strumento principe: la chitarra) si erano, a un certo punto ("Daydream Nation", 1988) dovuti "arrendere"; lì dove anche gli stessi Slint (padri incoscienti del "post-rock", tutt'altro che "post-", vero Simon Reynolds?) si erano limitati "semplicemente" (leggete tra le righe…) a spostare baricentri ritmici e/o timbrici (che, per quanto se ne voglia dire, non riuscirono a smembrare la "forma-canzone"): ebbene… lì, con il ghigno di un vampiro assatanato, i Royal Trux hanno continuato a infierire sulla carcassa, avvoltoi in un cielo ormai fin troppo cupo.
In pratica, i nostri hanno riplasmato il rock su coordinate non ufficiali, servendosi in maniera "eccessiva" di elementi storicamente "secondari": rumori (anarchici, come da manuale Faust), atonalità (nell'accezione più "astratta" di Arto Lindsay), dissonanze, (non-)ritmi, elettronica povera etc.. Hanno poi ulteriormente scosso questo sub-strato con stomachevoli influssi di cultura "junkie" e "sci-fi", mentre attuavano, parallelamente e quasi con fare distratto, la loro sudicia e malata rivisitazione del blues, il cui originario "spleen" esistenziale veniva trasfigurato in una forma attuale di nichilismo "spinto". In pratica: se, come dichiara Hagerty, "Twin Infinitives" è anche un attacco contro la società dei consumi, allora questo attacco viene condotto lungo direttive che, per forza di cose, si mostrano come distruttive e nullificanti. Ma si tratta solo di un aspetto: infatti, Hagerty e Herrema hanno in mente un'opera che ad un livello sociologico risulti essere non solo altamente "eversiva" (direi piuttosto "terroristica"), ma, soprattutto, anche capace di imporre nuove figurazioni dell'esistenza: il "Si" (joyciano) alla Vita. Ecco quanto dichiara Hagerty:" Al tempo stesso questo disco fu un messaggio "anti-escapista", rivolto al benessere spirituale rispetto che a quello materiale, un messaggio a favore dell'apertura mentale, della meditazione solitaria, e di un approccio generalmente positivo (si, positivo!) alla vita. Ma questo, ovviamente, comporta una dedizione completa da parte del fruitore, una vera e propria riscoperta dell'opera d'arte e, di conseguenza, del mondo cui quella stessa opera fa riferimento.
Il livello più alto, infine, è costituito dalla pseudo-strutturazione degli elementi di cui sopra. Anche quest'ultima si sviluppa per fasi successive. Innanzitutto, le forme preesistenti, che restano sullo sfondo e fungono da input creativo: di solito, accordi sgangherati di chitarra, lamenti abulici (sorta di canto sub-umano), loops deraglianti di drum-machine e cianfrusaglie soniche ricavate dall'organo o dal synth. L'uso sovversivo dell'elettronica, poi, unito alla disgregazione del ritmo, accentua questo collasso sonico. Si tratta di un'elettronica "polverizzata": "semica", per usare un termine caro ai pittori informali. Ed "informale", in fondo, è tutta la loro operazione.
Soffermiamoci, adesso, sullo scopo principale di "Twin Infinitives" (secondo quanto dichiara lo stesso Hagerty); e cioè: spingere l'arte di composizione rock fino ai limiti estremi, in modo che sia ancora rock'n'roll, ma non si riesca più a riconoscerlo come tale. In effetti, la superficie sonora sembra derivare da una struttura "originaria" esplosa. Solo che i cocci sono stati riordinati per strati sovrapposti e, soprattutto, non coincidenti (il che comporta un'"astrazione", una digressione che genera gli eventi sonori più paradossali, ma anche più formalmente rivoluzionari — si prenda, ad esempio, il caso di "Chances Are The Comets In Our Future"). In ognuno di questi strati si possono riconoscere sequenze "pianificate" e sequenze "improvvisate". Ad ogni modo, così come succedeva nelle opere più "libere" di Ornette Coleman, le diverse sorgenti sonore tendono a organizzarsi (apparentemente?) in modo libero e non secondo rapporti di forza. Si potrebbe applicare alla musica dei Royal Trux ciò che Charles Mingus diceva della musica di Charlie Parker: e, cioè, che si tratta di una specie molto particolare di "disorganizzazione organizzata" (insomma: "composizione" e "improvvisazione" finiscono per sovrapporsi).
Tutto questo, pervade da cima a fondo ogni singolo brano, come risulta evidente già dai primissimi secondi di "Solid Gold Tooth", un blues (!) rovente ricavato dal violentissimo amplesso tra un videogame impazzito, il duellare scomposto delle voci e un radiogiornale; il tutto immerso in una nebbia fittissima di eventi sonori irregolari e sfiancato da un cupo rigurgito di basso.
In "Ice Cream", un duetto di corde metalliche, stonate e tese allo spasimo, fa da contrappunto al canto imploso della Herrema. L'ammasso di suoni marci che schizzano da tutte le parti viene a galla con polluzioni infinitesimali, a tratti nervose. Una frase di tastiera psichedelica viene mantenuta in disparte, come un bagliore tenue dietro una foresta impenetrabile.
L'appiccicoso loop della drum-machine in "Jet Pet" viene traumatizzato dalle distorsioni tremolanti della sei corde, che si diffonde, metallica e convulsa, sul delirio vocale della Herrema. Altre parti di chitarra vengono sezionate impietosamente ed incollate alla buona sul nastro che scorre via.
Il caos percussivo di "RTX-USA" lascia intravedere un flauto "metafisico", delle lancinanti voragini chitarristiche e una pulsazione "chimica" che entra ed esce da questa colossale "free-form freak-out", tanto impietosa ed abominevole da far impallidire anche i "migliori" Red Crayola.
L'incubo più nero e incomprensibile, però, è quello di "Kool Down Wheels": sulla parete più lontana, si raccolgono, a grappoli, sibili, radiazioni nucleari e clangori sordi. Un organo sinistro disegna le sue traiettorie al di sopra della linea vocale di Hagerty, molto simile al lamento di un derelitto in mezzo all'infuriare dei miasmi atomici. E' una variante iper-distorta e subliminale della musica industriale "psichica" degli Einsturzende Neubauten e dei Factrix (la cui influenza è riscontrabile soprattutto nei fondali armonici dilaniati da possenti impeti schizofrenici). Un altro nome che viene in mente è quello dei californiani Chrome, soprattutto per quanto concerne la segmentazione tellurica degli squarci ritmici.
La voce della Herrema torna a seminare scompiglio in "Chances Are The Comets In Our Future", un brano che si auto-dilania lentamente, a causa della progressiva erosione della superficie sonora, dovuta ai soliti elementi di disturbo, quali sibili, feedback, lamenti oltretombali, sovrapposizioni e dissociazioni di parti pre-registrate, stupri tonali. Ciò che rende il metodo dei Royal Trux ancora più efferato, è la naiveté con cui ci si accanisce sia sulle parti pianificate (che vengono scomposte in frammenti sempre più piccoli), sia su quelle improvvisate in studio (che in una fase successiva subiscono un trattamento simile al "cut-up" di Burroughs). Questo procedimento, ovviamente, produce degli scarti, dei rifiuti musicali, evidentemente accantonati. Tuttavia, non credo ci sia molta differenza tra ciò che viene usato negli arrangiamenti dei brani e ciò che, invece, viene ritenuto inutilizzabile. La scelta è dettata solo da un impulso iconoclasta.
Il blues del Delta riecheggia nella chitarra abrasiva di "Yin Jim Versus The Vomit Creature", con tanto di biascicare inintelligibile di Hagerty. Sembra di assistere al rifacimento "elettrico" ed "industriale" della "China Pig" di Captain Beefheart.
Sibili astrali, dissonanze circolari, schianti armonici e riverberi metallurgici invadono il campo magnetico di "Osiris", detonata dalla spazialità nevrotica della sei corde. Questa non è più musica rock. E' "pittura-sonora astratta". E' Jackson Pollock alle prese con il noise-rock.
Ma è "(Edge Of The) Ape Oven" il capolavoro assoluto dell'album: 15 minuti e passa di psichedelia incastonata tra bolgie ardenti di free-noise . I primi 2'24" sono tra le cose più geniali e deliranti che il rock abbia mai prodotto: su di un tappeto schizoide di drum-machine e percussioni assortite, si innalza un immane fluttuazione cosmica alla Cluster, con tanto di armonica screziata in controluce; qua e là, tra gli accordi del piano, compaiono blandi accenni di free-jazz; nel frattempo, mentre l'armonica continua a blaterare inespressa, la voce di Hagerty viene filtrata da una lente deforme. E' solo il prologo al delirio chitarristico dei successivi 12'11". Tra rimbombi ed echi lisergici, Hagerty va dritto per la sua strada: la chitarra ripete caparbiamente sequenze di accordi infuocati, compie voli pindarici, prepara e sviluppa riff supersonici, si inabissa in universi hendrixiani. Le poche scariche adrenaliniche che si concede sono condite da fiammeggianti dissonanze in libera uscita, che riecheggiano i tonfi apocalittici intenti ad incenerire lo sfondo. Nel finale, quelle note prolungate e rivolte agli anfratti più minacciosi ed inaccessibili del cosmo, rivelano che la "stella nera" di Jerry Garcia è ancora lì a vagare nel nulla… Nonostante tutto.
Il "Florida Avenue Theme" suggella la loro inclinazione cacofonica con un minuto scarso di claustrofobia metropolitana. I fondali tenebrosi e iperrealisti che avvolgevano il delirio di Vega nella leggendaria "Frankie Teardrop" dei Suicide hanno preso il sopravvento, fino a diventare unico scopo ed unica fonte sonora del brano. Come se non bastasse, poi, in fase di registrazione sono stati privilegiati, non uno, ma diversi "punti di vista" (secondo le intuizioni più innovative di Charles Ives). E' il culmine della loro operazione di "distruzione" (più che di "de-costruzione") delle forme musicali.
A dettare il tempo in "Lick My Boots" è un loop ondulatorio di chitarra. La solita poltiglia di suoni sgradevoli segue la Herrema nei suoi tortuosi esercizi di non-canto. In "Glitterbust, violento cerimoniale industriale, le bordate elettrostatiche della chitarra entrano in risonanza con lo sconnesso e asincrono interplay delle voci. Altro grandissimo esempio della loro arte dadaista è il ballabile cacofonico di "Funky Son", con tanto di trombone filtrato e tempeste soniche indemoniate. Al delirio atonale di "Ratcreeps" segue "New York Avenue Bridge", una romanza per pianoforte suonata con un disturbante piglio scanzonato.
La scomposizione cubista del blues-rock è compiuta. Così come può dirsi compiuta la rifondazione del rapporto estetico tra artista (autore di un'operazione tutt'altro che "comunicativa") e pubblico (costretto a fare i conti con un'opera destabilizzante al massimo grado, in quanto, mentre nega tutte le caratteristiche fondamentali del genere che va a rivisitare, ne sviluppa gli aspetti più deteriori e raccapriccianti, dando vita ad un terrificante corto circuito sonico). Quello che conta, ormai, non è più il brano nella sua versione finale, ma il processo mediante il quale quel brano viene distrutto, ricomposto, assemblato secondo tecniche aleatorie, lasciato al suo destino di "forma mutante". La "forma compiuta" è solo un ricordo, un retaggio "classico". Non certo roba per bastardi matricolati come i Royal Trux, abituati da sempre a fare i conti con i riflessi più accecanti del caos.
08/11/2006